Dal numero di ottobre
2014 de “Il Ponte”, l'articolo di Lanfranco Binni di cui
condivido sia l'analisi impietosa e senza illusioni dello stato di
cose esistente sia le speranze.(S.L.L.)
Se perfino il più alto
pastore della chiesa cattolica parla di terza guerra mondiale in
corso, «a pezzi», non ancora globale, e allerta il suo gregge
contro i lupi della guerra, gli spacciatori di armi, gli speculatori
finanziari, i politicanti corrotti, e cerca di svegliare le sue
pecore dal torpore servile e connivente, la situazione del mondo è
davvero grave. Non bastano i disastri ambientali del «progresso»
capitalistico che stanno distruggendo il pianeta, non bastano le
tragedie delle migrazioni forzate di terra in terra in ogni
direzione, non bastano le mutazioni antropologiche indotte dal
«mercato», a trasformare in scimmie psudotecnologiche gli esseri
umani, a farne macchine per il consumo; tutto questo non basta,
servono guerre e grandi devastazioni, per impadronirsi delle risorse
energetiche e contenere la sovrappopolazione. E bisogna fare in
fretta.
Il quadro geopolitico è
drammaticamente chiaro: alla crisi strutturale del capitalismo
finanziario, che da tempo ha superato i suoi limiti di «sviluppo
sostenibile», l’Occidente statunitense ed europeo (ne fa parte
anche Israele) risponde con strategie di aggressione e dominio,
disgregando stati, disarticolando assetti istituzionali, intervenendo
militarmente (direttamente o per procura) e attraverso le armi delle
campagne mediatiche: la distruzione dell’Iraq, le «primavere»
arabe per distruggere la Libia e la Siria, per normalizzare l’Egitto,
la «primavera» ucraina per allargare ad est la Nato e l’area di
«libero mercato» del trattato transatlantico, il massacro di Gaza
per fiaccare la resistenza all’occupazione, prevenire gli accordi
tra il governo palestinese e la Cina e sabotare l’istituzione di
uno stato palestinese. Bisogna «fare in fretta» perché il
terrorismo occidentale sta incontrando crescenti reazioni, e la
strategia del caos, figlia del pragmatismo statunitense e ispirata al
vecchio adagio divide et impera declinato da un’oligarchia
incolta e senza storia, ha il respiro corto e rivela facilmente i
suoi congegni: esemplare la vicenda dell’Isis, organizzato e
finanziato dagli Stati uniti contro la Siria nel disegno di
disgregare ogni assetto statuale nell’area Iraq-Siria-Iran e di
eliminare una retrovia storica dei palestinesi; oggi l’Isis, con il
suo sedicente stato islamico, è presentato dai media occidentali
come la più feroce minaccia all’Occidente, ma è davvero così?
Con il pretesto di salvare l’umanità dai crimini dell’Isis, nel
suo ultimo discorso alla nazione il premio Nobel per la pace Obama si
è riservato una guerra di lunga durata, a partire dai bombardamenti
del territorio siriano e dal sostegno agli «islamici moderati»
contro l’esercito siriano. Anche i combattenti dell’Isis erano
stati definiti «moderati» all’inizio della campagna americana
contro la Siria, e la decisione di bombardare l’esercito siriano
era già stata presa da Obama nel 2013, costretto a rinviarla per le
reazioni internazionali. Ancora pretesti: l’assassinio dei tre
giovani israeliani in Cisgiordania fu immediatamente attribuito ad
Hamas e innescò l’attacco al ghetto di Gaza (2000 morti, di cui
500 bambini); quel delitto, al quale Hamas si è sempre dichiarata
estranea, si è rivelato un ottimo investimento per il governo
israeliano, che notoriamente infiltra propri agenti provocatori nella
galassia delle formazioni palestinesi.
