Il caso Cucchi continua
ad essere un caso emblematico delle relazioni asimmetriche che
intercorrono tra i cosiddetti “cittadini” e le cosiddette
“istituzioni”, delle quali – come questo drammatico caso pone
in evidenza – alcune creano il problema, altre lo complicano, altre
ancora lo trasformano in dramma o in tragedia, altre, infine, corrono
ai ripari e stendono veli, depistano, archiviano o assolvono. Tutto
finirebbe nel silenzio, come troppo spesso accaduto, se non ci fosse
anche chi, singolarmente o collettivamente, con coraggio e tenacia,
non si rassegna e affronta il Leviatano.
Poiché, normalmente, la
via diretta alla giustizia è pochissimo praticata e praticabile, il
sentiero più battuto è quello della denuncia alla magistratura,
affinché faccia luce sui delitti e ne condanni i responsabili; cosa
che normalmente la magistratura fa se gli assassini (e/o le vittime)
sono “comuni”, ossia appartenenti alla quota di popolazione che
sta a valle nella relazione gerarchica cittadini/istituzioni.
Le note dolenti appaiono
sul “fronte giustizia” quando gli assassini (e/o le vittime) sono
parti delle istituzioni o vi sono vicini. I casi che si possono
citare nella storia del solo nostro paese sono innumerevoli (la
lista, purtroppo, in questi primi 14 anni di secolo, da Giuliani a
Cucchi, passando per Mastrogiovanni, Aldrovandi e tutti gli altri la
conosciamo fin troppo bene) e ogni volta è inscenata sempre la
stessa commedia. Quando ci sono di mezzo “servitori” dello stato,
esso ne ha cura e solo quando i crimini e le loro dinamiche sono
diventati “troppo pubblici” da non poter più essere nascosti,
manipolati (con le solite perizie e i soliti trucchi: inciampo con
armi alla mano, strane traiettorie dei proiettili, autolesionismo,
ecc.) criminalizzando le vittime anziché i carnefici, alcuni giudici
si trovano costretti a condannare, beccandosi gli sfoghi belluini e
risentiti degli “amici” dei condannati, con in prima fila i
soliti Giovanardi, SAP e COISP ad insultare i morti e a intimidire i
vivi.
L’archiviazione e
l’insufficienza di prove (a processo istruito) sono più che
sperimentate modalità per chiudere questioni scottanti come queste.
Ciò nonostante, sono ancora in molti a nutrire per la magistratura
una fiducia a prescindere, dimenticando che essa, come tutte le altre
istituzioni dello stato, “va dove la porta il vento” politico e,
trincerandosi dietro algidi tecnicismi, assolve chi deve essere
assolto, condanna chi deve essere condannato, al di là “di ogni
ragionevole dubbio”, al di là di qualsiasi prova, per lampante o
dubbia che sia.
Il presidente della I
corte d’assise d’appello di Roma, Mario Lucio D’Andria, è noto
per essere una sorta di robot autoprogrammato specialista in
problematiche correlate alle prove in un reato (ha pubblicato molto
su questo tema); la sua “missione”, teorica e pratica, è,
perciò, di natura squisitamente tecnica, nel senso che, detto in
soldoni, basta una virgola fuori posto nella definizione esatta del
tipo di reato, in un verbale, in una testimonianza, che tutto si
annulla da sé e ogni prova perde automaticamente efficacia. Una
sorta di garantismo tecnico che lo porta ad assolvere quasi sempre
per “insufficienza di prove”, come fu anche nel processo Calvi,
che vide assolti i noti Carboni, Diotallevi, Vittor e Calò sempre
per “insufficienza di prove”. In altri casi, invece, ha “fatto
giustizia” con più serenità (ammesso e non concesso che la
“giustizia di stato” sia tale) come nel processo ai 5 ex
ufficiali della marina argentina Acosta, Astiz, Vildoza, Febras e
Venek responsabili di torture e sparizioni, ma erano vecchie
cariatidi di un “altro stato” e le prove erano fin troppo
schiaccianti.
