Parce sepulto,
“perdona chi è morto e
sepolto”, scrisse Virgilio, e lo stilema passò in proverbio. Per
don Gelmini, il prete antidroga ridotto allo stato laicale, fondatore
della Comunità Incontro, non si è aspettata la sepoltura, è
bastata la notizia della morte e più che un perdono è stata una
apoteosi, una anticipata beatificazione. Nel sito della Comunità una
grandissima foto lo salutava “Ciao Don”, mentre le note
dell'Alleluja di
Haendel risuonavano nella camera ardente e il cordoglio invadeva
tutto l'orbe terracqueo. Né mancava nel sistema politico-mediatico
chi vedeva intorno al morto l'aura e l'aureola del martirio:
Gasparri, per esempio, parlava di persecuzioni.
Tv e
giornali, quasi imbeccati da veline, hanno glissato compatti sul
passato del personaggio, pur ricordando il processo che lo vedeva
imputato per abusi sessuali contro alcuni giovani ospiti della
Comunità, ma di sfuggita, come cosa di scarsa importanza. Le testate
più destrorse peraltro, concordi nel dichiarare inconsistenti le
accuse, hanno dato spazio all'autodifesa del defunto o alle parole
dei suoi avvocati: Gelmini al tempo del rinvio a giudizio aveva
parlato di una congiura di “toghe rosse” e “poliziotti infami”
e gli avvocati hanno sempre insistito sulla inattendibilità degli
accusatori collegandola alla richiesta di un risarcimento.
L'innocenza del prete oramai è destinata a rimanere presunta, mai
proclamata in giudizio; ma le cronache del tempo (2007) raccontano di
una istruttoria scrupolosa che passa al setaccio le 52 convergenti
testimonianze di accusatori, riducendole ad una dozzina, quelle più
convalidate da riscontri probatori.
Processo
a parte, i media parlano di “una vita a fianco dei
tossicodipendenti”, fin da quando nel 1963 un poveretto gli chiede:
“zì prete, aiutami”; così rimuovono gli alti e i bassi di un
percorso tra la polvere e l'altare. In verità era il 1969 e Gelmini
era uomo fatto (44 anni, prete da venti), segretario del cardinale
Copello, già arcivescovo di Buenos Aires, passato alla Curia
vaticana come Cancelliere di Santa Romana Chiesa, quando arriva la
prima condanna (tre mesi per assegni a vuoto). Nello stesso anno
compra una bella villa a Casal Palocco. Ma non può godersela: i
carabinieri lo arrestano proprio lì il 13 novembre, trovando in
giardino la sua Jaguar: è accusato di truffa per il fallimento di
una cooperativa edilizia affiliata alle Acli, di cui è tesoriere, ed
è coinvolto nell’inchiesta su una ditta di import-export tra
Italia e Argentina da lui costituita. Ripara nel Vietnam del Sud,
amico della vedova di Diem, il dittatore filoamericano assassinato
nel 1963, e di un fratello di costui, arcivescovo; ma quando il
prelato e la signora lo accusano di appropriazione indebita,
preferisce tornare in Italia e scontare in carcere la condanna
irrogata in contumacia.
Risale
agli anni 70 l'impegno per i drogati che culmina nella costituzione
della Comunità Incontro e nell'acquisizione del terreno ad Amelia,
intorno a un frantoio abbandonato, il Mulino Silla. Nasce da qui
l'impero di Gelmini, abilissimo nel trovare sponsor e denaro: in una
ventina di anni le comunità si diffondono nel mondo; in Italia dopo
il 2000 se ne contano 162. Vantano 11 mila ospiti, ma forse il
calcolo è esagerato, se il governo parla di 12 mila in tutte le 730
comunità censite in Italia. La gloria di Gelmini è esaltata da
amicizie altolocate: papa Wojtyla, che adora i personaggi carismatici
seppure un po’ bizzarri, e durante il Giubileo accoglie i
rappresentanti delle Comunità Incontro; cardinali importanti; un
prete televisivo assai presente nell'anno giubilare; e, fuori dal
circuito religioso, Sua Emittenza Berlusconi, che aspira a un potere
politico incontrastato, finanzieri, costruttori, tanti uomini
politici, non solo di destra.
