L'articolo di Francesca
Lazzarato qui “postato”, apparve su una Talpa del “manifesto” nel '91. Sollecitato da alcune pubblicazioni del
tempo e da alcune notizie di cronaca risulta tuttora uno stimolante percorso, che tuttavia approfondimenti e aggiornamenti. (S.L.L.)
Charles Laughton nel ruolo di Quasimodo in "Il gobbo di Notre-Dame" (Dieterle 1939) |
Mentre sta per chiudersi
a Napoli una serie di incontri votati a interrogare il concetto di
bellezza così come ha preso corpo nel passato, l'attualità recente
ci consegna una sequenza di aneddoti che mettono in primo piano il
dramma della bruttezza nelle sue spietate declinazioni al presente.
In un paesetto siciliano tre giovanissime sorelle, stanche di essere
continuamente e pubblicamente derise per la loro scarsa grazia
fisica, accoltellano il loro principale sbeffeggiatore davanti agli
occhi di tutti, riducendolo in fin di vita.
In Lombardia una
altrettanto giovane estetista viene licenziata dall'istituto di
bellezza che l'ha assunta per un periodo di prova: ha le gambe troppo
grosse per continuare a lavorare in un simile santuario del fascino
femminile.
Negli Stati uniti, una
hostess vince la causa contro il suo datore di lavoro, una compagnia
aerea che intendeva imporle l'obbligo del maquillage (e che del resto
chiede a tutti i suoi dipendenti di attenersi a precise regole
estetiche: trucco e messa in piega impeccabile per le donne, capelli
corti per gli uomini).
Emarginati e derisi
Sono solo tre piccole
storie, di quelle che la cronaca delle ultime settimane inscrive nel
genere delle «notizie curiose», dei microscopici faits divers
da dieci righe a fondo pagina. Ma sono anche tre testimonianze del
fatto che niente, ancora, sembra aver cancellato la biblica
esclusione del corpo «difettoso» («Ciascun uomo della tua razza, e
ogni tuo discendente che abbia un difetto fisico, non potrà
accostarsi al sacrificio divino. Chiunque abbia un difetto fisico non
potrà avvicinarsi: un uomo cieco o zoppo, col naso camuso o un arto
troppo lungo: un uomo col piede o la mano fratturati: un uomo gobbo
oppure orbo...» Lev. XXI.17-20) o fatto cessare definitivamente
quello che Jean Héritier chiama, in una sua recentissima storia
della bruttezza, «il martirio dei brutti» (Le martyre des
affreux. La dictature de la beauté. Denoèl. 1991). terribile
miscela di emarginazione, derisione e torture fisiche imposte dalle
protesi e dalle mille panacee che dovrebbero rimediare alle
«mancanze» della natura.
Bello,
cioè buono
Mai come adesso, infatti,
sottolinea Héritier. c'è stata richiesta di corpi lisci, fiorenti,
sani, perfettamente aderenti a un modello prefissato; e mai come
adesso si è cercato a qualsiasi costo di costruirseli con ogni
mezzo, perché «la bellezza è sempre più vissuta come una forma di
cortesia che si deve agli altri, e soprattutto come un simbolo di
riuscita sociale».
Sono sempre le élites,
dice il giovane storico francese, a imporre oggi come ieri la norma
estetica e a farne il primo, indispensabile requisito per rendersi
«riconoscibile»: è per questo che «chiunque voglia avere una
audience cerca di migliorare il proprio aspetto o di costruirsi una
maschera»; è per questo, scrive Isabelle Faivre in Autoplastie
de l'apparence (n.3-4 di “Ethnologie Francaise”) che «non si
può lasciarsi andare. Bisogna rimodellare, stimolare, nutrire,
proteggere, rassodare, eliminare, rinforzare, prolungare,
rigenerare».
