7.11.14

Parole chiave. Umanità (Alfonso M. Di Nola)

Questa voce è tratta dalle schede del “manifesto” dedicate alla guerra del Golfo nel 1990.
A quel tempo non si era giunti alla suprema ipocrisia della “guerra umanitaria”, espressione usata dai clintoniani d'America e d'Europa a proposito dei bombardamenti su Belgrado e sulla Serbia, onde favorire la secessione del Kossovo; ma già allora la parola “umanità”, usata a fini di pace soprattutto dal papa polacco, denunciava l'ambiguità di cui qui ragiona l'antropologo Alfonso Maria Di Nola. (S.L.L.)

Umanità nel lessico italiano e, nonostante alcune maggiori precisazioni, nei lessici europei, è termine decisamente polivalente ed equivoco, che riflette la molteplicità delle concezioni fluttuanti che sono a monte del termine.
Decodificato comunemente esso designa molte e diverse cose: il genere umano come comunità di tutti gli uomini e come particolare specie animale, la natura propria dell'uomo e la sua essenza, il sentimento di solidarietà e fratellanza fra gli uomini, anche indipendente da stirpi e religioni, i patrimoni culturali come fondamento della personalità umana. 
Considerando il cumulo di significati, nel 1912. W. Wundt nei suoi celebri Elementi di psicologia dei popoli osservava che l'umanità ha un primo referente di ordine bio-fisiologico, che è il «genere umano», e successivamente diviene un predicato di valore che indica il pieno sviluppo delle qualità «morali» che distinguono l'uomo dal bruto e il loro manifestarsi nel commercio dei singoli come dei popoli. La distinzione fra i due livelli appare, invece con notevole chiarezza nelle lingue nordiche: in inglese mankind è il genere umano, distinto da humanity, come valore e anche come cultura (humanities sono gli studi umanistici), e ancor più puntigliosamente i tedeschi separano la nozione di genere umano (Menschheit) da quella di consorzio umano fondato su valori e qualità proprie dell'uomo (Menshlichkeit).
In tale sovrapposizione di significati, risulta subito chiaro che ogni indeterminazione viene meno soltanto quando ci si riferisca a «umanità» come a categoria o classificazione zoologica di esseri viventi che possono essere qualificati secondo precise caratteristiche anatomiche e fisiologiche. L'umanità si presenta, allora, come un dato oggettivo verificabile nella realtà. Ma subito ogni certezza viene ad entrare in crisi quando tentiamo di attribuire al termine un contenuto distintivo di valori; quando, cioè, ci riferiamo a «umanità» come a condizione che rappresenterebbe la totalità degli esseri definibili zoologicamente umani in senso storico-diacronico e spaziale-sincronico. 
Qui scopriamo contraddizioni profonde, crolli di significati, aggressività sotterranee, mentre l'umanità come valore diviene una tiepida utopia, un distante immaginario non corrispondente alla storia concreta: in concreto questa «umanità», che il positivismo tracciava come meta ultima dell'evoluzione e che l'anarchismo stirneriano denunziava come macchinosa soffocazione dell'individualità, è un tipico prodotto dell'utopia, tutta di là da venire fra gli infiniti mondi possibili e mai calati nella storia reale.
Cominciamo dalla dura constatazione che il tema, affrontato non in direzione filosofica (dove è possibile trovare ogni aggiustamento) ma in direzione antropologica, rivela nelle sue pieghe una serie di non-sensi, che corrispondono alla conflittualità fra la nozione di «umanità», quale si vorrebbe fosse, e quella che concretamente è: la storia delle culture è un ininterrotto sovrapporsi di proiezioni ideologiche dell'«umanità» e di negazioni pratiche del modello proiettato. I Greci, per esempio, ebbero ben chiara la definizione di specie umana, esplicitamente trattata da Aristotele proprio in direzione zoologico-biologica, nella quale, tuttavia, già si ponevano delle differenziazioni di categorie (per esempio la donna considerata come uomo sbagliato, uomo cui manca la pienezza biologica). Ma, in presenza di una collettività assoggettata ad un'unica sorte biologica, i Greci distinsero, con tutte le conseguenze di natura etnocentrica e aggressiva, una umanità biologica greca da quella dei barbari, come estranei parlanti una lingua non comprensibile e simile, nei loro costumi, alle bestie.
