10.10.14

Leopardi. La scienza dell'eterna materia (Massimo Raffaeli)

Il testo qui postato nasce come recensione di una bella mostra recanatese del 1996, ma, anche fuori dal contesto, mi pare un contributo utile. (S.L.L.)
Il cielo, la luna, le stelle: i fondali del rapimento romantico sono tra gli stereotipi più duri a morire quanto al senso comune, scolastico, delle letture leopardiane. Eppure nulla gli è più lontano della tenebra d'un Novalis o anche della fatal quiete (presagio di morte e redenzione) d'un Foscolo. Intanto perché il giovane Giacomo, fra i tredici e i diciassette anni, è avvezzo a scrutare il firmamento non con la svagatezza del sentimento puramente poetico ma con l'occhio asciutto e quasi clinico dell'erudiziene scientifica.
La Storia dell'astronomia (1814) e il Saggio sugli errori popolari degli antichi (1815) sono il frutto precoce di quanto può offrire alla sua voracità la diseguale e fornitissima biblioteca del padre Mo-naldo, certo immune dagli influssi miscredenti della Enciclopedia ma abitata, alla stregua di un fiume sotterraneo, dai campioni del razionalismo antico e moderno, Democrito, Euclide, Cartesio, Copernico, Newton e Galileo. E di quelle pagine, vagamente addomesticate retorica codina di Monaldo, che si ciba l'indocile primogenito ed è ciò che testimonia oggi Giacomo e la Scienza una mostra documentaria dal taglio sobrio e divulgativo ma utile a ricostruire la radice intellettuale forse più remota del massimo poeta-filosofo dell'età moderna. Che non volle essere e non fu a rigore uno scienziato (come nel catalogo, a vario titolo, concordano i contributi di Foschi, Lunazzi, Morelli, Vetrano e Zampieri) ma di paradigmi scientifici, in concomitanza con le immaginose metafore, nutrì per sempre il suo pensiero.

Esperienza del limite
In altri termini nelle dissertazioni giovanili sulla gravita, i fluidi elastici, la luce, l'elettricismo e sull'astronomia (cui presto seguirà l'omonima Storia) si celano, zavorrati da un mare di dottrina e citazioni canoniche, i germi di una riflessione autonoma, persino gli archetipi della critica al geocentrismo e all'antropocentrismo che anima la prosa delle Operette e dello Zibaldone insieme con i versi incandescenti della poesia matura, specie La ginestra.
Nella struggente semplicità dei cimeli esposti (dal tubo di Newton alla pompa da vuoto, dagli emisferi di Magdeburgo ai parafulmini, dalla sfera di Coulomb al galvanometro portatile di Nobili) a volte così belli da pensarli dei balocchi di lusso voluti per lui ed il fratello Carlo dal furore pedagogico di Monaldo, si cifra comunque lo slancio a cogliere e geometrizzare il segreto della natura ma, nello stesso tempo, a sentirne la distanza, il residuo di incombenza e indifferenza che, ad esempio, si esprimerà di lì a pochi anni nel Dialogo della Natura e di un Islandese: «Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per la causa vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi io ed ho intenzione a tutt'altro che alla felicità degli uomini o all'infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me ne avveggo; se non rarissime volte; come, ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico, io non lo so, e non ho fatto, come credete voi, quelle tali cose, o non fo quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, anche se mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei. »
Nessuno di quegli alambicchi, cioè, potrà mai misurare l'esperienza soggettiva del limite, che è il medesimo e doloroso limite della conoscenza umana: la fatica, il venir meno del piacere, il senso della finitezza che esplode nel male fisico e nella consapevolezza del morire, vale a dire i futuri referenti della poesia leopardiana, sottratti alla frontiera delle scienze e riattivati appunto nell'immaginario poetico, il caro immaginar, per dirla con una sua stessa espressione.
«Leopardi — scrive al riguardo Italo Calvino - parte dal rigore astratto dell'idea matematica di spazio e di tempo e lo confronta con l'indefinito, vago fluttuare delle sensazioni». Già nel celeberrimo idillio giovanile l'infinito è nient'altro che il non-definito, quel che il limite spazio-temporale non riesce a imprigionare, l'assoluto oltre che la ragione umiliata non può che affidare alla finzione, ad un'ipotesi costruttiva, al combinato disposto di sensi e memoria. Dunque al calore vitalizzante dei versi sprigionati di là dal gelo delle nude matematiche.

L'alambicco della natura
«La conclusione di questo viaggio ulteriore - nota Flavio Vetrario nel saggio annesso al catalogo - è per il Leopardi una riconsiderazione non del valore teoretico della scienza, ma del valore esistenziale della conoscenza in sé». Che infatti non viene mai negata (anzi è alla fine rilanciata con foga illuminista contro ogni credo religioso e le fumisterie romantiche) ma semmai è relativizzata, ricondotta alla costitutiva infermità dell'uomo, ancora una volta ai limiti di spazio e tempo (di storia e natura) in cui si iscrive l'attività del pensare.
Leopardi è davvero un figlio dell'era copernicana e galileana; perciò coglie se stesso al margine di un universo disertato dagli dèi, tanto esteso da far apparire la terra un punto di luce nebulosa e insensata la pretesa dell'uomo di chiamare destino il suo semplice (stupendo proprio perché gratuito) trapassare. Se non ancora consapevolmente ateo, il giovane Giacomo, alle prese coi domestici strumenti delle scienze, appare sulla strada che lo condurrà ad un radicale materialismo.
Lontano dai gabinetti scientifici alla moda, recluso e persino assediato dai tomi di una biblioteca controriformista, ha tuttavia la vista più acuta dei suoi contemporanei. Sa che la vita trova senso nella conoscenza, nell'entusiasmo e nello sgomento che produce la parzialità del sapere umano, vero ma rischioso, sempre deperibile e oscurabile sia nella secchezza delle proposizioni matematiche sia negli aloni del segno poetico; sa, soprattutto, che l'orizzonte dell'uomo è la mortalità e che per lui è impronunciabile la parola eterno.

Le nuove creature
Eterna è invece la materia, tremenda e insieme luminosa come lo sono gli impulsi che attiva in tutti gli esseri viventi. Scriverà nella più essenziale delle Operette, il Frammento apocrifo di Sfratane di Lampsaco: «Le cose materiali, siccome elle periscono tutte ed hanno fine, così tutte ebbero incominciamento. Ma la materia stessa niuno incominciamento ebbe, cioè a dire che ella è per sua propria forza ab eterno. (...) Venuti meno i pianeti, la terra, il sole e le stelle, ma non la materia loro, si formeranno di questa nuove creature, distinte in nuovi generi e nuove specie, e nasceranno per le forze eterne della materia nuovi ordini delle cose e un nuovo mondo...».
La lettura o rilettura di pagine come queste, di penetrante attualità, potrebbe essere un buon viatico alla mostra recanatese.


il manifesto, 2 agosto 1996

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