In occasione della realizzazione di un Marco Polo televisivo per la regia di Giuliano Montaldo (ottima produzione di una tv ancora attenta a far cultura), Umberto Eco scrisse per "L'Espresso", queste paginette sul Milione, di notevole acume critico. (S.L.L.)
Marco Polo sulla Grande Muraglia. L'attore Ken Marshall nello sceneggiato RAI (1982) |
Mentre scrivo non so
ancora nulla del Marco Polo televisivo, non so se sarà fedele
al Milione o se ne trarrà spunto per una libera ricreazione
del personaggio. Si suppone che gli sceneggiati televisivi da un
grande libro ne incoraggino la lettura, ed eccomi a verificare la
legge, persino in anticipo: mi sono riletto Il Milione. Poi mi
sono chiesto quanti, dopo aver visto le puntate televisive andranno
ad acquistarlo in edizione economica, e che piaceri potranno trarne.
La lingua della versione toscana detta "Ottimo" (come si sa
Polo dettò le sue memorie in prigione a Rustichello da Pisa e questi
scriveva in francese, ma il testo originale è del 1298 e la versione
toscana è del 1309) non è alla portata del lettore comune, anche se
si legge senza troppe difficoltà, e le parole incomprensibili fanno
atmosfera. Ma, a prescindere da quanto ne racconterà la televisione,
come si deve leggere Il Milione, ovvero la versione di quel
Libro di Monsieur Marco Polo, cittadino veneziano, soprannominato
Milione, dove son descritte le meraviglie del mondo?
La domanda che mi sorgeva
rileggendolo non è come possono intenderlo i lettori di oggi, ma
come l'abbiano inteso i lettori di allora. E capire cosa potesse
rappresentare allora forse ci può aiutare a suggerire come andrebbe
letto oggi. Perché (e anticipo la mia conclusione) Il Milione
si inserisce, e neppure ultimo, in una serie di racconti
enciclopedici che descrivono le terre ignote e più o meno
leggendarie, quasi sempre scritti da autori che non si erano mai
mossi da casa loro, e racconta quasi le stesse cose, ma da
giornalista, ovvero da inviato speciale.
Due secoli prima
dell'invenzione della stampa, tre o quattro prima del trionfo degli
"avvisi" e delle "gazzette", il libro di Marco
Polo anticipa un genere. Salvo che il genere era talmente in anticipo
che non era facile accettarlo. Faccio subito un esempio. Alquanto
posteriore alla stesura del Milione eccone un bel manoscritto
francese, ora conservato alla Bibliothèque Nationale di Parigi, ed
ecco la miniatura che illustra il capitolo 157, dove Polo descrive il
reame di Coilu, che poi si trova sulla costa del Malabar. In quel
capitolo si racconta di una popolazione che raccoglie il pepe e
(nella versione toscana) i "mirabolani emblici", che non so
bene se siano delle specie di prugne o altro genere di frutti ricchi
di tannino. E come rappresenta il miniatore gli abitanti del Malabar?
Ecco, uno è un Blemma, e cioè uno di quei favolosi esseri senza
testa con la bocca sullo stomaco, l'altro è uno Sciapode, che sta
sdraiato all' ombra del suo unico piede, e il terzo un Monocolo.
Esattamente quanto il lettore del manoscritto si attendeva di trovare
in quella regione, che poi è l'India, regno del leggendario Prete
Gianni, o Presto Giovanni come lo chiama Polo. Il bello è che nel
testo di Polo questi tre mostri non sono affatto menzionati. Polo
dice che gli abitanti di Coilu sono neri, vanno in giro nudi, e che
la zona (e pensate che bel partito poteva trame il miniatore) è
ricca di leoni neri, pappagalli bianchi dal becco rosso, e pavoni.
Inoltre Polo, con la bella freddezza che lo contraddistingue quando
riporta di costumi un poco inusuali per i buoni cristiani, annota che
costoro hanno scarso senso della moralità e sposano
indifferentemente la cugina, la matrigna o la moglie del fratello.
Perché il miniatore si
permette di inserire questi tre esseri, che non esistono
nell'universo del Milione (e a conti fatti non esistono
neppure in quello delle nostre scienze naturali ed umane), contro
ogni evidenza testuale? Perché lui, come i suoi lettori, ai tempi di
Polo e anche oltre, fidando in una catena ininterrotta di dottissime
enciclopedie che ragguardavano sulle meraviglie del mondo, sapeva che
dovevano esserci. Il mercante Marco Polo era semplicemente uno
sfacciato che si permetteva non di raccontare come le cose dovevano
essere ma (e son parole sue o di Rustichello) di « divisare delle
provincie e dei paesi ov'egli fu ». Testimone oculare. Pare un
mestiere facile, ma a quei tempi non lo era affatto. Per l'inviato
speciale non c'era una definizione sindacale.