Non
ha solo amici: le operazioni edilizie spregiudicate, un potere
assoluto sulle comunità e un antiproibizionismo senza incrinature
gli procurano ostilità. Nel mondo ecclesiastico non apprezzano la
sua megalomania. Già dal 1963 aveva cominciato a farsi chiamare
Monsignore senza esserlo e il Vaticano lo aveva più volte diffidato;
nel 1988 Gelmini, pur essendo sacerdote di rito latino, aderisce a
una Chiesa cattolica di rito orientale, quella melkita, che lo
insignisce della dignità di Esarca Mitrato. Non è carica
equivalente all'episcopato come va raccontando - a un Concilio
ecumenico non potrebbe partecipare - ma durante le funzioni porta la
mitra in testa.
Il
trionfo coincide con i fasti del berlusconismo: ospite acclamatissimo
in tutte le feste di regime, Gelmini è tra i pricipali sostenitori
della stretta proibizionistica della legge Fini-Giovanardi e
Berlusconi in persona va a trovarlo, staccando assegni milionari. Le
solidarietà politiche non cessano quando lo scandalo sessuale di cui
già si chiacchierava si traduce in un'ampia inchiesta, anzi si
costruisce una sorta di parallelo tra il calvario di Berlusconi e
quello di Gelmini.
Ma con Ratzinger a Roma
l'aria è cambiata e si accentua nei confronti di Gelmini l'ostilità
del vescovo di Terni, Paglia. Quando si diffonde la notizia della
“riduzione allo stato laicale”, i suoi precisano che lo ha
chiesto il Don per difendersi meglio, ma lui sbotta: “Rigetto il
concetto del Vaticano come centro religioso: è un centro politico,
qualche volta ambiguo e fuorviante. Altra cosa è la chiesa di
Cristo... Gli intrallazzi non sono fede. Bisogna tornare a Cristo non
al cesaro-papismo... Monsignor Paglia non ha alcuna giurisdizione su
di me, per me è zero. Io appartengo alla chiesa cattolica melchita.
Il mio superiore è il patriarca Gregorio III. Per me Paglia è solo
il portalettere del Vaticano. Qui non deve provare a mettere
piede...”. A Roma aumentano le perplessità e si comincia a mettere
in discussione il sistema di recupero dei tossicodipendenti inventato
dal Don, la Cristoterapia, che a non pochi pare una mescolanza
impropria tra sacro e profano. Sconterà con un relativo isolamento
queste prese di distanza.
La morte di Gelmini
arriva in un contesto mutato: il rigido Ratzinger non è più papa,
l'odiato Paglia è stato rimosso senza essere stato promosso
cardinale e ne sono note le allegre finanze. Al funerale il nuovo
vescovo di Terni, Piemontese, affida a Dio il giudizio sugli
eventuali peccati del Don, ma parla per gli ultimi anni di “salita
umile, dolorosa”. Il concelebrante, Ercole, l'amico prete
televisivo divenuto nel frattempo vescovo, ne traccia il panegirico.
Il sindaco di Amelia promette di far costruire un mausoleo a Mulino
Silla. Il tutto tra sventolio di bandiere e musiche di alleluja.
A sorpresa, intanto, a
visitare la salma era passato don Luigi Ciotti, il prete del gruppo
Abele e di Libera, antiproibizionista e sostenitore della riduzione
del danno. Ha detto: “Siamo diversi, ma nella Chiesa la diversità
è ricchezza. E poi ha salvato tante vite umane”. Sulla diversità
non ci sono dubbi: nel gruppo Abele, formato da persone di diversa
fede religiosa o filosofica, il recupero è basato su un percorso di
libertà e di responsabilità personale, la Cristoterapia è una
pedagogia autoritaria con annesso culto della personalità e con
pratiche di lavaggio del cervello. Quanto al salvataggio di vite è
vero che Gelmini può vantare numerosi recuperi, ma non giova
dimenticare i morti che fanno le politiche proibizionistiche di cui
era paladino. Perché allora Ciotti ha fatto questo gesto? Ritengo
che sia politica. La svolta francescana del nuovo Papa ha dato
legittimità e perfino centralità a esperienze (come la Teologia
della Liberazione in Sud America o taluni gruppi progressisti
francesi e italiani), che erano state marginalizzate o addirittura
emarginate dal conservatorismo di Wojtila e Ratzinger, ma Bergoglio
vuole evitare rotture. Il parce sepulto di
Ciotti è diretto non solo al don che è defunto, ma verso le
posizioni più retrive della gerarchia che sembrano perdere colpi.
Ma forse si sbaglia: non è detto che quelle posizioni siano
definitivamente sconfitte.
"micropolis", settembre 2014
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