Avevamo una bella e ampia
biografia della Ortese (di Luca Clerici, Apparizione e visione.
Vita e opere di Anna Maria Ortese, Mondadori, 2002) e non
l’avevamo ancora della Morante. Graziella Bernabò, già attenta
studiosa di Antonia Pozzi (Per troppa vita che ho nel sangue,
Ancora) e già studiosa di Landolfi, ha rimediato a questo vuoto con
un ampio saggio che passa, come di dovere, dalla biografia, accurata
e necessaria, all’analisi della scrittura, che alla prima è
legatissima ma che ha, come sanno i tanti suoi lettori che non
l’hanno conosciuta e che ignorano le sue esperienze, una vita
propria e altissima. Il pregio maggiore di questo saggio è proprio
quello di operare questi collegamenti, per approfondirli e chiarirli.
Oltre il superficialmente
noto della vita (i due padri, Moravia, la guerra, Pasolini, il ’68,
La Storia, il carattere ombroso ed esigente, l’altera coscienza del
proprio valore e il rifiuto delle vaste platee; e poco d’altro), i
lettori possono seguire grazie alla Bernabò i passaggi di una
biografia appassionata e appassionante, ricostruita con ampiezza di
riferimenti e con l’ausilio delle persone che le sono state più
vicine – prime fra tutte Carlo Cecchi, un grande uomo di teatro che
fu il più saldo e intimo dei suoi confidenti, e il nipote Daniele
Morante, curatore di un epistolario che uscirà in autunno da Einaudi
con le lettere della Morante e con quelle alla Morante. Qualcosa di
più sanno delle opere per averle lette, e perché da molto tempo ci
sono stati acuti critici e studiosi ad analizzarle – Cesare Garboli
sopra tutti, il più acuto e vicino, e poi Berardinelli, e poi
Bardini, e Rosa, D’Angeli, Zagra e altre donne ancora che vi si
sono accostate per ragioni evidenti: l’interesse per la scrittura
femminile che in Morante e Ortese si è esaltata in veri e propri
capolavori ma che resta, nonostante l’evidenza comunicativa delle
opere, di una complessità che hanno raramente le opere dei grandi
scrittori italiani loro contemporanei o quelle delle scrittrici oggi
in voga. Sono ormai ben note le distinzioni morantiane tra scrittori
(pochi) e scriventi (mai tanti come oggi) e tra poeti (lei, per
esempio) e poetessi (anche plurilaureati), che escludono la
distinzione più o meno razzista, contro la quale la Morante si è
sempre rivoltata, tra scrittori e scrittrici, tra poeti e “poetesse”.
È forse sul fronte
femminile che Graziella Bernabò ha operato con più accanimento,
puntualizzando e allargando, ed è forse su questo fronte – un
fronte oggi delicato e frastagliato, dove molto è stato rimesso
coraggiosamente in discussione dopo gli esiti ambigui dei movimenti -
che il suo libro aprirà una discussione più forte, fuori dai
consueti canali mediatici, anche perché sia la Morante che la Ortese
non ebbero con il femminismo, in vita, molti rapporti né buoni,
forse più radicali nella sostanza e meno radicali nelle pratiche. Ma
il saggio di Graziella Bernabò ha il merito di non farsi dominare da
questo particolare punto di vista, peraltro molto produttivo, e di
addentrarsi saldamente nel processo di crescita teorica della
Morante, attraverso vicende private che furono anche l’occasione di
acquisizioni teoriche, di costruzione di un pensiero autonomo ma
passando per Gesù e Budda, e qui sarebbe stato utile saperne di più
sulle sue letture in fatto di filosofie orientali, probabilmente
decisive (per esempio, l’amatissimo Milarepa).
La ricerca della Morante
ha prodotto alcuni testi teorici di rara intensità, di grande
originalità nel panorama italiano del suo tempo, su premesse
anarco-evangeliche (Pro o contro la bomba atomica, il Piccolo
manifesto dei comunisti senza classe e senza partito…) che sono
ora evidenti e ora nascoste dentro narrazioni complesse e
trascinanti, da narratrice nata e cresciuta nel culto dei grandi
(Cervantes, i russi, Stendhal, Melville, Leopardi Manzoni Verga,
Natsume Soseki e Tanizaki…). Una visione alta dell’esistenza si
conforta nei romanzi di un pensiero esigente, che non si sovrappone a
quello dei personaggi ma li colloca e comprende, ne siano essi
portatori coscienti oppure incoscienti, e meglio i secondi (la
Nunziata dell’Isola di Arturo come l’Antigone di La
serata a Colono, il suo solo testo teatrale, che è quasi un
seguito dell’Isola con Arturo/Edipo distrutto dalla
conoscenza; Iduzza e Useppe di La Storia) dei primi, folgorati
dalla conoscenza e dal dolore che ne ricavano. Si tratta infine di
pochi titoli, solo quattro romanzi lunghissimamente elaborati e
pensati (oltre quelli abbandonati e solo in parte recuperati in
quelli giunti a buon fine) e il più insolito, il più strano e
aperto dei libri di poesia del nostro Novecento, Il mondo salvato
dai ragazzini, che andrà anche considerato come la summa teorica
della sua opera e della sua difficoltà a venir costretta in formule,
in generi, in messaggi. E credo avesse pienamente ragione Giancarlo
Gaeta affermando in un suo saggio la superiorità del pensiero
femminile del Novecento sul pensiero maschile perché estraneo al
potere e critico del potere (violento e maschile per eccellenza): e i
nomi che faceva erano Weil, Arendt, Hillesum, Morante, Ortese…
La grandezza dei veri
narratori sta nella loro capacità di parlare dei problemi più
grandi e di sempre attraverso i personaggi che li vivono,
coscientemente o meno, e che però ci si mostrano dotati di una vita
autonoma alle cui prove possiamo appassionarci, giungendo a mettere
in discussione le nostre idee ricevute e le nostre misere
giustificazioni, confrontandoci con il mistero e con la bellezza. Il
nucleo ispirativo dell’opera morantiana è infine semplice: la
cacciata dall’Eden, il “limbo” fuori del quale “non v’è
eliso”. Ma ella ha saputo dirlo in molti modi diversi e avendolo
via via più chiaro a seconda delle sue esperienze private e delle
grandi vicende collettive, “la Storia”. In un tempo di estrema
mutazione quale è il nostro, quando l’umano stesso sembra
cambiare, i romanzi e le poesie morantiane hanno oggi la grandezza
dei classici perché vanno al fondo dei problemi che ci legano e ci
angosciano più che mai. Da essi qualcosa o molto possiamo ancora
ricavare. L’intreccio vita-opere ricostruito con pazienza e
dedizione da Graziella Bernabò è certamente importante per capire
Elsa Morante, ma sono le opere a continuare a parlare e alle quali è
bene che torni chi già le conosce, invitando a leggere, anche
profittando degli anniversari, chi ancora non le conosca.
“Il Sole 24 Ore”, 26
agosto 2012
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