13.1.15

Arlecchino nonno dell'avanguardia (Roberto de Monticelli)

C'è un paese della nostra memoria collettiva — e inconscia — di cui il tempo, i secoli non riescono a cancellare l'immagine. La attenuano, la corrodono, ne rendono sbiaditi e opachi i colori come accade ai capolavori morenti di certe grandi pitture sui muri delle antiche chiese. Ma basta un guizzo, un'occasione di luce, l'aprirsi di una fenditura improvvisa nella parete del giorno e delle abitudini, un capriccio, insomma, o un crollo improvviso delle regole che stabiliscono i ritmi del nostro faticoso aggiornamento all'informazione — e anche al conformismo — di oggi, perché quell'immagine rinasca dentro di noi, arcaica e affascinante, con tutte le sue vernici miracolosamente fresche e vivide, in un odore di stoffa, legno, mastice, olio da lumi.
E' infatti l'immagine di un paese posticcio, costruito con materiali che fingono apparenze di realtà. E quanto più quelle apparenze risultano false e in mezzo ad esse guizzano, con effetti di calcolato artificio, figure illusorie, antichi prototipi della sentimentalità e della buffoneria umane, alcuni dei quali ad aumentare l'inganno celano a metà o per intero il volto dietro una maschera, tanto più, cresce in noi lo struggimento, un'oscura nostalgia per quel mondo inventato, per quel paese collocato al sicuro, fuori dalla natura; e condensatosi quattro secoli fa sui palchi issati nelle piazze dei mercati in mezzo al popolo e nei freddi saloni dei palazzi principeschi, davanti all'occhio vorace o ironico del potere.

Mondo enigmatico
E' il paese, lo si sarà già capito, della Commedia dell'Arte. capitolo fondamentale, fonte remota e tutta italiana del teatro moderno. Le chiavi — cioè gli studi — per riaprire le porte di quel mondo così seducente ed enigmatico, sono ormai innumerevoli; e dotte, intarsiate, eleganti, guidano a ricche bibliografie, danno l'accesso a iconografie preziose. Alcune di queste chiavi sono magari un po' più difficili da manovrare; altre più dolci e scorrevoli, basterebbe citare un'opera classica.
Il mondo di Arlecchino di Alessandro Nicoli, che è un vero e proprio romanzo-saggio della Commedia dell'Arte, rapportata anche al mondo della drammarurgia elisabettiana, tant'è vero che il capitolo primo è un singolare confronto tra i personaggi di Amleto e di Arlecchino, che hanno almeno un anno in comune, quel 1601 in cui l'eroe di Shakespeare nacque sulla pagina e la maschera italiana apparve per la prima volta in un ritratto databile.
C'è ora, ripubblicato dopo tre secoli e mezzo e dunque a disposizione del pubblico più vasto, non più recondita lettura riservata ai ricercatori, Il Teatro delle Favole Rappresentative di Flaminto Scala, la prima raccolta di scenari della Commedia dell'Arte apparsa a stampa nel 1611 a Venezia; e aveva per sottotitolo “La ricreazione comica, boscareccia e tragica divisa in cinquanta giornate”. Distribuita in due volumi dalle edizioni del Po-lifilo la ripubblicazione di quest'opera fondamentale è un'iniziativa meritoria dell'Istituto del Teatro dell'Università di Roma, diretto da Giovami Macchia. Ha curato i testi e vi ha premesso un lungo e illuminante saggio (oltre che una serie di appendici con documenti coevi agli scenari dello Scala) Ferruccio Marotti.
Chi fu Flaminio Scala? Un attore delle grandi compagnie dell'Artv, forse non dei più, famosi (il suo nome in commedia era Flavio, come ruolo una specie di secondo Innamorato) vissuto fra il 1547 e il 1621. Ma soprattutto egli fu un testimone del periodo più splendido di quel teatro, quando le compagnie dei Gelosi (la più illustre, quella di Francesco e Isabella Andreini), degli Accesi, dei Desiosi, degli Uniti, dei Fedeli, dei Confidenti (che egli diresse, più che sessantenne} correvano per l'Italia e l'Europa, contese dalle Corti. «Dramaturg» fecondissimo, inventore inesauribile oltre che adattatore e collazionatore di trame, nella sua raccolta egli ci dà una specie di affascinante cristallizzazione di quel mondo fantastico e di quella cultura teatrale che erano in realtà in continuo movimento, metalli ancora allo stadio fluido nel crogiuolo di un pianeta in formazione.

