20.11.14

Zeno senza coscienza. La poetica di Italo Svevo (Giancarlo Mazzacurati)

Con il titolo Zeno Einaudi, nel 1987 pubblicò nella Biblioteca dell'Orsa, una raccolta di testi di Italo Svevo, curata di Mario Lavagetto, che mette a fuoco la genesi complessa e i potenziali sviluppi del personaggio protagonista de La coscienza di Zeno. La recensione di Mazzacurati saluta l'operazione editoriale come un'importante contributo critico, che giova a ricostruire la poetica dello scrittore triestino al di là delle sue stesse dichiarazioni, talora depistanti. (S.L.L.)
Italo Svevo con la moglie e la figlia
Zeno non è soltanto il protagonista de La coscienza di Zeno, ma l'eroe eponimo e riassuntivo delle vicende nuove di una vecchia voce. Nel romanzo di Svevo si accampa sul proscenio, di fronte alla buca del suggeritore, minimizzandosi ironicamente nel cognome di un tale Cosini e ciarlando di sé, a vantaggio, lì per lì, di un astioso analista ; e poi a sua definitiva confusione e confutazione. Ma già prima quella voce si era aggirata per i camerini confusa tra altre.
Più tardi - dopo il 1923 – riprenderà ad entrare ed uscire dalle quinte, dietro maschere e nomi diversi, finché non tornerà a recitare frammentariamente sotto maschera e nome provvisorio di «vegliardo». Maschera e nome che la morte renderà definitivi. La si distingue, quella voce, da alcune tonalità particolari, che vanno dalla recitazione un po' sfilacciata e in prima persona alle sovrapposizioni di tempo e di luogo, dalle strategie oblique del suo bavardage fino alle sproporzioni ben poco euclidee di causa ed effetto, di moventi e risultati, di impiego e ricavi; infine, per un'insopprimibile e quasi infantile tendenza alla menzogna e per la ricerca dei più impresentabili alibi. E', insomma, la voce di un «umorista» particolarissimo, di un «auto-umorista», come lo era già stato del resto Sterne, il primo a denunciare, nel Tristram Shandy, gli strani comportamenti della «coscienza».
Mai come in questo caso, allora, per descrivere un progetto di lettura, occorre cominciare dall'indice, che comprende pezzi decisivi dell'ideale «enciclopedia e prosopopea storica di Zeno», raccolta da Mario Lavagetto: un montaggio a collage che potrà suscitare perplessità tra i non pochi seguaci della religione che vuole il protagonista sveviano uno e trino, unitario e monoloquente, in definitiva, nella trinità delle fattezze e nello stile «storico» dei ritratti (quello dell'Alfonso di Una vita, dell'Emilio di Senilità, dello Zeno de La coscienza). Potrà sembrar loro sottigliezza eccessiva, se non paradossale, una ricerca di affluenti e defluenti (verso e da Zeno), che spesso aggira le cateratte per soffermarsi su alcuni rigagnoli, che insomma sembra cancellare le prime incarnazioni del prototipo per cercare ai loro bordi (come nel Diario per la fidanzata, ad esempio) i segni di un'incipiente terza metamorfosi.
Lavagetto appare rassegnato, nella prefazione intitolata appunto, nudamente, Zeno, alle ipoteche che si addenseranno su questo strappo nella carne dell'opera e nella «carriera» di Svevo, tra le quali quella di poter apparire soltanto provocatorio ; ma si mostra altrettanto deciso a correre il rischio, oggi, non foss'altro che per interrompere un'abitudine di lettura o fatta per vertici (i tre romanzi e basta) o pazientemente costruita lungo l'opera omnia, più o meno cronologicamente ben disposta. Dove tempi, orizzonti, modalità di scrittura diverse, ragioni di crisi sopravvenute annegano, come nel fluire suadente di una «galleria», risarcite da un'illusoria «unità» autore-opera, senza essere state identificate criticamente.
