1.1.15

“Non era un dilettante”. Cesare Cases ricorda Italo Calvino.

Italo Calvino trent'anni dopo, una ricorrenza che potrebbe (dovrebbe) servire a disseppellire lo scrittore, ad assicurargli nel Novecento il posto che merita, a verificarne l'attualità, secondo me straordinaria. 
Io comincio con il postare un necrologio di particolare vigore e rigore etico, quello di Cesare Cases. Una piccola notazione da professore in pensione: l'antica argomentazione in pro dell'indifferenza verso la morte (“quando c'è lei non ci siamo noi”) è più epicurea che stoica e, nella letteratura latina, fu potentemente sviluppata e detta da Lucrezio ben prima che da Seneca. Per la precisione. (S.L.L.)

Non si può parlare di un amico appena morto come per fare una voce di enciclopedia, né d'altra parte si può abbracciare qualsiasi cosa con la scusante della commozione. Meglio, per la commozione, è di star zitta. Si può invece provare a rispondere alla sola domanda che ci si è già posti tante volte in vita: che cosa amavi o ammiravi o invidiavi di più in lui? Per Calvino non avrei dubbi: il fatto che non era mai un dilettante. Anche prima che gli intellettuali fossero presi nella bufera infernale che li spinge a fare di tutto e da cui Calvino si difendeva abbastanza bene, ma che non sarà forse estranea, in ultima istanza, alla sua morte inattesa e precoce, egli aveva molte corde al suo arco e nessuna mandava un suono improvvisato. La sua straordinaria capacità di lavoro gli faceva trovare e assimilare subito gli strumenti di cui aveva bisogno. In questo c'entrava indubbiamente l'eredità dei genitori, entrambi scienziati. Portava un certo abito mentale scientifico in campi in cui esso non è di casa e in cui siamo tutti più o meno dilettanti.
Non era un dilettante, ovviamente, come scrittore, anzi l'estrema perizia tecnica fu usata talvolta contro di lui come capo d'accusa. Di Se una notte d'inverno un viaggiatore si disse contemporaneamente che era stato scritto per uso di Maria Corti e come bestseller sofisticato. Ma egli stesso, in un famoso saggio, aveva distinto gli scrittori "loici" dai "viscerali" ed egli era certamente un "loico" (per Celine, il più viscerale di tutti, non ebbe mai la minima simpatia anche quando era diventata d'obbligo). L'essere loico lo avvicinò talvolta alla letteratura come gioco, che a molti non piace, ma gli permise di uscire dal realismo dei suoi primi libri, che restano forse i suoi capolavori, quando fu passata l'ora storica che l'aveva reso possibile. L'ultimo scritto di questo tipo, La giornata di uno scrutatore, aveva poco mordente. L'esperienza non serviva più, i registi cominciavano a coprire la natura di vernice. Calvino, che nella trilogia aveva già usato l'irreale per fare del realismo, si servì sempre più della parola per rendere attraverso di essa l'esperienza della distruzione dell'esperienza. Linguisticamente raggiunse la perfezione. Piacesse sia a Maria Corti che al lettore comune, non meraviglia.
Non era un dilettante nel lavoro editoriale, che per anni fu la sua occupazione principale, cui accudiva con impegno e puntualità e con cui non perse mai il contatto. Conosceva tutti gli aspetti del mestiere, ma era soprattutto un lettore incomparabile di libri stranieri e di dattiloscritti italiani, su cui, quando poteva, riferiva personalmente nelle riunioni editoriali einaudiane. Cominciava, come Hegel secondo i ricordi di Hotho, a fatica, con molta lentezza, con balbettamenti e borborismi, muovendo un po' le braccia come per aiutarsi; poi prendeva l'aire, si ricomponeva, parlava in tono assorto per lo più col pugno sotto il mento, guardando davanti a sé quando diceva le cose meno importanti e abbassando la testa e atteggiando la bocca in espressione grave o beffarda quando arrivava al dunque e il libro veniva ora lodato, ora dannato, ora ammesso con la voce e negato con le labbra, dopo di che la testa si risollevava e il tutto si suggellava con un assenso definitivo o con una risata strozzata che esplodeva in quella degli ascoltatori. Era uno spettacolo eccezionale, ma non era uno show, era anche questa una tecnica seria in cui gli alti e i bassi, le pause, soprassalti, l'uso della sordina e degli ottoni trasmettevano le fasi e i ripensamenti di un processo di lettura tanto impegnativo quanto fruttuoso.