Ma che ne è di tutti
quelli che non possono permettersi di partecipare a questa sinfonia
del «corpo magnificato», di adeguarsi, di pagare per diventare una
delle tante «bambole sanguinanti» sottomesse al bisturi che gonfia
le labbra o tira su il seno? Semplicemente, li si giudica brutti,
senza mai riuscire, tra l'altro, a prescindere del tutto dall'antica
identificazione tra Bello e Buono, poiché il corpo non ha mai
cessato di rappresentare, per noi, lo specchio dell'anima. Per
rendersene conto basta pensare alla complessa fisiognomica espressa
dai proverbi popolari, che attribuiscono a ogni dettaglio fisico un
significato caratteriale, o alla contrapposizione diretta e brutale
tra la bella orfana conculcata e la perfida bruttona cui, nelle fiabe
folkloriche, crescerà in fronte una coda d'asino o un sanguinaccio.
E agli stessi principi è
fedele buona parte di quella narrativa popolare che Antonia Arslan
esamina a fondo in Dame, droga e galline (Unicopli, 1986),
mettendo in luce come i personaggi principali siano, allo stesso
tempo, dei tipi ben riconoscibili, la cui malvagità o bontà sono
fisicamente connotate (pensiamo, tanto per fare un esempio, alla
terribile bolscevica Vera, crudele quanto brutta, in Schiava o
Regina di Delly, o al Maitre d'école dei Misteri di Parigi
di Zola).
A questa fisiognomica
spicciola, ancora vivissima nella pratica quotidiana, ne corrisponde
un'altra, più «scientifica», coltivata nel medioevo da Averroè e
Alberto Magno e nel Cinquecento da Giambattista della Porta,
sistematizzata nel 1775 dalle 500 tavole dei Frammenti Fisiognomia di
Johan Kaspar Lavater (pastore calvinista svizzero che tentò di
conciliare illuminismo ed esoterismo cristiano in una nuova scienza
dell'anima e del corpo), e infine sfociata nell'antropologia
criminale di Cesare Lombroso (L'uomo delinquente, 1876) e
nelle misurazioni frenologiche di Alphonse Ber-tillon, che nel 1893
riuscì a creare, a Parigi, un Service de l'identité judiciaire.
Così orecchie ad ansa,
prognatismo, strabismo, asimmetria, sopracciglia troppo folte,
accentuate bozze frontali, occhi troppo vicini e mille altri segni di
disarmonia e di diversità vengono classificati e decifrati in
funzione di una lettura del corpo tesa a identificare tutto ciò che
si sottrae alla norma o che a essa contravviene, perché «resta
esigenza dell'uomo medio, lombrosianamente onesto, il cercare nel
delinquente tutto ciò che, costituendolo come diverso, rassicuri nei
confronti vuoi della propria auto-immagine di uomo normale, vuoi di
naturali diritti di autodifesa», scrive Mario Portigliatti Barbos in
La scienza e la colpa. Crimini criminali criminologi: un volto
dell'ottocento (a cura di Umberto Levra, Electa, l985).
Bruttezza come sinonimo
di crimine, dunque, ma anche segno di appartenenza a una classe
sociale bassa e servile: il nobile medioevale ha il capelli biondi,
lo sguardo vivo, il colorito rosa, mentre il villano ha la pelle
olivastra, occhi opachi, brutte mani e brutto viso, un corpo
grottesco, riferisce Stanley Leman Galpin in Cortois and Vilain,
uno studio sulla poesia provenzale pubblicato nel 1905. E Jack
London, disceso ai primi del '900 nelle tenebre dell'East End
londinese, conferma, in Il popolo dell'Abisso (Sonzogno, 1974)
che davvero i poveri sono brutti.
«C'erano anche altre
facce e forme, - scrive London - strane, bizzarre, mostruosità
contorte che mi toccavano da ogni parte, inconcepibili tipi di cupa
bruttezza, relitti della società, le carcasse ambulanti, morti
viventi...e uomini, in abiti fantastici, alterati dalla miseria e
senza più le sembianze di uomini».
In quale casella
verrebbero collocati, costoro, dalla moderna morfopsicologia,
incarnazione attuale della fisiognomica che, denuncia Héritier, a
partire dagli anni '80 propone ai capi del personale delle grandi
imprese nuovi modi di valutazione dei «candidati», per identificare
«il nervoso-infatico che sarà l'ideale in materia di gestione, o il
futuro leader, bilioso o sanguigno»?