La Siria resiste, i
palestinesi resistono (e si sono rafforzati i legami tra i
palestinesi di Gaza e della Cisgiordania), resistono gli ucraini
russofoni della Crimea e dell’Est. In Ucraina il colpo di stato
organizzato dalla Nato ha provocato un duro confronto con la Russia e
un rafforzamento delle relazioni economiche e militari tra Russia e
Cina, e ancora una volta la strategia geopolitica americano-europea è
rimasta prigioniera della propria miopia: dietro il potere
oligarchico della Russia di Putin è viva e profonda l’esperienza
dell’Unione sovietica, sotterranea e carsica dopo il 1989 e i
disastri liberisti che ne sono seguiti; contro i «fascisti» di
Kiev, contro i bombardamenti su Donetsk, l’antifascismo popolare è
riemerso con tutta la sua forza. Sullo sfondo di questo scenario
agisce la vera contraddizione principale della guerra economica tra
Stati Uniti e Cina, e contro il trattato transatlantico di libero
scambio (l’area del mercato di 800 milioni di consumatori che
dovrebbe costituire la retrovia strategica degli Stati Uniti e
dell’Europa) si sta rafforzando l’asse dei Brics (Brasile,
Russia, India, Cina, Sudafrica) al quale si sta collegando la Turchia
e che esercita un’influenza crescente in America latina, Asia e
Africa; il governo irakeno di Al Maliki è stato abbattuto alla
vigilia di relazioni economiche con la Cina, e tra le vere cause
dell’operazione militare israeliana contro il ghetto di Gaza c’è
stato il tentativo di bloccare un accordo tra il governo palestinese
e la Cina per lo sfruttamento di un importante giacimento petrolifero
marino.
Lo sviluppo del
capitalismo finanziario occidentale ha ormai superato i suoi limiti
strutturali, l’impero americano è in crisi e non basterà
incrementare il fatturato dell’industria militare; la
moltiplicazione dei fronti di guerra comporterà costi insostenibili,
e c’è un limite anche a questo. Il modo di produzione
capitalistico sta entrando nella fase dell’autofagia distruttiva.
Si apre una fase di necessaria trasformazione di quel modo di
produzione ed è e sarà questo il terreno di confronto e conflitto a
livello internazionale. Il mondo (il pianeta) dovrà seguire altre
strade, di altra economia, di altre modalità sociali e statuali,
ripensando profondamente la sua storia, le esperienze economiche e
sociali del passato, a partire dai tentativi abortiti del socialismo
sovietico e dalla loro diaspora ereticale negli anni trenta del
Novecento. Altre esperienze importanti sono quelle tentate negli anni
sessanta dai movimenti di liberazione in Africa, Asia e America
latina, con i loro esiti attuali. Bisogna tornare a scuola di
progettualità politica, rimettere al centro dell’elaborazione
teorica l’analisi storica ed economica in funzione
dell’organizzazione politica rivoluzionaria, socialista e
internazionalista. Questo sta accadendo in ogni area del mondo.
Servono collegamenti, informazioni, iniziative comuni in funzione di
una nuova internazionale dell’egualitarismo, della democrazia
(democrazia diretta e controllo dal basso dei poteri delegati) e del
socialismo (massimo socialismo, massima libertà).
Parlare dell’Italia in
questo quadro geopolitico e di potenzialità di cambiamento può
sembrare perfino imbarazzante. Il paese è collassato, totalmente
subalterno alle strategie americane e dell’Europa del nord,
commissariato dall’Unione europea a guida tedesca. La struttura
industriale basata su imprese piccole e medie non permette operazioni
di «innovazione competitiva», l’enorme e incontrollabile debito
pubblico non permette politiche di investimento, il rapporto con gli
investitori stranieri può avvenire solo sul terreno della svendita
dei beni pubblici. La Grecia è vicina, il modello sperimentato
dall’Unione europea in Grecia è di fatto già applicato anche
all’Italia: precarizzazione del lavoro e abbattimento del suo
costo, definanziamento della macchina della pubblica amministrazione
e dei servizi pubblici (scuola, sanità), privatizzazioni,
concentrazione di risorse in grandi opere speculative, collusione con
i grandi evasori fiscali e con le reti economiche della criminalità
(l’economia illegale che costituisce comunque una voce importante
del Pil, da far valere a Bruxelles). Il processo, iniziato negli anni
ottanta, sviluppato nel ventennio berlusconiano e dai successivi
governi «europei» di Monti e Letta, è oggi portato avanti dai
teppisti dell’attuale governo decisamente «americano». La fretta
del garzone di Pontassieve nel manomettere la Costituzione per
concentrare il potere nell’oligarchia stracciona del paese e
ridurre i controlli istituzionali sulla base del «patto del
Lazzarone» e sulla linea della P2 di Gelli, l’attacco sistematico
alla scuola pubblica, alla pubblica amministrazione, il ruolo attivo
nel coinvolgimento dell’Italia nelle operazioni di guerra del
padrone americano e dei suoi complici (i caccia israeliani si
addestrano in Sardegna), sono tutte operazioni di tradimento della
Costituzione e degli interessi del paese.
