14.1.15

Ottocento. Simonidis il greco, falsario e patriota (Silvia Ronchey). Con codici e papiri beffò i più autorevoli esperti europei dell’800.

Luciano Canfora, curatore delle opere di Costantino Simonidis
Uno dei meriti della querelle sul cosiddetto papiro di Artemidoro è aver fatto conoscere al grande pubblico un personaggio che definire romanzesco è dir poco. Né un Dumas né un Gide né un Ambler avrebbero potuto concepire la sua vita rocambolesca con la genialità, la spregiudicatezza e la fantasia con cui la inventò, e la visse, il suo protagonista. Ma, si sa, la realtà ha sempre più immaginazione della letteratura, ed è anche per questo che il primo volume delle opere greche di Costantino Simonidis, ora pubblicato dalle Edizioni di Pagina (pp. 422, € 22) con un ampio saggio introduttivo di Luciano Canfora e una profusione di documenti di tale fantasmagorica bizzarria da sembrare usciti dalla penna di un Rabelais se non di un Borges, è molto più appassionante di qualsiasi romanzo.
Se fare della propria vita un’opera d’arte è già di per sé un fine per alcuni, ciò non impedisce di creare, nel suo corso, altri capolavori. Tali furono gli abilissimi falsi di Simonidis. Il cosiddetto Artemidoro non è certo il suo migliore, essendo anzi uno scarto, o meglio due, accantonati entrambi dall’autore e solo in seguito assemblati e riproposti, a più di un secolo dalla sua scomparsa, nella speranza che la memoria di «quel greco che si circondava di molto mistero», e che appariva e scompariva negli scenari accademici più paludati dell’Ottocento, fosse dileguata dalla sempre più corta memoria dei moderni.
Ben prima degli attuali autorevoli esperti, degli ignari acquirenti e del grande pubblico anzitutto torinese affluito alla mostra di Palazzo Bricherasio nel 2006 per l’ostensione del manufatto, altri e più genuini - ci si conceda l’ossimoro - falsi avevano beffato in passato i giganti della filologia. Uno per tutti, il competentissimo Wilhelm Dindorf, che con troppa sicurezza di sé avallò le fantastiche liste di re egizi del falso manoscritto di Uranios, aiutando Simonidis a piazzarlo all’Accademia delle Scienze di Berlino, e troppo precipitosamente ne allestì l’edizione critica addirittura per i tipi oxfordiani, con dotta prefazione e note latine, prima che l’inganno fosse svelato e l’ingannatore arrestato dal più celebre cacciatore di sovversivi della polizia di Berlino. Ma dopo pochi giorni il prigioniero si rifugiò in Baviera.
Le vittime della sua inesorabile maestria si contano in tutto il mondo, ma fu proprio il mondo accademico inglese a annoverarne il maggior numero. Perché fu qui che con funambolesca manovra Simonidis decise di non fabbricare più pergamene o palinsesti, ma di lanciarsi sulla grande novità del momento: i papiri, su cui si concentravano i compulsivi appetiti degli studiosi, dopo le scoperte di quelli di Iperide. E fu qui che trovò i suoi più sagaci complici nonché il suo mecenate e protettore Joseph Mayer, assieme ai quali è immortalato nella più rivelatrice delle fotografie che lo ritraggono: in piedi, la sigaretta tra le dita, i favoriti a incorniciare i tratti regolari e i profondi, bellissimi occhi, la redingote dall’immancabile bavero di velluto, la cravatta scura bene annodata sul nitore della camicia.
La prima fase della sua carriera, quella orientale, maturata nei grandi serbatoi di manoscritti dei monasteri greci, in cui si era infiltrato, aveva prodotto invece codici, ed epitomi «bizantine». Un «castello di erudizione virtuale» creato fin da quando, lasciata l’isola di Simi (dove era nato intorno al 1820), si era mosso tra l’Athos, cui era approdato insieme con il misterioso «zio» Benediktos (chaperon, padre spirituale, forse amante), e il Sinai, Odessa e Costantinopoli. Qui aveva frequentato anche la famosa scuola teologica di Halki, oggi purtroppo sbarrata dallo Stato turco. Ad Atene si era perfezionato nella neonata Biblioteca Nazionale, simbolo del nuovo Stato greco, arricchita fra gli anni Trenta e Quaranta dell’Ottocento da un continuo e patriottico flusso di lasciti e donativi.
Se è vero che, come scrive Canfora, «per snidare un falsario bisogna entrare nella sua testa, familiarizzarsi con il suo ambiente, coi suoi meccanismi mentali», non è da sottovalutare il sottotesto patriottico delle gesta di Simonidis, che emerge carsicamente a volte nei suoi stessi testi: si pensi alle micidiali invettive antinglesi della prefazione ai (falsi) Kephalleniaka del (falso) Euliro; o alla denuncia delle «orge» del missionario King, che cavalcando i pubblici umori antiamericani divenne un vero e proprio affare di Stato.
È proprio nella Grecia insulare, lasciata relativamente autonoma dall’impero ottomano, che era nato il risorgimento greco: nella Patmiás, l’altra grande scuola teologica del mondo ortodosso durante la turcocrazia, si era formato Emmanuil Xanthos, che sull’isola di Patmos era nato ed era stato tra i fondatori della Filikì Etería proprio a Odessa. In questo centro nodale del patriottismo greco, e panortodosso covo di spie, Simonidis aveva trovato il suo grande sponsor nel potente e ambiguo Alexander Stourtzas, consigliere e segretario generale (mystikos) dello zar Nicola, che lo impiegherà per missioni di intelligence e favorirà il suo addottoramento all’Università di Mosca con una dissertazione sul Chersoneso Cario, area geopolitica all’epoca scottante.
La natura fortemente politica dell’«eversione filologica» di Simonidis, il fervore patriottico greco e l’odio per le grandi potenze continentali, l’afflato neobizantino, insito peraltro fin da principio nell’Eterìa, sono còlti dai suoi avversari e smascheratori, non a caso studiosi prestati alla politica, o allo spionaggio: per esempio il grande Mordtmann, in quella stessa Costantinopoli in cui l’unico protettore di Simonidis resterà Romualdo Tecco, ambasciatore del Regno di Sardegna e fedelissimo di Cavour. Non è forse un caso se l’unico giornale che in quegli anni parla bene del falsario è proprio “Il Risorgimento”: il quotidiano fondato da Cavour.


La Stampa, 30 agosto 2012

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