Giochi d'incastro
Allora noi possiamo di quei metalli riconoscere le varie vene, prima che si fondano e si solidifichino nella lega dello spettacolo: la vena rossa, tra sulfurea e fegatosa, di Pantalone, il Magnifico, maschera che alterna all'onesto bagliore di un'età attempata e cauta il torbido, ma soprattutto il ridicolo, di cupidigie tardive: la vena nera e obesa, m cui galleggia la bianca gorgiera pieghettata, gorgogitante di borborigmi latini, del Dottore; la vena, che è piuttosto una cascata, tumultuosa e fragorosa, dei servi; la vena color madreperla, stilizzata e canora, degli Innamorati, gli Orazi, i Flavi, le Isabelle, le Flaminie; il burbanzoso fumacchio-pennacchio spagnolesco del Capitano, che poteva anche diventare uno degli Innamorati, solitamente deluso.
Queste e altre molteplici condensazioni fantastiche troviamo negli scenari dello Scala, disposte in giochi d'incastro sempre diversi ma in modo che si sviluppino ogni volta alcuni temi fondamentali: la sconfitta dei vecchi in amore, non senza eruzioni di rabbiosa o disperata o frustrata sensualità, in genere crudelmente e buffonescamente punita; l'intrigo ghiotto e astuto dei servi che si alleano agli innamorati, ma senza opporsi frontalmente ai vecchi, giocandoli per vie oblique, eseguendone disastrosamente i comandi; le gelosie, gli equivoci, i contrasti amorosi fra i giovani, sciolti poi nei matrimoni finali cui spesso si aggiungono, in chiave comica e d'allegra carnalità popolana, le nozze servili, di Arlecchino e Pedralino e Burattino con Pasquella, Olivetta o Franceschina.
Ma ciò che fa il fascino e l'interesse di queste pagine è proprio la loro essenza drammaturgica, la loro struttura di traliccio, di canovaccio esteso, tanto più ampio e particolareggiato e stilisticamente raffinato di quella breve traccia o promemoria che i comici dell'arte trovavano appuntata al retro d'una quinta e cui davano un'occhiata rapida, al lume d'un lucignolo fumoso, prima d'entrare in scena.
E' come se anche noi ci trovassimo al di là di quella quinta, a seguire da vicino (di fianco) il nascere dell'improvvisazione, sulla scorta di precisi suggerimenti, di guizzanti ipotesi che prefigurano figurano parola e gesto. Gli scenari dello Scala, infatti, programmano l'intera linea dello spettacolo, modulano l'arco della battuta senza comporne le frasi, semplicemente elencandone gli argomenti, danno via libera al lazzo, ma minuziosamente lo descrivono, scoprendone la specificità tecnica, il rigore professionistico. Sono quadranti d'orologio su cui la lancetta del tempo drammaturgico procede secondo vari ritmi, ora lenti e patetici, ora rapidi e clowneschi, regolando così l'estro inventi vo degli interpreti.
Allora attraverso la pagina (poiché vi si descrivono azioni, non vi si concertano dialoghi; « e le commedie», scrive lo Scala, «nell'azzioni consistono propriamente et in sustanzia, e nelle narrazioni per accidente» e «gli affetti si muovono più agevolmente dai gesti che dalle parole») noi soprat£ tutto vediamo. E l'enorme materiale fantastico che questi meccanismi (mossi a "mano, si vorrebbe dire, o a fiato; e come lubrificati da un secolare sudore istrionico) ci si dispone davanti in una prospettiva emblematica, riassuntiva e insieme anticipatrice di secoli di teatro,
II barbaglio del romanzesco scocca bianco nella Pazzia d'Isabella, uno degli scenari più famosi, che faceva delirare le corti e le piazze intorno al bel torso nudo della protagonista che si stracciava «tutte le vestimenta d'attorno» e andava gridando che «ho veduto l'arcobaleno far un seviziale all'isola d'Inghilterra, che non poteva pisciare». La teatralità di cui è sempre carica la mimesi della follia liberava e faceva scoppiare la buffonerìa dell'osceno mentre fissava in mosaici allibiti, fra comici e lividi, il flusso dei non-sense: «come piacque al suo fatal destino quella poveretta dell'Orsa Maggiore si calzò gli stivali d'Ortofilace et andò a pigliar ostreghe e cappe longhe nel golfo di Laiazzo, in ver Soria, che la cosa sia o non sia, sia voga, voga sia, e sia col malanno che Dio vi dia». Così straparla un'altra forsennata, la principessa Alvira, in una delle opere «reali, pastorali e tragiche» che, a seguito dei quaranta canovacci per commedie, concludono la raccolta.
Qui già siamo al meraviglioso, all'enfasi e alla macchineria della scena barocca. Gli oggetti, cioè le «robbe per la tragedia» o per «l'opera», diventano fantastici, esotici o appartengono al repertorio astronomico e nautico: «una luna finta che tramonti» e «apparisca tutta macchiata di sangue», «una bellissima nave», «un terramoto», «quattro abiti da spiriti», «una cappa marina che nasca», «verga e libro per lo mago».