Dalla «galleria di famiglia» provengono infatti tutte le immagini di continuità, più meno autorizzate dallo stesso Svevo, mentre festeggiava (negli ultimi quattro felicissimi anni della sua vita) l'uscita propria e dell'intera opera sua dal tunnel abbandonato degli scrittori senza pubblico: Zeno, fratello soltanto più anziano, più ricco e perciò più ironico e flaneur di Alfonso e di Emilio; La Coscienza ultima parte o terza puntata di un romanzo solo, semi-ciclico, come se, adeguati i toni e le iconografie, dietro quei volti e quei nomi cangianti ci fosse ancora un paradigma lineare nell'universo biologico-sociale dei personaggi, una costanza di progetto analoga a quella adoperata da Zola, nel ciclo dei Rougon-Macquart.
Ma Svevo, come Zeno, era divenuto, invecchiando in gloria, un anziano signore molto «bugiardo», spesso euforico, ciarliero e ghiotto di consensi, a qualsiasi titolo gli provenissero: amava, come puntiglioso commerciante, sentir lodare la sua merce nuova così come quella che aveva dormito per decenni nei depositi di quel suo vizio privato e fallimentare che era stata la Letteratura. Inutile chiedere a lui una scelta, una discriminazione: amate Una vita? Certo, forse è il mio unico «romanzo». Avete una predilezione per Senilità? Capisco, del resto anche Larbaud...; e così via.
Di Svevo non ci si deve fidare; e Lavagetto, impaginando il suo Zeno, mostra di fidarsene poco o meglio, di fidarsene soltanto dopo averlo interpretato.
L'isolamento di Zeno dalla galleria dei ritratti di famiglia ha appunto per scopo principale l'interpretazione; è anzi già in sé un'interpretazione o almeno una sua necessaria condizione di avvio. Con ciò non si vuole neppure dire che il volume della «Biblioteca dell'Orsa» sia soltanto un laboratorio per scrutare in profondità, dai palinsesti, ai croquis e dai disegni preparatori fino alle successive riprese, le orme di un capolavoro: è certo anche questo, ma in più (miracoli sveviani) uno straordinario libro di lettura per turisti colti, cui mostra «come si deve o si può leggere il quadro» senza annoiarli affatto, anzi coinvolgendoli in sorprendenti riscoperte.
Il filologo ovvero il critico «calvo, assiduo, dalle orecchie lunghe e dal piccolo piede tenero dolcemente scricchiolante» (tanto per rubare a Joyce un'immagine che Svevo ricorderà bene), se riesce ad accettare le finalità del laboratorio, potrà forse cogliere qualche carenza «didascalica» nell'impianto, ritenere troppo vasta per un verso o troppo angusta e unilaterale la raccolta di ingredienti testimoniata dall'indice : quel che conta, una volta tanto, è il principio. Tutto quello che serve a comprendere Zeno è lì, ai piedi della sua predella: ma prima, Zeno.
C'era stata una crisi, ventennale, troppo spesso ridotta alla pura questione privata del fallimento artistico, della sana economia familiare (specie quella dei Veneziani) da risarcire: da tale crisi (secondo la leggenda in parte voluta da Svevo stesso) il savio massaro sarebbe uscito un giorno, più o meno intatto di voglie e vocazioni, profittando dei silenzi della Borsa e della decompressione che la guerra aveva prodotto sul suo tempo, già frastornato dai ritmi della produzione industriale di vernici. Dentro questo spazio di crisi, nel privato e nella storia, si è invece consumato per intero il «mondo di ieri» (se così si vuoi definire dolcemente, con Stefan Zweig, lo «stupido Ottocento»); sono nate, sotto gli occhi vigili dello scrittore latitante, le scienze e le tecniche nuove del Novecento, dalla psicoanalisi alla fisica relativa, dalla linguistica al cinema; uno dei più intransigenti rifondatori della forma narrativa europea (James Joyce) è andato casualmente ad abitare a due passi da lui e si è legato alla sua vita in un intrecciò aperto di echi scambiati.
Infine, è esplosa l'apocalisse del '14-'18: di fronte a questa fin troppo rapida tavola sinottica, immaginare che Zeno potesse davvero essere soltanto «un fratello più anziano e più ricco» dei due predecessori significa pensare di Svevo tutto quello che ne pensava crudelmente Bobi Bazlen («Non aveva che genio, nient'altro. Per il resto era stupido, egoista, opportunista, gauche, calcolatore, senza tatto», scriverà in una lettera a Montale); e in più negargli anche ogni traccia di genio.
