6 luglio 1962: William
Faulkner muore a Oxford, Mississippi, dove ha trascorso quasi tutta
la sua esistenza. 30 settembre 1962: il giovane studente nero James
Meredith, scortato da alcuni agenti di polizia, riesce a iscriversi
all’Università del Mississippi, a Oxford, dopo che il governatore
Barnett ha cercato di impedirglielo. Scoppiano disordini, con due
morti, e il presidente Kennedy invia le truppe per ristabilire
l’ordine: alcuni giorni di autentico conflitto civile. Io c’ero;
avevo appena reso omaggio alla tomba ancora provvisoria di Faulkner,
e assistendo a questo che va giudicato forse l’ultimo caso di
tragedia razziale negli Stati Uniti, pensai che la morte aveva
risparmiato Faulkner dall’assistervi.
Faccio questa riflessione
sfogliando il ricco, denso volume di William Faulkner, W.F.
Scritti, discorsi e lettere, a cura di James B. Meriwether, in
uscita dal Saggiatore, perché numerose, decisive pagine riguardano
proprio il complesso, a suo modo tormentato, atteggiamento del
sudista Faulkner di fronte al nodo dell’antagonismo e/o della
convivenza razziale. Notate bene: Faulkner non era in alcun modo
razzista. Aveva rifiutato di scrivere l’epitaffio commemorativo per
i caduti in guerra sulla facciata del palazzo della contea, quello
che domina il primo capitolo di Requiem per una monaca, perché
non vi figuravano i neri. In una delle numerose lettere inviate ai
giornali, ora raccolte nel volume, del 1956 Faulkner aveva espresso
(a un giornale del nord) la sua sofferenza per gli attacchi subiti
dai segregazionisti: «Restare sudisti senza tuttavia condividere il
punto di vista della maggioranza sudista», contraria
all’integrazione. Ma egli non esitava a manifestare la sua
opposizione all’integrazione immediata e incondizionata». Così,
ammoniva: «Rallentare, ora. Fermatevi per un po’, per un momento».
Parlava, qui, l’uomo del profondo Sud, e avvertiva: «Il nordista,
il liberale, non conosce il Sud».
Quel Sud era stato
sconfitto, e senza dubbio umiliato, dal Nord un secolo prima, con la
guerra civile. La sconfitta del Sud non aveva distrutto soltanto un
sistema politico e comportamentale ma una cultura nel senso più
ampio della parola, una cultura, tra l’altro, fondata in larga
misura sull’utopia, quella che aveva sostanzialmente contribuito,
con i sudisti Washington e Jefferson, a sostanziare i principi della
Costituzione americana. Ma gli storici hanno spiegato che all’utopia,
alla morale sudista si contrapposero i valori concreti della società
dei commerci, del profitto, dell’industria, peculiari del Nord.
Così, affrontando l’inquietante problema del «profondo Sud in
travaglio», Faulkner formula un interrogativo fondamentale: «Il
Sogno americano: che ne è stato?». Qui prende vigorosamente la
parola l’intellettuale militante del Sud, nel segno di un paradosso
che Faulkner ha incarnato come molta parte della cultura del Sud
sconfitto: l’universalità del suo respiro, di cui Faulkner è una
delle più vigorose espressioni. «L’America non ha ancora trovato
posto a colui che si occupa soltanto di cose dello spirito umano»,
preoccupandosi di vendere sapone o sigarette o penne stilografiche.
Lo scienziato e l’umanista «potrebbero ancora salvare la civiltà».
Così, l’integrazione
imposta per legge ai sudisti arriva direttamente da quale sogno
tradito, o falsato, del quale il Sud rimane tormentosamente
depositario. Insisto sul «tormentosamente» o addirittura
tragicamente, due componenti - se permettete - quasi shakespeariane
dell’arte di Faulkner. Purtroppo, «l’America non ha bisogno di
artisti perché essi non contano in America».
L’eredità sudista
sostanzia l’autentico umanesimo - termine che emerge non a caso -
peculiare della sua tradizione. Ma le contraddizioni non si possono
cancellare e allora la creatività le fa proprie. Sta qui la
grandezza di Faulkner. Le pagine, assai numerose, che Faulkner dedicò
alla letteratura ribadiscono la centralità dell’identità sudista
persino a livello geografico, quotidiano «il suo respiro, il sangue,
la carne, tutto» e la sua capacità di trascenderla. La parola
«tragedia» ricorre non a caso nel discorso di accettazione del
premio Nobel, per cui la sua è «l’opera di una vita trascorsa
nell’agonia (io avrei tradotto lo agony con «sofferenza» o
«struggimento») e nel sudore dello spirito umano. Dunque: ridiamo
vigore ai problemi dello spirito.
Chi non conosca a fondo
l’opera di Faulkner si stupirà perché in ogni sua discussione
sulla letteratura, sembri quasi del tutto indifferente alle
problematiche del linguaggio, lui, uno dei massimi reinventori del
linguaggio narrativo del Novecento. Nelle recensioni, nelle
prefazioni, nelle lettere, Faulkner si cimenta quasi esclusivamente
con tematiche speculative. Incidentalmente, è nota e dichiarata la
sua indifferenza per Joyce, ovvero per uno dei maestri del linguaggio
novecentesco. Scegliamo a caso due esempi quanto mai significativi.
Uno è il breve contributo dedicato a uno dei pochi scrittori
stranieri di cui si occupa: Camus. «Rifiutò di seguire il sentiero
la cui unica meta era la morte... Il sentiero che seguì aveva per
meta la luce del sole». L’altro riguarda un solo, ampio capoverso,
su Il vecchio e il mare di Hemingway. «Il suo meglio»,
afferma risolutamente Faulkner. «Finora i suoi uomini e le sue donne
si erano fatti da sé... Stavolta ha scritto della pietà: di
qualcosa che da qualche parte li ha creati tutti». Non
dimentichiamo, la dimensione dell’ironia mai gratuita. Eccola
applicata, corrosivamente, alla politica: «La nostra vecchia
politica estera era la politica interna di un casinò... Quella nuova
sembra il direttore del casinò che chiede alla propria categoria il
permesso di armare di pistola il buttafuori. Attenzione all’anno: è
l’11 febbraio 1957. Faulkner è sempre da riscoprire.
“Tuttolibri – La
Stampa”, 25 settembre 2010
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