Chi era, allora, il
compilatore di enciclopedie storiche e geografiche? Un signore che
sedendo a tavolino si basava sui testi venerabili di Plinio, di
Solino, di Isidoro di Siviglia, e via via sulle varie enciclopedie
del dodicesimo secolo, lo Speculum Mundi di Vincenzo di
Beauvais, o il Trésor di Brunetto Latini. E in questi testi i
vari paesi, veri o leggendari che fossero, erano abitati da animali
fantasiosissimi, e da esseri stranissimi, le cui caratteristiche non
erano però affatto arbitrarie. Questi esseri avevano giusto le
caratteristiche che servivano a trasformarli in esempi viventi, in
leggibili allegorie: così il patriarca di questi trattatelli
enciclopedici, il Fisiologo, apparso tra II e III secolo della
nostra era, raccontava che il Leone aveva l'abitudine di cancellare
con la coda le sue impronte per depistare i cacciatori, ma questa
caratteristica era "necessaria" perché il leone potesse
funzionare come simbolo del potere di Cristo, che cancella i nostri
peccati. E diceva che la fenice ogni cinquecento anni arrivava a
Eliopoli e si consumava sul fuoco dell' altare, per risorgere (come è
noto) tre giorni dopo dalle proprie ceneri; e questa proprietà era
"necessaria" perché la fenice fosse simbolo del Salvatore.
E in tal senso il leone era tanto "vero" quanto la fenice.
Proprio il mese scorso Il
Saggiatore ha pubblicato un'edizione del Trattato delle cose più
meravigliose e più notabili che si trovano al mondo di un autore
incerto noto come John Mandeville. Mandeville, è sicuro, non si è
mai mosso da casa sua, e scrive quasi sessantanni dopo Polo. Ma per
Mandeville raccontare di geografia significa ancora raccontare di
esseri che devono esserci, non che ci sono, anche se da alcune sue
pagine si può pensare che tra le sue fonti ci fossero anche le
pagine del testimone oculare Marco Polo. Non è che Mandeville dica
sempre e solo panzane: per esempio parla del camaleonte come di una
bestia che cambia colore, però aggiunge che è simile a una capra.
Ora è interessante paragonare la Sumatra, la Cina meridionale,
l'India di Mandeville con quelle di Polo. C'è un nucleo che rimane
in gran parte identico, salvo che Mandeville popola queste contrade
di animali e mostri umanoidi che ha trovato sui libri precedenti.
Polo, no.
Intendiamoci. Polo era un
mercante, e non era uomo di molte letture. D'altra parte inizia il
suo viaggio a diciassette anni e torna che ne ha quarantuno e nel
giro di tre anni va subito a combattere, finisce prigioniero di
guerra e detta le sue memorie. Di cose europee non deve averne lette
molte, caso mai le leggende che racconta, e le panzane che ha l'aria
di bere, le ha udite nel Catai. Ma in qualche modo la cultura delle
enciclopedie medievali lo aveva toccato (tra l'altro, molte delle
informazioni delle enciclopedie medievali provengono, per lunghi
tragitti storici, dal leggendario orientale). E il bello di Messer
Marco Polo è che, a modo proprio, è uomo del suo tempo e non riesce
a sottrarsi all'influenza che gli insegnano cosa dovrebbe
vedere.
La pagina più
significativa è quella sugli unicorni, che gli appaiono a Giava.
Ora, che gli unicorni ci siano, un uomo del medioevo non lo mette in
discussione. Tra parentesi, a leggere quel trattato onnicomprensivo
che è The Lore of the Unicorn di Odell Shepard (1930), di
persone che hanno visto e descritto l'unicorno ce ne sono state anche
molto tempo dopo Marco Polo. Per esempio il viaggiatore elisabettiano
Edward Webbe; o Vincent Le Blanc, che nel 1567 ne vede tre, nel
serraglio del Sultano, in India, e addirittura all'Escuriale di
Madrid; il missionario gesuita Lobo nel Seicento (tradotto da Samuel
Johnson) che lo vede in Abissinia; e poi John Belle nel 1713; per
finire, ma non definitivamente, nientemeno che col dottor
Livingstone. Che l'unicorno esistesse lo aveva detto il Fisiologo,
che aveva dato origine, in Europa, alla leggenda che per catturarlo
si dovesse esporre nella foresta una vergine immacolata, e come
diceva, ancora trent' anni prima di Marco Polo, Brunetto Latini,
«quando l'unicorno vede la fanciulla, la sua natura gli dae che,
incontamente ch'egli la vede, si ne va da lei, e pone giuso tutta la
sua fierezza... ».