E gli «italiani»? La
nazionale arte di arrangiarsi e di sopravvivere concede ancora
qualche margine di manovra; si può ancora seguire con disincanto e
rassegnazione lo spettacolo miserabile di una politica ridotta a
«cosa nostra», rimbambiti dalle armi di distrazione di massa di
un’informazione ridotta a spazzatura (dalla cronaca nera
all’eroismo dei due marò), prigionieri dell’ignoranza e
dell’incultura. I drammi avvengono sempre altrove e non ci
riguardano. Siamo nell’occhio del ciclone, qui c’è pace, per
ora. Ma non sarà così. I senza voce (nelle periferie urbane,
nell’immensa e dispersa provincia italiana) tacciono, ma è il
silenzio di chi non ha più nessuna rappresentanza politica, in una
sorta di terra di nessuno. Tra le vite dei singoli e un potere
ostile, indifferente alla sorte dei giovani precari, degli operai
schiavizzati, dei dipendenti pubblici criminalizzati, dei disoccupati
cronici, non ci sono più mediazioni credibili. Durerà poco il
preteso consenso plebiscitario del 41% alle elezioni europee (poco
più del 20% dei voti degli aventi diritto, un italiano su cinque),
durerà poco la trovata (voto di scambio) degli 80 euro alla base
elettorale di riferimento.
Le «riforme» del
piazzista di Pontassieve sono parole al vento, imbrogli per chi vuole
farsi imbrogliare, non ci sarà «crescita», i poveri saranno sempre
più poveri e i ricchi sempre più ricchi, protetti e garantiti.
Tornerà presto il tempo della barbarie, anche nell’occhio del
ciclone. E sarà drammaticamente attuale l’alternativa
luxembourghiana «socialismo o barbarie». Da questa crisi, non
riformabile, crisi di sistema, si potrà uscire in due sole
direzioni: la militarizzazione del territorio italiano, il fascismo e
la guerra civile, o una democrazia ricostruita dal basso, socialista
e internazionalista: è questa l’anima, sotterranea e profonda,
carsica, dell’Italia migliore, che riemerge più o meno
spontaneamente in tante esperienze di base, locali e frammentarie ma
importanti, dell’opposizione sociale ai disegni di un potere
criminale. L’ultimo segnale, in questi giorni, viene dalla
Sardegna: contro le basi militari, contro le «servitù» di guerra,
erano tanti in piazza a Capo Frasca, il 13 settembre, a dire NO. E
dal 15 settembre sono riaperte le scuole pubbliche, i nostri
laboratori più importanti per la formazione di soggettività
consapevoli e autonome. In questi stessi giorni il trombone di
Pontassieve comincia a essere fischiato ovunque si esibisca: la
caccia è aperta.
Un altro segnale, del
tutto diverso, viene dall’area tra Siria, Libano, Iraq e Kurdistan:
il 13 settembre, su iniziativa del Fronte al-Nusra di ispirazione
quaedista, l’Isis e le formazioni islamiste «moderate» tra cui il
Fronte rivoluzionario siriano collegato all’Esercito libero,
braccio armato di quella Coalizione nazionale che dal 2012 è
considerata dall’Occidente la legittima rappresentante del popolo
siriano, e per questo sostenuta e armata dagli Stati uniti e
dall’Europa, hanno firmato un patto di non aggressione, per
concentrare l’attività militare sull’esercito di Assad che ha
ripreso il controllo su buona parte del nord del paese. Così i
«tagliagole» dell’Isis diventano alleati degli Stati Uniti nella
vera partita sul campo: la disarticolazione dello stato siriano (ma
la partita è ancora tutta da giocare sia sul campo che a livello
internazionale, dove ancora una volta Russia e Cina sono in conflitto
con gli Stati Uniti e l’Europa) e il controllo dell’intera area
in funzione antiraniana.
E l’Italia del partito
unico di Napolitano-Berlusconi-Renzi? L’invio simbolico di armi ai
kurdi perché si facciano ammazzare per gli interessi occidentali e
la dichiarata volontà di partecipazione alla coalizione anti-Isis ma
in realtà antisiriana, una politica filoisraeliana, le bellicose
dichiarazioni antirusse del grande stratega di Pontassieve (da cui si
dissocia Berlusconi perché pensa ai propri affari), sono certamente
il ruggito di un topo, ma coinvolgono tutto il paese nel duro e
irresponsabile confronto militare tra Occidente e mondo islamico. La
quiete nell’occhio del ciclone si sta facendo sempre più
improbabile.
Da “Il Ponte”,
ottobre 2014
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