Con Alessandro Magno, in aperta polemica con il suo maestro Aristotele, si profila l'utopia di una superiore eguaglianza di tutti gli uomini, come figli di un unico Dio, ben distante dalla divisione dell'umanità in barbari e Elleni, e questa immagine di umanità, al di là della diversità puramente utopica e «filosofica», si consolida, nel IV sec. a.C., in Menandro per il quale «la natura di tutti è una e medesima».
Del resto, molte popolazioni di cultura arcaica e tradizionale pongono esplicitamente nel loro lessico la separazione della condizione umana, che si attribuiscono unicamente in proprio, da quella degli altri esseri viventi che non vengono indicati con il termino «uomo» (almeno in tale senso possono essere interpretati i nomi etnici che si danno, fra i tanti di altre etnie, gli eskimesi, Inuit = uomo, o i Bantu = uomini). Male sottile e corrodente, profondamente antiumano, che emerge nella storia di molte culture.
Presso gli Ebrei, la basilare eguaglianza degli esseri umani indipendentemente da stirpi, lingue e religioni, è data dall'insegnamento biblico secondo il quale gli uomini sono stati creati «ad immagine» di Dio, e che, quindi, non è concepibile un dio che possegga immagini diverse a seconda delle classificazioni delle sue creature. E la tradizione esegetica medioevale conferma, nel Talmud, questo principio, quando insegna che «chiunque sopprime una sola esistenza è messo sotto imputazione dalla Scrittura come se avesse distrutto il mondo intero, e chiunque salva una sola esistenza è giudicato dalla Scritture come se avesse salvato il mondo intero». Dichiarazione di principio, fra le più dense che siano state mai formulate, la quale, tuttavia, trova la sua smentita nelle astuzie testuali attraverso le quali ogni ebreo è portato quotidianamente a glorificare Dio per non essere nato non-ebreo e per non essere nato donna: la misura universale dell'umanità, come sogno che vieta ogni violenza contro singoli e collettività, si frantuma nella proclamazione dei privilegi e degli esclusivismi che sono all'ordine del male storico.
Lo stesso messaggio cristiano che pure, alla sua fonte evangelica, aveva accolto le più vivaci sollecitazioni universalistiche dell'ebraismo dei Profeti, dà origine ad una societas attraversata fondamentalmente dalla contraddizione che portò a considerare, con l'uso delle armi e della violenza, come «diversi» dalla condizione umana ora gli eretici, ora i musulmani e gli ebrei, ora i laici, ora le streghe, i vari mondi di emarginazione nei quali l'universale messaggio del Cristo veniva cancellato in nome di un Cristo falsificato.
Quando, nella fase attuale di sviluppo storico, utilizziamo il vetusto termine di «umanità», affondiamo, quindi, nel magma di remote contraddizioni, che più duramente appaiono nell'epoca presente. Da un lato confermiamo come vaga e distante la realizzazione di un'umanità di eguali, obiettivo sognante, mortificato dalla storia concreta strutturata di astuzie della ragione.
Questo sogno appartiene soltanto a non potenti, a coloro che esprimono le istanze della pietas soggiacenti alla violenza: è il caso della predicazione del pontefice romano, destinata a cadere nel vuoto totale nel mezzo di coloro che, dichiarandosi cristiani, fondano quotidianamente la guerra.
In sostanza, ci si avvale con scandalosa ipocrisia dell'utopia di «umanità» in un progressivo internazionale disfacimento del messaggio razionale dei laici e religioso dell'evangelo.
Prevalgono le oscene ragioni del danaro, del profitto e della guerra, mentre si leva il lamento ipocrita di chi nasconde la vergogna della violenza sotto la foglia di fico della «guerra giusta» o della crociata di salvazione che una umanità eletta da Dio, quella americana, con i sacramenti della nuova religione del petrolio e delle banche, è chiamata da un dio petroliere e combattere contro un'altra diversa umanità terzomondista che, a sua volta, ma con ben diverse giustificazioni, proclama la sua guerra santa. Le umanità, in ultima analisi, sono infinite, foggiate ciascuna a misura del «particulare» delle élites, come una sorta di svergognato gioco ad incastro o di prestigio, sul quale ciascuno di noi spera si sollevi il vento dell'ira.

"il manifesto schede"- Le lezioni del Golfo - senza data, ma 1990

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