1.9.14

Come ho incontrato il "Gattopardo" (di Giorgio Bassani)

Lo scrittore Giorgio Bassani scoprì e lanciò Il Gattopardo. “La Repubblica” gli chiese, nel ventennale della morte di Tomasi di Lampedusa (22 luglio 1957), come fosse venuto in possesso del manoscritto e come giudicasse quel testo dopo due decenni di successo editoriale. Ecco la sua risposta. (S.L.L.)
Giorgio Bassani
Il manoscritto de Il Gattopardo mi venne segnalato nell'autunno del 1957. Lampedusa era già morto. La persona amica che me ne parlò per prima mi confidò d'avere l'impressione che il manoscritto fosse di mano d'una anziana signorina dell'aristocrazia palermitana. Incuriosito, andai a ritirare il testo. Ricordo che il pacchetto m'era stato lasciato nella guardiola del portinaio. Lo aprii immediatamente e cominciai lì stesso, a scorrerne le prime righe. Ebbi subito l'impressione che non si trattasse affatto d'un'anziana signorina, ma di un vero scrittore. Seppi, più tardi, che il manoscritto era del principe Tomasi di Lampedusa che avevo conosciuto, due anni prima, a San Pellegrino insieme a Lucio Piccolo, il poeta suo amico, in un incontro di giovani scrittori.
A quell'incontro era venuto, in treno dalla Sicilia, accompagnato da un servitore, anche Lampedusa. Quando fui più avanti nella lettura del manoscritto, il mio interesse si trasformò in entusiasmo. Chiamai la vedova a Palermo e ricordo che la principessa, con quel suo strano accento russo-tedesco, mi chiese al telefono: «Ma lei crede veramente che si tratta di bello libro?». «Stupendo», risposi e aggiunsi che avrei richiamato appena completato il manoscritto. Quando finii la lettura, mi accorsi per la verità che il testo era un po' tronco nel finale e di ciò parlai con la vedova dell'autore in una seconda conversazione. La principessa a quel punto mi chiese:« Lei crede che starebbe bene un ballo verso la fine?». Insomma mi mise sulla strada, e mi dette in seguito le indicazioni per rintracciare poi a Roma, da sua sorella, il manoscritto del capitolo del ballo, fondamentale nella struttura del racconto. Confrontando però quella nuova parte manoscritta col manoscritto che ne era stato tratto, m'accorsi delle molte imprecisioni e scorrettezze commesse da chi aveva fatto il lavoro. Decisi allora d'andare a Palermo per tentare di ritrovare l'intero manoscritto originale. La vedova di Lampedusa, la prima volta che le avanzai la mia richiesta, negò che il manoscritto esistesse.
Nel pomeriggio di quello stesso giorno però mi recai, in sua compagnia, a trovare il nipote di Lampedusa Gioacchino Lanza di Trabia, che oggi è direttore artistico dell'Opera di Roma. Anche con lui espressi il mio dispiacere per la perdita del manoscritto ma Gioacchino Lanza m'interruppe: «Come perduto? Il manoscritto è qui, l'ho io». E andò a prenderlo. L'originale del testo non solo conteneva il capitolo del ballo, di cui ero già venuto in possesso a Roma, ma anche un altro capitolo, quello del «Viaggio di padre Pirrone», fondamentale per dare al romanzo la dimensione spaziale e temporale di cui aveva bisogno.
L'editore Feltrinelli, che già allora s'era invischiato nella letteratura sperimentale, stampò il testo senza neanche rendersi conto di che cosa si trattasse. Ne tirò inizialmente 3 mila copie che ovviamente andarono subito esaurite. Allora ne ristampò altre 30 mila che si esaurirono a loro volta.
Se lo colloco nella prospettiva dei vent'anni che sono trascorsi giudico oggi quel romanzo importante come allora. Il Gattopardo non è un tentativo di restaurare il romanzo storico ottocentesco. E' invece un grande messaggio di cui ad esempio Vittorini, che com'è noto ne rifiutò la pubblicazione, non aveva capito il senso. Qual è questo senso? Per afferrarlo bisogna risalire a Verga. All'indomani del fallimento dell'unità d'Italia Verga aveva fatto intendere agli italiani che, tramontato quel tentativo, lui avrebbe cominciato a scrivere in siciliano. L'uso della lingua dell'isola era la rivolta dei siciliani contro l'unità, l'affermazione del loro separatismo, letterario se non politico.
Tra l'altro è per questo che Verga è un grande poeta e non un piccolo imitatore dei realisti francesi. Questo dunque per Verga. Cosa dice Lampedusa? All'indomani della fine della Resistenza (il testo fu scritto tra il 1955 e il 1956 e rivisto l'anno successivo) Lampedusa dice agli italiani che la guerra di liberazione è fallita, che il fallimento coinvolge l'intera nazione e che proprio per questo non è più necessario scrivere in siciliano. Si può benissimo scrivere in italiano colto, dal momento in cui siamo tutti siciliani.
E' la stessa cosa che Sciascia ha cominciato a sostenere da qualche anno, proprio lui che aveva polemizzato all'inizio col principe di Lampedusa vinto dai suoi complessi piccolo-borghesi.
Lampedusa genialmente scavalcò il sicilianismo e con questa operazione ricongiunse la letteratura dell'isola a quella nazionale. E non credo sia stato un caso che sia toccato a me di stampare quel testo. Come Lampedusa, non ho sempre descritto anch'io, in qualche modo, il tramonto delle grandi illusioni?



“la Repubblica”, 25 luglio 1977

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