Luna finta
In mezzo a questa patetica rigatteria dell'immaginazione compaiono talvolta timidamente una Flaminia e un Orazio ma in genere gli Innamorati hanno cambiato nome. Resistono le maschere; meno Pantalone, che può essere un ricco possidente in Arcadia o un ambasciatore di qualche re; sempre Arlecchino, magari camuffato da pastore o trasformato in gru selvatica per via d'incanti, a punizione della sua malalingua.
C'è poi la questione di fondo che fa l'importanza della ricomparsa di questo libro, a oltre tre secoli dalla sua prima pubblicazione, in un momento di radicale rianalisi dell'identità stessa del fenomeno teatrale. Cosa sono gli scenari di Flaminio Scala, commedie autosufficienti nello spazio della pagina, o notazioni su spettacoli perduti? Certo, una rivalutazione della Commedia dell'Arte come metodologia di palcoscenico e chiave per l'invenzione di una nuova drammaturgia, anche se è un fenomeno ricorrente nella evoluzione dello spettacolo in questo secolo, si inserisce con naturalezza nell'attuale fase degli studi sul teatro e anche nel suo momento operativo, nel fervore di ricerca e di laboratorio che investe tutti i teatranti più attenti. Basta pensare ai risultati ottenuti su questa strada, proprio risuscitando le maschere dell'antica Commedia, da Ariane Mnouchkine con il suo Théàtre du Soleil.
Questi scenari, i più elaborati e complessi fra quanti sono arrivati fino a noi, possono essere paragonati, come scrive il Marotti, a delle partiture di spettacoli, dove tutti i materiali espressivi, gesto, scena, azione e anche, ma sì, la parola, figurano con un loro segno, anche se approssimativo; mentre invece il testo scritto della commedia ci restituirebbe fedelmente solo l'involucro verbale dello spettacolo, dunque una sola delle sue componenti. E' vero. Ciò non toglie che se leggo La Mandragola, tale è la forza rappresentativa di quei dialoghi, che vedo comunque uno spettacolo; interiore, personale e dunque variabile, ma uno spettacolo. E non avviene anche con questi scenari? Non deve il lettore aggiungerci il contributo della, propria immaginazione? Il fatto è che essi possono servire da modelli per una ricerca di espressività totale dell'attore. Qui sta il senso — e il fascino — della loro inquietante presenza nel laboratorio del teatro moderno.


“Corriere della Sera”, 26 aprile 1977

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