14.1.15

Raffaello. Il giallo dello Spasimo (Tano Gullo)

Museo del Prado, Madrid. L'Andata al Calvario, detto
anche lo Spasimo di Palermo attribuito a Raffaello Sanzio
Il professor Thomas Brandt aveva appena terminato la lettura di un articolo pubblicato vent'anni prima dal "Frankfurter Allgemein Zeitung" su un curioso episodio verificatosi nell'aprile del 1787 a Caltanissetta, durante il viaggio di Goethe in Sicilia. Lo aveva messo da parte con il proposito di ritornarvi sopra e lo aveva ritrovato per caso mentre, a modo suo, cercava di mettere ordine tra le carte caoticamente sparse nello studio, ma, come succedeva ogni volta che si proponeva di organizzare secondo i criteri di funzionalità e praticità fogli, appunti, ritagli di giornale e riviste, l'operazione era destinata al fallimento e la confusione sugli scaffali e sulla scrivania cresceva. Sprofondato nella poltrona di pelle, le gambe accavallate, sommerso dai libri ammassati alla rinfusa, seguendo con lo sguardo l'ultima oscillante voluta del fumo del sigaro che andava illanguidendosi, il professore aveva un'espressione divertita: provava a ricostruire la scena al centro della quale il grande poeta tedesco era circondato dai notabili seduti in circolo nella piazza della città siciliana, intenti a chiedergli notizie su Federico II. Ne nacque un equivoco: per non deludere i suoi interlocutori, Goethe nascose la morte del re, avvenuta l'anno prima a Karlsbad, senza nemmeno essere sfiorato dal dubbio che non a Federico di Prussia si riferissero quelle persone in vista, ma all'imperatore Federico II di Svezia...
Incipit de L'impostura dell'Abate Staropoli di Sergio Mangiavillano (Prova d' Autore, 140 pagine, 10 euro). È un puzzle di imposture che si snoda sul triangolo Palermo-Madrid-Caltanissetta. Protagonista della narrazione un quadro realmente esistente, L'andata al Calvario, conosciuto anche come Lo spasimo di Sicilia, dipinto da Raffaello Sanzio nel 1516 e che da quasi cinque secoli si trascina dietro una scia di misteri. Comprimari una serie di personaggi, variamente rappresentanti le tipologie umane: munifici, rapaci, beffardi, vendicativi, sognatori, bigotti, laici.
Sergio Mangiavillano, preside nisseno in pensione, ai raggiri storici - che hanno come capofila lo sciasciano abate Vella de Il consiglio d'Egitto - ha preso gusto. Nel precedente romanzo La venerabile impostura narra la drammatica vicenda umana di monsignor Ignazio Zuccaro, palermitano vescovo di Caltanissetta estromesso dal ministero, che svolge con infinità umanità, "grazie" a un castello di accuse costruite ad hoc dalle alte gerarchie che mal tollerano le sue aperture liberali. Con il nuovo libro L'impostura dell' Abate Staropoli (edizioni Prova d' autore, 140 pagine, 10 euro) racconta le peripezie di un quadro che ancora oggi resta imprigionato in una ragnatela di supposizioni: sottratto a un convento con la prepotenza da un ambizioso viceré di Sicilia, regalato al re di Spagna, forse distrutto da un furente benedettino, copiato da più artisti, sospettato, infine, che sia stato trafugato e nascosto a Caltanissetta e che quello del Museo Prado di Madrid, dove attualmente è esposto, sia solo una pregevole copia. Su una vicenda storica di cui esiste ampia documentazione l'autore innesta una serie di sviluppi di fantasia che rendono intrigante.
La ricostruzione dei diversi periodi in cui si sviluppa la narrazione - Cinquecento e Seicento soprattutto - è pregevole e ci aiuta a capire di come l'attuale decadenza dell'Isola abbia le radici proprio in quei secoli spagnoli. Mangiavillano ricorre a un espediente che ricalca quello Stefano Pirandello in Timor sacro (Bompiani): un prologo in cui lo scrittore accredita uno studioso come l'autore che si accinge a scrivere il romanzo in questione. In questo caso si tratta di un professore tedesco che si appassiona al quadro di Raffaello e resta impelagato in una ricerca che lo appassiona e lo sfianca.
Ecco la parte vera della storia: per onorare una promessa della moglie Eulalia, il nobile palermitano Giacomo Basilicò costruisce il monastero dello Spasimo per i frati di Olivetiani dell'ordine di San Benedetto. Su suggerimento di Antonello Gaggini, che scolpisce l'altare della Chiesa annessa, commissiona a Raffaello il quadro che deve troneggiare al centro. Il dipinto ultimato (dalle dimensioni di un metro e ventotto per un metro e quindici) viene spedito dall'Urbinate a Palermo via mare. Ma una tempesta si mette di traverso ingoiando la nave, i marinai e il carico. Il quadro, fortunatamente sigillato dentro una cassa, scampa alla distruzione e viene recuperato al largo di Genova. Con l'alone di opera miracolosa viene trasferito nel monastero a cui è destinato. Sull'Andata al Calvario - in cui spicca una dolente Madonna che vede suo figlio franare sotto il peso della croce - si concentrano gli appetiti del viceré don Fernando d'Ayala, la cui arroganza gli impedisce di capire dove si trovasse e con chi avesse a che fare. Così impone all'abate del convento Clemente Staropoli di consegnargli il Raffaello, per regalarlo a re Filippo, al fine di ingraziarselo. Da qui comincia la finzione.
Mangiavillano, facendo leva sul sospetto, varie volte affiorato nei secoli, che al regnante spagnolo sia stato rifilato un falso, immagina che l'abate abbia nascosto grazie al nobile nisseno Moncada l'originale e consegnato al viceré un pregevole falso realizzato dal Polidoro, pittore in voga al tempo. Filippo, raffinato intenditore d'arte si rende conto che si trova davanti a una copia, per ragion di stato abbozza (che nessuno possa pensare che sua maestà possa essere stato raggirato), fa collocare il quadro in prestigiosa sede, poi con il tempo si vendica dell'Ayala non confermandolo nel vicereame. L'autore ipotizza anche che l'originale possa essere quello esposto al museo diocesano di Caltanissetta, come da anni sostiene lo studioso Giuseppe Sorge, ma recenti test scientifici smentiscono questa ipotesi, anche se resta forte il dubbio che al Prado ci sia un falso. Attualmente ci sono una mezza dozzina di copie dell'opera di Raffaello, la più pregevole, dipinta da Pietro Fandulli, è collocata nella chiesa madre di Castelvetrano. A Palermo un esemplare si trova esposto al Museo Abatellis.
Dopo aver "giocato" con le varie ipotesi, Mangiavillano ribalta le carte in tavola e rivela la distruzione del capolavoro ricorrendo alla metafora del martirio: «Con un cerimoniale, concepito con lucida follia, aveva staccato la tavola dalla cornice, l'aveva avvolta con un sacco, trascinata a ridosso dell'orto del monastero, e recitata una preghiera, vi aveva appiccato il fuoco in nome della sua autorità di Abate di Santo Spirito. Come l'Inquisizione, Clemente aveva condannato il dipinto a un orribile, preventivo auto da fé perché, una volta in possesso del d'Ayala, sarebbe diventato eretico. Il rogo si addiceva a quel capolavoro per non cadere in mani impure e assassine». E qui ci l'autore insinua quel filo di fanatismo che da sempre, e temiamo per sempre, scorre nei meandri nelle cripte delle chiese e nei sotterranei del potere.


la Repubblica, edizione siciliana, 8 gennaio 2012

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