«La giustizia malata
assolve i carnefici di Stefano», afferma Ilaria, che giustamente,
non si dà pace. È vero, ha ragione, ma la “giustizia di stato”
non può non essere malata, essendo il prodotto di un sistema
giudiziario che è, a sua volta, un prodotto dell’agente patogeno
per antonomasia che è lo Stato in quanto tale, il quale, coi suoi
apparati e i suoi “servitori” (che non può non tutelare sempre e
comunque, salvo infedeltà) vorrebbe “curare” le malattie
(sociali, politiche, procedurali, ecc.) da esso stesso generate e
diffuse, coi suoi stessi strumenti patogeni: i giochi di ruolo
condotti nelle aule giudiziarie non sono altro che tragiche “messe
in scena” ...
Non ci si può aspettare
che lo Stato si autocondanni dal momento che, in quanto entità, si
concretizza proprio solo attraverso i corpi e le menti
(intercambiabili e rinnovabili) dei suoi funzionari, dei suoi
custodi, dei suoi servitori che sono, per l’appunto, gli uomini
delle sue istituzioni, ognuno dentro il proprio ruolo gerarchicamente
strutturato nella dimensione formale e “legale” in cui operano.
Intanto che tutto il
meccanismo dello stato “lavora” dentro la propria realtà,
parallelamente, nell’altra realtà, la nostra, risuona la neanche
tanto inquietante, quanto coerente denuncia dell’avvocato Anselmo,
legale della famiglia Cucchi: «Sembra che ci sia stata una regia che
abbia fatto un ping-pong di responsabilità tra carabinieri e agenti
di polizia penitenziaria. Alla fine la pallina è uscita dal campo.
C’è un clima che assomiglia molto ai processi di mafia: 170
persone hanno visto Stefano in quelle condizioni e non hanno fatto
nulla. Di cosa possiamo parlare se non di omertà?»
Ecco, questo è il punto
e questo è il problema essenziale: quella particolare mentalità che
all’“interno” si esprime in termini di omertà e all’“esterno”
si riflette nei classici atteggiamenti arroganti e intimidatori tutti
appartenenti allo stesso repertorio che vede in elenco lo scambio di
favori e l’omertà, appunto. Una mentalità che, se resisti (non
necessariamente in senso fisico) all’intimidazione o alla violenza,
fa scattare comportamenti vessatori e/o ritorsivi secondo copione:
non fu intimidazione ritorsiva la nota manifestazione indetta dal
COISP nei confronti della mamma di Federico Aldrovandi? Quando si
parla di mentalità omertosa si parla di una malattia sottile e
pericolosa di cui i corpi dello stato – soprattutto i detentori del
monopolio della violenza (in armi e manganelli, in codici e sentenze,
in carceri e regolamenti) – in larga parte non sono, certo, esenti:
innumerevoli fatti di cronaca sono lì a dimostrarlo, mentre le
gerarchie continuano a parlare, difensivamente, di “mele marce”
quando è marcio il frutteto, e le corti d’assise, quando possono,
assolvono o, se non possono, comminano pene pressoché simboliche.
Denunciare pubblicamente
questa situazione può già significare esporsi a intimidazioni e
ritorsioni. Per fare smarrire chi vogliono nel “castello di Kafka”,
le istituzioni i mezzi li hanno e sono tutti “legali”. Iniziano
col chiedere le prove, le carte, che se non hai sono guai. Nel
frattempo chi le ha, chiunque sia, le manipola, le riduce a
coriandoli o le cela, o le considera insufficienti. Il caso Cucchi
dimostra, nella sua tragicità, il degrado ormai raggiunto dalla
democratica Repubblica fondata sul lavoro (e non poteva essere
altrimenti) dove, per le anime belle “credenti nella costituzione”,
la libertà personale doveva essere inviolabile e doveva essere
punita (da chi?) “ogni violenza fisica e morale sulle persone
comunque sottoposte a restrizioni di libertà”.
“Umanità Nova”, 6
novembre 2014
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