Eppure, nonostante tutto,
esiste anche una bruttezza «santa» (confortata dal Nuovo Testamento
che, tramite Giovanni, afferma: «La carne non conta», e sostiene,
con Matteo, che «dal corpo vengono i cattivi pensieri»). Unica vera
bellezza nascosta nell'involucro della virtù spirituale: tale è, ad
esempio, quella della Jane Eyre di Charlotte Brònte o della
Anne Elliot di Persuasione (forse il più maturo tra i romanzi
di Jane Austen), e soprattutto di Brigitta, l'ungherese dagli
occhi neri e dal colorito scuro che Adalbert Stifter elegge a
protagonista in un incantevole libro del 1842, proposto di recente
dalla Marsilio nella traduzione di Matteo Galli. Priva di ogni
grazia, e perciò non amata e ignorata dalla sua stessa famiglia (che
non possiede - come la moglie di Abdia, altro «brutto» stifteriano
- «gli occhi spirituali, quelli del cuore»), Brigitta trova
tuttavia un uomo capace di darle ciò che essa esige: «un amore
estremo, perché io so di esser brutta, e perciò pretenderei un
amore più grande di quello che attende la fanciulla più bella di
questa terra. Non so quanto grande ma mi pare che debba essere senza
misura e senza confini».
Ed è giusto che sia così
poiché, dice Stifter, non sempre siamo in grado di dire ove risieda
l'incanto: «è nell'universo, è in uno sguardo, e
invece non lo troviamo in lineamenti che pure sono modellati a rigor
di norma».
Ma il brutto può piacere
proprio in quanto tale: lo sanno bene i protagonisti maschili della
Fosca di Tarchetti (1869) o della Roberta di Luciano
Zuccoli, stregati da due bruttissime donzelle che divengono però
sessualmente interessanti; e non per la purezza dell'anima loro, ma
perché l'eccesso patologico spalanca davanti agli innamorati un
abisso irresistibile.
Chi piangerebbe
Desdemona obesa?
Solo che la donna brutta
è raramente una Fosca, e l'uomo brutto non indossa sempre i panni di
Cyrano, nasuto quanto tenero e geniale: la bruttezza «famosa», la
bruttezza che Velasquez prova gusto a ritrarre e Tarchetti a
esaltare, non modifica in nulla la concreta situazione di chi si sa
poco attraente, di chi è licenziato per via di un polpaccio troppo
florido, di chi deve ricorrere al tribunale per evitare di dipingersi
la faccia.
«Se Desdemona fosse
grassa, a chi importerebbe se Otello la strangola? Come mai le
ragazze torturate dai nazisti sulle copertine delle più scadenti
riviste per soli uomini sono sempre bellocce? Farebbero tutt'altro
effetto se fossero grasse. Invece di trovare la cosa immorale o
sessualmente stuzzicante gli uomini la troverebbero comica», scrive
giustamente Margaret Atwood in Lady Oracolo (Astrea 1986),
immaginaria autobiografia di una cicciona che alla fine riesce a
«sgusciar fuori dal suo corpo come da un baccello», ma che non si
libererà mai del proprio fantasmatico «doppio» obeso.
Ammirazione per il
Mostro
Non c'è dunque speranza
per i brutti che debbono o vogliono, in quest'epoca di prodigiosi
cyborg costruiti sul tavolo operatorio, restare tali? E non c'è
nessuno che voglia affermare, come Cyrano nella lunga tirata in
difesa del proprio naso, un sempre negato «diritto alla bruttezza»?
Se è scontato che il
Brutto sia soprattutto compatito o deriso, è altrettanto certo che
il Mostro viene ammirato, temuto e adorato. Meglio, forse, incarnarsi
in un Freddy Kruger o in un Edward Mani-di-Forbice, piuttosto che
continuare a barcamenarsi tra l'intolleranza dell'estetica e
l'ansioso tentativo di adempiere totalmente i dettami di una cultura
somatica, dice Héritier. che fa del corpo «un pezzo separato, semi
autonomo e funzionale, d'una macchina collettiva ad alta tecnologia».
"la talpa libri il manifesto", 14 giugno 1991
"la talpa libri il manifesto", 14 giugno 1991
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