Non era un dilettante come critico e come autore di interventi politici, finché valeva la pena di farne. Ci mise Una pietra sopra, ma sotto quella pietra ci sono molti saggi che occorre sempre rileggere. E non era un dilettante come studioso di fiabe e di folklore, emulo di Pitré e di Cosmo Guastella. In questo campo sapeva benissimo che, se avesse voluto, i titoli per una cattedra non gli mancavano. Quando temeva di non poter uscire dal dilettantismo, non esitava a far marcia indietro. Verso il I960, dopo un viaggio negli Stati Uniti e uno in Unione Sovietica — caso allora assai raro, non essendo ancora cominciata la grande ridda degli scrittori giramondo — scrisse un libro in cui metteva a confronto le due civiltà, insistendo (mi disse qualcuno che l'aveva letto e apprezzato) sull'importanza della geografia e rispettivamente della storia nella loro formazione. O che questa chiave gli sembrasse troppo frivola, o che qualche specialista gli avesse sconsigliato la pubblicazione, fatto sta che il libro — di cui mi pare che fosse già apparsa qualche anticipazione in un quotidiano — fu ritirato quando era già in bozze, e l'inesorabile Calvino fece distruggere i flani perché nessuno potesse ristamparlo. Quella volta ci mise davvero una pietra sopra. Non so se avesse ragione o torto, so che nessun altro l'avrebbe fatto. Poi andò, chissà, forse in Tanzania o in Indonesia: gli scrittori come i professori non si possono più seguire nei loro spostamenti. Ma ch'io sappia non tentò mai di persuaderci che aveva capito la Tanzania in due giorni.
Non era un dilettante, e quindi parlava e scriveva poco o nulla della morte, che non conosciamo per la semplice ragione che quando c'è lei, diceva Seneca, non ci siamo noi. Ma anche sulle malattie e sulle traversie, di cui si può parlare con competenza, taceva. Ciò che gli piaceva e che regalava ai suoi personaggi era l'avventura, l'imprevisto anche se modesto, come lo spuntare dell'erba nelle crepe dei casermoni delle città, per non parlare di quello che mobilitava tutte le risorse della sua fantasia. Invece non sentiva il pathos della sofferenza quotidiana. Uno dei suoi capi d'accusa era l'autocommiserazione. "A me — diceva — non piacciono quelli che si lamentano". Solo una volta mi parlò di quel suo lunghissimo intestino che per anni gli diede seri disturbi. Ma non si può dire che se ne lamentasse. Accennava con le mani all'atto di sgomitolare per mostrare quanto fosse complicato e interminabile, con un certo rassegnato disgusto come se si fosse trattato di un pessimo romanzo, altrettanto complicato e interminabile, con cui doveva fare i conti. Si capisce che non rientrasse nella categoria degli scrittori "viscerali". È di lì, per quei visceri insidiosi e rinnegati, che la morte avrebbe dovuto passare per colpirlo, tra molti anni, forse anzi senza riuscirci mai perché si sarebbe persa nel labirinto. Invece l'ha colpito nell'organo dei "loici", in uno dei migliori cervelli della nostra generazione, mentre era dedito a quell'operazione che compiva e faceva compiere così bene: la lettura. La malizia della morte è infinita e di fronte ad essa, purtroppo, siamo tutti dilettanti.

“L'Indice”, settembre-ottobre 1985

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