18.1.15

La vera Storia di Elsa Morante (Goffredo Fofi)

Avevamo una bella e ampia biografia della Ortese (di Luca Clerici, Apparizione e visione. Vita e opere di Anna Maria Ortese, Mondadori, 2002) e non l’avevamo ancora della Morante. Graziella Bernabò, già attenta studiosa di Antonia Pozzi (Per troppa vita che ho nel sangue, Ancora) e già studiosa di Landolfi, ha rimediato a questo vuoto con un ampio saggio che passa, come di dovere, dalla biografia, accurata e necessaria, all’analisi della scrittura, che alla prima è legatissima ma che ha, come sanno i tanti suoi lettori che non l’hanno conosciuta e che ignorano le sue esperienze, una vita propria e altissima. Il pregio maggiore di questo saggio è proprio quello di operare questi collegamenti, per approfondirli e chiarirli.
Oltre il superficialmente noto della vita (i due padri, Moravia, la guerra, Pasolini, il ’68, La Storia, il carattere ombroso ed esigente, l’altera coscienza del proprio valore e il rifiuto delle vaste platee; e poco d’altro), i lettori possono seguire grazie alla Bernabò i passaggi di una biografia appassionata e appassionante, ricostruita con ampiezza di riferimenti e con l’ausilio delle persone che le sono state più vicine – prime fra tutte Carlo Cecchi, un grande uomo di teatro che fu il più saldo e intimo dei suoi confidenti, e il nipote Daniele Morante, curatore di un epistolario che uscirà in autunno da Einaudi con le lettere della Morante e con quelle alla Morante. Qualcosa di più sanno delle opere per averle lette, e perché da molto tempo ci sono stati acuti critici e studiosi ad analizzarle – Cesare Garboli sopra tutti, il più acuto e vicino, e poi Berardinelli, e poi Bardini, e Rosa, D’Angeli, Zagra e altre donne ancora che vi si sono accostate per ragioni evidenti: l’interesse per la scrittura femminile che in Morante e Ortese si è esaltata in veri e propri capolavori ma che resta, nonostante l’evidenza comunicativa delle opere, di una complessità che hanno raramente le opere dei grandi scrittori italiani loro contemporanei o quelle delle scrittrici oggi in voga. Sono ormai ben note le distinzioni morantiane tra scrittori (pochi) e scriventi (mai tanti come oggi) e tra poeti (lei, per esempio) e poetessi (anche plurilaureati), che escludono la distinzione più o meno razzista, contro la quale la Morante si è sempre rivoltata, tra scrittori e scrittrici, tra poeti e “poetesse”.
È forse sul fronte femminile che Graziella Bernabò ha operato con più accanimento, puntualizzando e allargando, ed è forse su questo fronte – un fronte oggi delicato e frastagliato, dove molto è stato rimesso coraggiosamente in discussione dopo gli esiti ambigui dei movimenti - che il suo libro aprirà una discussione più forte, fuori dai consueti canali mediatici, anche perché sia la Morante che la Ortese non ebbero con il femminismo, in vita, molti rapporti né buoni, forse più radicali nella sostanza e meno radicali nelle pratiche. Ma il saggio di Graziella Bernabò ha il merito di non farsi dominare da questo particolare punto di vista, peraltro molto produttivo, e di addentrarsi saldamente nel processo di crescita teorica della Morante, attraverso vicende private che furono anche l’occasione di acquisizioni teoriche, di costruzione di un pensiero autonomo ma passando per Gesù e Budda, e qui sarebbe stato utile saperne di più sulle sue letture in fatto di filosofie orientali, probabilmente decisive (per esempio, l’amatissimo Milarepa).
La ricerca della Morante ha prodotto alcuni testi teorici di rara intensità, di grande originalità nel panorama italiano del suo tempo, su premesse anarco-evangeliche (Pro o contro la bomba atomica, il Piccolo manifesto dei comunisti senza classe e senza partito…) che sono ora evidenti e ora nascoste dentro narrazioni complesse e trascinanti, da narratrice nata e cresciuta nel culto dei grandi (Cervantes, i russi, Stendhal, Melville, Leopardi Manzoni Verga, Natsume Soseki e Tanizaki…). Una visione alta dell’esistenza si conforta nei romanzi di un pensiero esigente, che non si sovrappone a quello dei personaggi ma li colloca e comprende, ne siano essi portatori coscienti oppure incoscienti, e meglio i secondi (la Nunziata dell’Isola di Arturo come l’Antigone di La serata a Colono, il suo solo testo teatrale, che è quasi un seguito dell’Isola con Arturo/Edipo distrutto dalla conoscenza; Iduzza e Useppe di La Storia) dei primi, folgorati dalla conoscenza e dal dolore che ne ricavano. Si tratta infine di pochi titoli, solo quattro romanzi lunghissimamente elaborati e pensati (oltre quelli abbandonati e solo in parte recuperati in quelli giunti a buon fine) e il più insolito, il più strano e aperto dei libri di poesia del nostro Novecento, Il mondo salvato dai ragazzini, che andrà anche considerato come la summa teorica della sua opera e della sua difficoltà a venir costretta in formule, in generi, in messaggi. E credo avesse pienamente ragione Giancarlo Gaeta affermando in un suo saggio la superiorità del pensiero femminile del Novecento sul pensiero maschile perché estraneo al potere e critico del potere (violento e maschile per eccellenza): e i nomi che faceva erano Weil, Arendt, Hillesum, Morante, Ortese…
La grandezza dei veri narratori sta nella loro capacità di parlare dei problemi più grandi e di sempre attraverso i personaggi che li vivono, coscientemente o meno, e che però ci si mostrano dotati di una vita autonoma alle cui prove possiamo appassionarci, giungendo a mettere in discussione le nostre idee ricevute e le nostre misere giustificazioni, confrontandoci con il mistero e con la bellezza. Il nucleo ispirativo dell’opera morantiana è infine semplice: la cacciata dall’Eden, il “limbo” fuori del quale “non v’è eliso”. Ma ella ha saputo dirlo in molti modi diversi e avendolo via via più chiaro a seconda delle sue esperienze private e delle grandi vicende collettive, “la Storia”. In un tempo di estrema mutazione quale è il nostro, quando l’umano stesso sembra cambiare, i romanzi e le poesie morantiane hanno oggi la grandezza dei classici perché vanno al fondo dei problemi che ci legano e ci angosciano più che mai. Da essi qualcosa o molto possiamo ancora ricavare. L’intreccio vita-opere ricostruito con pazienza e dedizione da Graziella Bernabò è certamente importante per capire Elsa Morante, ma sono le opere a continuare a parlare e alle quali è bene che torni chi già le conosce, invitando a leggere, anche profittando degli anniversari, chi ancora non le conosca.


“Il Sole 24 Ore”, 26 agosto 2012

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