Poteva Marco Polo non
cercare unicorni? Li cerca, e li trova. Voglio dire, non può evitare
di guardare alle cose con gli occhi della cultura. Ma una volta che
ha guardato, e visto, in base alla cultura passata, ecco che si mette
a riflettere da inviato speciale, e cioè come colui che non solo
fornisce informazioni nuove ma anche critica e rinnova i cliché
del falso esotismo. Perché gli unicorni che lui vede sono di fatto
dei rinoceronti, un poco diversi da quei caprioli graziosi e bianchi,
col cornetto a spirale, che appaiono sullo stemma della corona
inglese.
Polo è spietato: gli
unicorni hanno « pelo di bufali e piedi come leonfanti », il corno
è nero e grosso, la lingua è spinosa, la testa sembra un cinghiale
e, in definitiva, « ella è molto laida bestia a vedere. Non è,
come si dice di qua, ch'ella si lasci prendere alla pulcella, ma è
il contrario ». Come dire: non mandatele ragazzine, che ve le
incorna a testa bassa. Triste, ma è così.
L'altra cosa che colpisce
in Polo, in questo dire le cose come stanno, è che il suo libro è
dominato dalla curiosità, ma mai da una forsennata meraviglia, e men
che mai dallo sgomento. Racconta come un antropologo moderno, se c'è
una civiltà in cui si usa dare la moglie ai forestieri, ed anzi i
mariti ne provano gusto, lo racconta, e amen. Ne ha viste (ma viste,
non sentite dire) tante che non si stupisce più di niente. Quindi il
mondo di cui parla non è incredibile, anche se è stupefacente: è,
semplicemente, e proprio per questo lui ne racconta. Certo, sente
voci misteriose nel deserto di Lop, ma provate a cavalcare per
settimane e settimane nel deserto. Certo, prende per buona tutta la
storia dell'impero di Prete Gianni, ma c'era in giro tanto di lettera
diplomatica (seppure falsa, oggi lo sappiamo) mandata cent'anni prima
all'imperatore di Bisanzio. Prende i coccodrilli per serpentoni con
le sole zampe anteriori, ma non dovete pretendere che ci andasse
troppo vicino. Mi sa che trova più antropofagi di quelli che vi
fossero, ma alla fin fine viaggiava raccogliendo testimonianze in
terre in cui si parlavano lingue che lui doveva imparare a fatica.
Però trova il petrolio, e il carbon fossile, e ne parla in modo
molto corretto.
Tra visioni influenzate
dalla tradizione, da cui si scioglie a fatica, come stropicciandosi
gli occhi, ne ha altre in cui sembra antitradizionale persino a noi.
Probabilmente per lui gli uomini o son bianchi, o son neri, ma è
certo che non gli passa per la testa l'idea di una razza gialla. Gli
abitanti di Cipan-gu (che è il Giappone) hanno la pelle bianca, e il
Gran Can, che è un mongolo, «hae lo suo viso bianco e vermiglio
come rosa». Il bello è che forse ha ragione lui, perché anche se
le enciclopedie (oggi) parlano ancora di pelle giallastra, quando noi
guardiamo bene un cinese o un giapponese, ci accorgiamo che non è
giallo come il feroce Ming imperatore di Mongo, ma al massimo non è
bianco e rosso come un tirolese. Che poi il Gran Can fosse proprio
rosa e vermiglio, beh, forse si truccava, o forse Polo lo guardava
con occhi affettuosi, abbagliato dalle sue vesti e dai suoi gioielli.
Talora pare proprio che
inventi leggende come i suoi predecessori e come i suoi successori,
come quando ci parla del moscado, profumo squisito che si
trova sotto l'ombelico, in una "postema" o ascesso di un
animale simile a una gatta. Eppure, andate a controllare su di
un'enciclopedia: l'animale c'è, in Asia, e si chiama "moscus
moschiferus", una specie di cervo, che ha i denti proprio come
Polo li descrive, e che nel derma della parte addominale, sul davanti
dell'apertura prepuziale, secerne un muschio dal profumo
penetrantissimo. E inoltre è la versione toscana che lo fa simile a
«una gatta», perché nell'originale francese si dice giustamente
che è simile a una gazzella. Polo si guardava intorno, e registrava
con tanta freddezza mercantile che noi crediamo che racconti panzane,
con la grinta dell'impunito.
A differenza di ogni
enciclopedista medievale, non allegorizza e non moralizza, registra
per coloro che lo seguiranno lungo quelle Vie, che sono vie
commerciali. In un certo senso è smagato e realista come
Machiavelli, e parla da tecnico a dei tecnici.
Il suo mondo ha reagito
alla provocazione, leggendolo come se fosse uno dei suoi predecessori
fantasiosi, e così temo che faremo noi, magari influenzati da
termini araldici come "lionfante" o "salamandra".
Ma la salamandra di cui parla è un tessuto fatto d'amianto, che egli
ben descrive, non l'animale del bestiario che vive e si crogiola nel
fuoco. « E queste sono le salamandre, e l'altre sono favole”.
L'ESPRESSO - 28 NOVEMBRE
1982
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