Lo scrittore Giorgio
Bassani scoprì e lanciò Il Gattopardo. “La Repubblica”
gli chiese, nel ventennale della morte di Tomasi di Lampedusa (22
luglio 1957), come fosse venuto in possesso del manoscritto e come
giudicasse quel testo dopo due decenni di successo editoriale. Ecco
la sua risposta. (S.L.L.)
Giorgio Bassani |
A quell'incontro era
venuto, in treno dalla Sicilia, accompagnato da un servitore, anche
Lampedusa. Quando fui più avanti nella lettura del manoscritto, il
mio interesse si trasformò in entusiasmo. Chiamai la vedova a
Palermo e ricordo che la principessa, con quel suo strano accento
russo-tedesco, mi chiese al telefono: «Ma lei crede veramente che si
tratta di bello libro?». «Stupendo», risposi e aggiunsi che avrei
richiamato appena completato il manoscritto. Quando finii la lettura,
mi accorsi per la verità che il testo era un po' tronco nel finale e
di ciò parlai con la vedova dell'autore in una seconda
conversazione. La principessa a quel punto mi chiese:« Lei crede che
starebbe bene un ballo verso la fine?». Insomma mi mise sulla
strada, e mi dette in seguito le indicazioni per rintracciare poi
a Roma, da sua sorella, il manoscritto del capitolo del ballo,
fondamentale nella struttura del racconto. Confrontando però quella
nuova parte manoscritta col manoscritto che ne era stato tratto,
m'accorsi delle molte imprecisioni e scorrettezze commesse da chi
aveva fatto il lavoro. Decisi allora d'andare a Palermo per tentare
di ritrovare l'intero manoscritto originale. La vedova di Lampedusa,
la prima volta che le avanzai la mia richiesta, negò che il
manoscritto esistesse.
Nel pomeriggio di quello
stesso giorno però mi recai, in sua compagnia, a trovare il nipote
di Lampedusa Gioacchino Lanza di Trabia, che oggi è direttore
artistico dell'Opera di Roma. Anche con lui espressi il mio
dispiacere per la perdita del manoscritto ma Gioacchino Lanza
m'interruppe: «Come perduto? Il manoscritto è qui, l'ho io». E
andò a prenderlo. L'originale del testo non solo conteneva il
capitolo del ballo, di cui ero già venuto in possesso a Roma, ma
anche un altro capitolo, quello del «Viaggio di padre Pirrone»,
fondamentale per dare al romanzo la dimensione spaziale e temporale
di cui aveva bisogno.
L'editore Feltrinelli,
che già allora s'era invischiato nella letteratura sperimentale,
stampò il testo senza neanche rendersi conto di che cosa si
trattasse. Ne tirò inizialmente 3 mila copie che ovviamente andarono
subito esaurite. Allora ne ristampò altre 30 mila che si esaurirono
a loro volta.
Se lo colloco nella
prospettiva dei vent'anni che sono trascorsi giudico oggi quel
romanzo importante come allora. Il Gattopardo non è un
tentativo di restaurare il romanzo storico ottocentesco. E' invece un
grande messaggio di cui ad esempio Vittorini, che com'è noto ne
rifiutò la pubblicazione, non aveva capito il senso. Qual è questo
senso? Per afferrarlo bisogna risalire a Verga. All'indomani del
fallimento dell'unità d'Italia Verga aveva fatto intendere agli
italiani che, tramontato quel tentativo, lui avrebbe cominciato a
scrivere in siciliano. L'uso della lingua dell'isola era la rivolta
dei siciliani contro l'unità, l'affermazione del loro separatismo,
letterario se non politico.
Tra l'altro è per questo
che Verga è un grande poeta e non un piccolo imitatore dei realisti
francesi. Questo dunque per Verga. Cosa dice Lampedusa? All'indomani
della fine della Resistenza (il testo fu scritto tra il 1955 e il
1956 e rivisto l'anno successivo) Lampedusa dice agli italiani che la
guerra di liberazione è fallita, che il fallimento coinvolge
l'intera nazione e che proprio per questo non è più necessario
scrivere in siciliano. Si può benissimo scrivere in italiano colto,
dal momento in cui siamo tutti siciliani.
E' la stessa cosa che
Sciascia ha cominciato a sostenere da qualche anno, proprio lui che
aveva polemizzato all'inizio col principe di Lampedusa vinto dai suoi
complessi piccolo-borghesi.
Lampedusa genialmente
scavalcò il sicilianismo e con questa operazione ricongiunse la
letteratura dell'isola a quella nazionale. E non credo sia stato un
caso che sia toccato a me di stampare quel testo. Come Lampedusa, non
ho sempre descritto anch'io, in qualche modo, il tramonto delle
grandi illusioni?
“la Repubblica”, 25
luglio 1977
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