31.10.14

Robespierre (Franco Fortini)

Maximilien Robespierre in un disegno di Tullio Pericoli
Cominciò presto a mutarsi in maschera o marionetta. Prima, il mostro. Il Terrore Bianco, con i suoi eccidi, ne fissò i lineamenti. Poi fu lo spettro, anche per i tardi eredi dei giacobini. «Robespierre s'aggira», «Der Robespierre geht um» era il ritornello dei proletari di Strasburgo, fine Ottocento. Lo schema, la caricatura dell'Incorruttibile, del gelido razionalista, dell'ideologo fanatico è già compiuta, negli anni dell'Impero. Chi capì, intorno alla fine del secondo decennio del secolo, quale straordinario dubbio Manzoni, scrivendo di morale cattolica, poneva ai Restauratori con il suo — calmo in apparenza e angosciato in profondo — giudizio su Robespierre? E la capacità di ridurre la storia a melodramma non è solo di un mezzo secolo di film, lungo tutte le sfumature dell'ignobile, fino a Wayda: è stata, ai nostri decenni, anche la lettura poetica, (traditrice della passione rivoluzionaria delle sue scene feroci) che si dà, a uso dei buoni sentimenti, di La morte di Danton di Georg Buchner, 1830. Almeno gli studenti neonazisti tedeschi che, intorno al 1950, ne impedirono una messa in scena avevano capito di che cosa si trattava. E da allora la maschera Danton, con la sua "sanguigna umanità", come tuttora si scrive, fa coppia e antitesi simbolica, multiuso, con quella di Massimiliano, il represso, il sadico, il glaciale amante della virtù, dominato e sedotto dall'«atroce e teatrale» Saint-Just, come lo chiamò Chateaubriand (che non mancava, va detto, di senso degli aggettivi).
Danton, la mano sul petto, urla alle armi dalla sua statua sul boulevard come La Marsigliese sull'Arc de Triomphe; Robespierre non ha, a Parigi, né pietra né parola. Allo Hotel de Noubise, c'è solo il foglio con la sua firma interrotta da una macchia color ruggine, il sangue del tentato suicidio, nella notte del 28 luglio 1794. In quella straordinaria lezione di anatomia ossea che è la storia della Rivoluzione, se si fosse attenti alla nozione disusata di contraddizione dialettica, si cercherebbe di far capire ai giovani perché gli operai e gli artigiani furono relativamente indifferenti alla caduta di Robespierre. Rileggo nel vecchio Mathiéz: «I termidoriani, prigionieri della reazione, saranno presto trascinati più lontano di quanto credevano e molti di loro si pentiranno nella loro vecchiaia di aver partecipato al 9 termidoro. Uccidendo Robespierre, essi avevano ucciso, per un secolo, la Repubblica democratica. Robespierre fu un esempio memorabile dei limiti della volontà umana alle prese con la resistenza delle cose».
Apro i giornali, accendo la Tv. Quante facce di nostri piccoli termidoriani di una rivoluzione inesistente. E i comunisti che si vergognano di Lenin, ossequiosi ai distinguo delle anime belle liberali. Almeno, il vescovo dei Miserabili si inginocchiava davanti al vegliardo giacobino e "regicida"; almeno c'era un Hugo per immaginarlo e per scriverlo.
Non ho da vergognarmi di avere appreso, con la emozione di un ragazzo piccolo borghese, negli anni del delitto Matteotti, a conoscere Robespierre dalle pagine di Michelet e dai versi del Carducci. Non solo il fulminante alternarsi ritmico di polisillabi rallentati e di monosillabi secanti, che dice una verità non solo lirica: «decapitare Immanuel Kant Iddio/ Massimiliano Robespierre il re». Ma l'altro passo, dove si dice come «quel che dall'avvenir salìa/ d'orror fremito udì Massimiliàn» che, come il falciatore «gli occhi ebbe al cielo e al lavor la man». Rida chi vuole. Quel fremito d'orrore non è solo per gli eccidi del Terrore ma per quelli degli eserciti dell'Impero e ripetuti assassinii, nello scorso come nel nostro secolo, delle Repubbliche democratiche.
Robespierre cadde per i decreti di Ventoso (marzo 1794), ossia per il progetto di confisca dei beni dei nemici della rivoluzione e della loro distribuzione gratuita al proletariato rivoluzionario. Le "leggi agrarie" atterrirono ben più della ghigliottina. Era uno sguardo al di là di ogni realtà possibile. Saint-Just e Robespierre avanzavano come le kantiane «idee della ragione», nel vuoto. Dovevano cadere. Ma da quel punto sarebbero venute l'estate del 1848, la primavera del 1871, l'aprile e l'ottobre del 1917, le guerre di liberazione anticolonialista; e anche, nonostante tutto, l'oggi che ci ostiniamo a rimuovere. Ogni rivoluzione, prima di venir travolta, si accende per un attimo a illuminare le ragioni di quella ventura. Così fu con Lenin e con Mao. E forse accade ad ogni singola esistenza. A te che ora sorridi; e a me. Questo, e null'altro, mi dice il nome di Robespierre, se lo pronuncio.


L'Espresso, gennaio 1989, Supplemento Il terrore e la libertà, primo di due fascicoli dedicati alla Rivoluzione Francese.

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