2.1.15

Mostre. Il diabolico Machiavelli e i capitani di ventura (S. L. L.)

Machiavelli e il mestiere delle armi. Guerra, arti e potere nell'Umbria del Rinascimento. È questo il titolo completo e in verità piuttosto lungo della mostra che da fine ottobre può essere visitata a Palazzo Baldeschi, nel centro di Perugia, fino al 25 gennaio. L'organizzano la Fondazione della Cassa di Risparmio di Perugia e la Fondazione Cariperu Arte, che ne è consorella, specializzata in acquisisizioni ed esibizioni di opere d'arte.
Il diavoletto che c'è dentro di me ha gioito quando ho avuto notizia di codesta esposizione. In Umbria al dolciastro delle feste di Natale si aggiunge sovente il dolciastro di un San Francesco e di un Capitini falsificati da una interpretazione “paciosa”; finalmente – mi diceva il maligno – verrà fuori l'Umbria dei capitani di ventura, delle guerre crudeli, dei tradimenti e degli inganni. Tanto più se principale promotore e curatore della mostra (insieme a Erminia Irace, Francesco Federico Mancini e Maurizio Tarantino) è Alessandro Campi, biografo simpatetico di Mussolini, già maestro pensatore del polo berlusconiano in Umbria, poi un po' decaduto per essersi lasciato tentare dell'avventura futurista di Fini.
Tra le glorie di Campi c'è quella di aver additato come eroi patriottici per il nuovo millennio quei due contractors che, filmati nel momento della “esecuzione” dalla banda di assassini che li aveva sequestrati nell'Iraq sconvolto dalla guerra, vollero “fargli vedere come muore un italiano”. Per una mostra sui “capitani di ventura” un tifoso dei mercenari era il non plus ultra. Ma in questo sono rimasto francamente un po' deluso: non ho letto l'esplicita rivalutazione delle milizie mercenarie (anche in dissenso da Machiavelli) che mi ero immaginato, anche se non mancano qua e là cenni di ammirazione.
Il percorso parte da Niccolò Machiavelli, ricordato soprattutto come teorico dell'arte della guerra e per quei capitoli del Principe, dedicati alle milizie, in cui mostra una suprema diffidenza per i mercenari. Nella prima stanza si ritrovano un piccolo ritratto del grande fiorentino (se ne dirà più avanti), un manoscritto del Principe, non autografo ma antico e prezioso, conservato alla Biblioteca Augusta, edizioni delle sue opere nel tempo e nello spazio, assaggi della sua fama nel mondo attraverso monete, francobolli, giochi da tavolo. Troppo poco in verità per dare un'idea dello sconvolgimento, dello scandalo che la sua politica fondata “sulla realtà effettuale” piuttosto che sulla “immaginazione di essa” produsse nella cultura del Cinquecento europeo, cosa che gli valse la collocazione del capolavoro nell'Indice dei libri proibiti dalla Chiesa cattolica. La generalizzata fama di immoralista si diffuse anche tra i protestanti, al punto che in Inghilterra fu usato il suo nome per ribattezzare il demonio (lo si chiamò, e lo si fa tuttora, “the old Nick”, “il vecchio Niccolò”).
Nella mostra seguono le stanze dedicate ai capitani di ventura, Braccio Fortebraccio da Montone, i Vitelli di Città di Castello, i Baglioni di Perugia e altri ancora. La divisione è per territori. Nella sala dedicata al Nord il racconto della morte di Vitellozzo Vitelli che va disarmato a Senigallia, ad opera di Cesare Borgia, è vicinissimo (singolare associazione!) a un quadro che rappresenta il martirio di Sant'Ubaldo e non è lontano (seppure in altra sala) è il “profeta disarmato”, Savonarola, dipinto dal Brugnoli nel 1868. Negli spazi riservati a Todi e al Trasimeno si ricostruisce la celebre Congiura di Magione, ma la cosa che più attira è la faccia cattiva di Doldrino Paneri da Panicale, presentato in una tavola dipinta come “uno de' più invitti guerrieri di cui parlano le Storie”. Nella sala dedicata alla famiglia perugina dei Baglioni, Giampaolo, Malatesta, Braccio e Astorre c'è una serie di ritratti, prevalentemente postumi, di questi uomini d'arme. Fanno impressione due immagini secentesche. Paolo (cioè Giampaolo) è un tipo grasso, rossiccio, semicalvo; lo diresti un fratacchione più che un guerriero. Se guardi Malatesta hai bisogno di accorgerti della corazza per immaginarne il mestiere: la faccia è da giurisperito, un po' fessacchiotto, una specie di don Ferrante.
La successiva parte della mostra è dedicata all'arte a Perugia e nei territori umbri. Vi viene documentata in particolare l'architettura dei grandi e talora splendidi palazzi costruiti in epoca cinquecentesca.
Nella contigua sala video sono disponibili diversi audiovisivi su temi connessi alla mostra. Mi dicono che siano interessanti quelli relativi ai capitani di ventura. Quello che ho visto, dedicato al Machiavelli, mi è sembrato ben fatto. Si finisce il giro con un fuoco d'artificio: capitani a iosa e armi, quelle della famiglia Baglioni: colubrine, elmi, lance e picche.
Attraverso le sale si sono nel frattempo potute ammirare opere pittoriche di artisti di varia età, da Matteo da Gualdo al Perugino, dallo Spagna a Salvatore Fiume, e – interessante – il modello in legno della Consolazione di Todi, attribuito al Bramante; in genere niente di speciale, quasi sempre opere minori.
Il giudizio di insieme è perplesso. Non ci sono strafalcioni, tutto (o quasi) è scientificamente attendibile, ma c'è molta dispersione. L'impressione è che la mostra si svolga su temi giustapposti, Machiavelli, i capitani di ventura, l'Umbria del Cinquecento, aggregando oggetti ed immagini disparate senza avere un centro. A me ha fatto venire in mente le rubriche di curiosità dei settimanali enigmistici, “Spigolature” o “Di tutto un po'”.

In verità un allestimento così si giustifica solo se c'è il pezzo forte, l'oggetto che calamita l'attenzione, cui tutto il resto fa da contorno. E così forse la mostra era stata pensata. L'oggetto in questione era il piccolo ritratto di Machiavelli che Alessandro Campi ha fatto rientrare in Italia dalla Florida comprandolo tramite e-bay. La scoperta veniva qualificata come importante non solo perché non ci sono molte immagini di Machiavelli in giro, ma perché a questo ritratto – già esposto in ottobre al Vittoriano di Roma – si attribuiva una speciale antichità. Se non che uno storico di valore, esperto dell'epoca e di cose artistiche, figlio di un grande “machiavellista”, Massimo Firpo fu Luigi, sul “Sole 24 Ore”, con solide argomentazioni, ha lasciato intendere che si tratta di una copia secentesca (di un ritratto in ogni caso postumo). Campi se l'è presa a male. Ha scritto che Firpo è un rappresentante delle conventicole di sinistra che trattano da buzzurro e puzzone lui, intellettuale di destra, se l'è presa con la stampa e l'intellettualità perugina che non ha difeso la mostra ed ha concluso che è tutta invidia. Non ho strumenti e competenze per valutare il quadretto (ma Campi sembra non escludere l'ipotesi di una copia, scrive: “e anche se lo fosse? Resterebbe una delle sei sole immagini di Machiavelli”), ma ritengo comprensibile la rabbia. Ridimensionato il valore dell'oggetto che avrebbe dovuto rappresentarne il centro la mostra si è sfrangiata. Il diabolico Machiavelli ha colpito ancora.

micropolis, dicembre 2014

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