Un polemico intervento di Mengaldo, in apparenza contro il
solo Cesare Segre, ma in generale diretto contro il diffuso pasolinismo
postumo. (S.L.L.)
Nell'ultimo «Espresso»
un servizio sulla nuova raccolta di interventi critici di Pasolini
(Il portico della morte) è corredato da un'intervista al
prefatore, Cesare Segre. Dopo un'autocritica su una sua passata
polemica con Pasolini critico («mi ero sbagliato»), lo studioso
snocciola varie affermazioni, non so se più opinabili o gravi
(avventate non direi, data l'equilibrata cautela e la refrattarietà
agli umori del momento che per solito lo contraddistinguono), sulla
presunta cecità colpevole del mondo letterario italiano nei
confronti di Pasolini.
Vediamo un po': perché
l'autorevolezza dell'opinante è notevole e nel caso trae ulteriore
forza, oggettivamente e fors'anche soggettivamente, dall'apprezzabile
(ma anche eccessiva) palinodia. Lasciamo stare la perentoria
asserzione che Pasolini sia «con Gianfranco Contini, il più
grande critico letterario
del Novecento Italiano»: ognuno avrebbe qualche nome opportuno da
aggiungere (Solmi, Debenedetti...). Ma senz'altro stupefacente è
quella che «la critica italiana», nel suo assieme e pare anzi nella
sua interezza, abbia negato o taciuto l'importanza di Pasolini
critico, preferendo «ignorare, fingere che Pasolini non sia mai
esistito». Segre dovrebbe saper bene che è vero quasi esattamente
il contrario: basta scorrere i migliori critici che si sono occupati
degli stessi «oggetti» o le migliori monografie complessive su
Pasolini (Santato, Brevili). A titolo personale, ricordo che proprio
io, che fino a parola contraria della critica italiana faccio parte,
ho sostenuto e illustrato a lungo il grande valore di Pasolini
critico, specie per Passione e ideologia, in un articolo
uscito in Francia nell'81 e in Italia nell'83 che lo stesso Segre
conosceva bene quando ha
scritto la prefazione
alla ristampa einaudiana di quel libro (1985); e che comunque ora è
comodamente contenuto in una mia raccolta di saggi, da mesi in
libreria, dove figurano altri ragionati giudizi positivissimi sugli
scritti critici di Pasolini. Se poi, come Segre suggerisce, il volume
da lui introdotto è tale da accrescere ulteriormente la statura del
critico Pasolini, benissimo: siamo pronti (quasi) tutti a
riconoscerlo con gioia. In base alle stesse motivazioni e con la
stessa decisione («Questa è la verità») Segre sostiene anche che
la poesia pasoliniana è stata disconosciuta o rimossa, con pari
cecità o peggio, da critici e colleghi. Per i primi è da negare
che, con l'eccezione di qualche «avanguardista», quelli che contano
abbiano misconosciuto il rango di Pasolini poeta; ne hanno solo
discusso, come era loro diritto e dovere, il posto nel quadro
generale, la «tenuta», i presupposti ideologici. Quanto ai
colleghi, l'intervista recita testualmente che «quella presenza
grandissima e importantissima, ma scomoda e ingombrante, non lasciava
spazio alle altre voci poetiche» e che dopo la morte di Pasolini
«molti poeti italiani si sono sentiti pienamente risollevati, han
potuto dimostrare che esistevano». Richiesto di nomi, Segre fa
quelli di Sereni e Zanzotto, mentre preferisce non citarne altri
«meno autorevoli» di quei due. Mi pare una sortita difficile da
qualificare, e anche da controbattere. Zanzotto, che ha dedicato a
Pasolini interventi altrettanto generosi che acuti, potrà dir la sua
se vuole. Sereni non può rispondere più ; ma basti ricordare che
Gli strumenti umani, uno dei grandi libri di poesia di questo
quarantennio, è uscito nel '65, e che l'idea e pratica sereniane
della poesia, come sa ogni buon lettore, non sono neppure tangenti a
quelle di Pasolini. Che i bersagli veri siano i taciuti? Sarebbe
interessante, invece, conoscere i nomi: Caproni, Bertolucci, Fortini,
Giudici, Pagliarani...?
In conclusione, Segre
sostiene che è improbabile che si possa ridare a Pasolini quel che
merita, «cioè molto di più di quanto gli è stato dato in questi
anni», perché «il mondo letterario italiano è ormai di una
volgarità preoccupante», antitetica allo stile di Pasolini.
D'accordo per buona parte del mondo letterario italiano, ma temo che
questa intervista certo contro le intenzioni e lo
stile abituale dello
studioso Segre, finisca per portare acqua al mulino della deprecata
volgarità, anche perché sembra accreditare la tesi, insieme vulgata
e volgare, della «congiura» antipasoliniana. Ma certamente
l'interessato veglierà contro questa spiacevole, ma probabile,
conseguenza del suo drastico intervento. Nel quale è possibile che
qualcuno colga, accanto alla giusta ammirazione per la «rigorosa
coscienza intellettuale» ecc. di Pasolini, anche una generale
adesione alla sua «ideologia». Su questo dico soltanto che a molti
non sfugge l'uso ideologicamente e politicamente grottesco che si fa
da tempo, e spesso impunemente dell'eredità di Pasolini, in Italia e
fuori. E che per esempio, se i resti di quella sinistra che un tempo
giudicava discutibile la visione pasoliniana del cosiddetto
«Sessantotto» continuano a giudicarla tale, fanno semplicemente il
loro dovere.
“il manifesto”,
ritaglio senza data, ma 1988.
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