Per cogliere in profondità la trasformazione di Zeno occorre diffidare di Svevo. Perfino l'aggiornato gioco con la psicoanalisi gli serve a costruire, più che uno di quei tecnoromanzi che spesso sognava (aveva sognato anche un «romanzo della trementina»), un narratore del tutto inattendibile: «La sua grande invenzione — scrive Lavagetto — nel momento in cui mette in scena un personaggio così subdolo ed evasivo, così opinabile^ così capzioso, così bugiardo come Zeno, consiste proprio nell'aver inventato e incuneato, e successivamente registrato, tra ognuna delle sue sillabe, un discorso nascosto sotto il discorso di chi ufficialmente parla, si confessa, si giustifica, si difende, accusa, costruisce con frammenti a volte sconnessi e incompatibili la propria autoapologia o almeno una versione accettabile dei fatti».
Quanto poi al suo uso della psicoanalisi (non diciamo, né Lavagetto dice, l'uso che può farne un interprete fuori del testo, ma quello che ne fa Zeno per montare il suo testo) «... Come non cedere alla tentazione di vedere alla spalle di Zeno la figura di un condannato alla pena di morte che, per sfuggire al proprio destino, si mette a studiare il codice penale e alla fine lo conosce con tanta sicurezza e precisione da scovare gli errori e i vizi di forma commessi da uomini educati e vissuti su quei codici?». E', tra l'altro, questa figura di narratore interno tanto avvolto nella crisi d'ogni ordine (da quello del tempo a quello del principio di non contraddizione), che rende impossibile a Svevo raccontare una storia intera, attraverso di lui. Quella voce l'ha inventata, ma nell'orbita di Zeno ne è anche prigioniero. Per credergli di più, occorre sorprenderlo di lato, non mentre intrattiene garrulo il suo fresco uditorio e i posteri, finalmente intravisti, per rassicurarli sulla serietà della ditta e sull'omogeneità complessiva dei suoi prodotti, ma quando parla d'altri e di sé a se stesso.
La sua autobiografia formale (di produttore di forme, cioè) la si troverà meno mascherata, ad esempio, là dove è più deviata: in alcuni pensieri frammentari e sospesi del «diario» (Pagine sparse) o addossata ad altre storie, come nel rapido profilo dello Stradivari, che riscopriamo nel Soggiorno londinese, dopo averlo chissà quante volte scorso senza metterlo mai a fuoco; e forse è anche questo un merito dell'ordine nuovo che Lavagetto ha dato al suo (direbbero gli urbanisti) «asse di lettura attrezzato».
Se all'Amati — maestro dello Stradivari — volessimo sostituire la narrazione in terza persona tipica dei modelli narrativi cui Svevo s'era adeguato in gioventù (da Flaubert a Zola), e all'arte nuova di Stradivari l'enorme sforzo sperimentale compiuto per frantumare quel materiale, rifarne le forme e ricomporlo per un diverso suono, allora questa vicenda estetica dell'antico liutaio finirebbe per assomigliare straordinariamente, in questi anni tra il '23 e il '25, al travaglio teorico, alle tentazioni di virare di nuovo verso tecniche più tradizionali, di cui Svevo farà cenno anche in alcune lettere a Montale. Corto viaggio sentimentale ('25-'26), ad esempio, che pure è un piccolo, ambiguo capolavoro, non figura nella raccolta che ha per epicentro (tra incubazioni e postumi) il soggetto nuovo Zeno, forse proprio perché, nell'anamnesi del personaggio sveviano, è come una parentesi, un tentativo di ritorno al soggetto trattato come oggetto.
L'implicita dichiarazione di poetica che si può dedurre, come da un apologo, dalla divagazione su Stradivari, è comunque una delle tante che danno ragione e giustificazione all'operazione compiuta da Lavagetto. Nessuno, crediamo, dopo molte mostre e cataloghi storici dell'arte di Stradivari, vorrebbe metter in questione l'utilità di una mostra che documentasse i tempi e le tecniche attraverso le quali egli «deviò» dalle «già perfette forme del suo maestro Amati»; e pochi, speriamo, vorranno pregiudizialmente rifiutare l'opportunità, l'utilità di un libro che documenta come Svevo «deviò» dalle «già perfette forme» da lui stesso costruite.


“il manifesto”, ritaglio senza data, ma 1987

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