25.2.15

Itaca. Il viaggio (Eva Cantarella)

Tra le letture recenti dell'Odissea e della figura di Odisseo una delle più convincenti mi pare quella che emerge da un libro di Eva Cantarella, Itaca, studiosa e prestigiosa docente di Diritto greco e romano, che si distingue per l'approccio interdisciplinare e per il rigore dell'analisi filologica, letteraria e storica dei testi utilizzati non disgiunto dal “genio dell'interpretazione”, dalla capacità cioè di leggere tra le righe ciò che altri non sono riusciti a vedere.
La “premessa” di Itaca, intitolata Il viaggio, espone con chiarezza ed efficacia la chiave interpretativa e può rappresentare utile sollecitazione verso il libro, che, a mio parere, dovrebbe essere letto da molti. (S.L.L.)
L'immagine è la "Venere di Urbino" di Tiziano, nella Galleria degli Uffizi

Nella poesia di Kavafis posta in epigrafe a questo libro, Itaca è una metafora. È la meta di un viaggio inteso come esperienza, il percorso lungo il quale il viaggiatore prende coscienza della con-dizione umana, e pur avendone esperimentato i costi decide di accettarne i limiti, affermando l'autonomia della sua coscienza e la sua libertà di determinarsi.
Ma in questo libro, tengo subito a precisarlo, Itaca non è una metafora. È un luogo reale, una piccola comunità greca che sta dandosi le strutture fondamentali di quella che verrà chiamata un'organizzazione politica. O meglio: è il prototipo di una delle tante comunità di questo tipo realmente esistite in terra greca in un momento che non può essere successivo all'VIII secolo a.C. (dirò poi le ragioni di questa collocazione nel tempo). Una città con i suoi abitanti, le sue case, il suo porto, le sue navi, con il suo re - traduco così, per ora, il termine basileus -, con la sua piazza (agore), dove si riunisce l'assemblea del popolo. Il prototipo, insomma, di una comunità che si appresta a diventare una polis, l'organizzazione politica di cui Atene resterà il modello insuperato, o quantomeno più conosciuto, e di cui Itaca presenta già chiaramente in embrione gli elementi caratterizzanti.
In questo libro, insomma, l'Odissea non è vista come Bildungsroman. Come è giusto, quell'Odissea resta territorio di letterati e filosofi. E non è neppure vista, secondo un'altra interpretazione cara ai letterati, come ripetizione di episodi che raccontano sempre, senza fine, la stessa esperienza del protagonista.
Vero è, certamente, che le avventure di Ulisse non finiscono con il suo ritorno a Itaca. A dircelo è Ulisse stesso, nell'Odissea. Tornato finalmente alla sua isola, dopo aver ucciso i pretendenti della moglie e punito i servitori che lo avevano tradito (il capraio Melanzio, le dodici ancelle infedeli), Ulisse si appresta a godere con la moglie del "sonno soave", da lui più che meritato e dalla povera Penelope tanto lungamente atteso. Ma prima di concederselo, si sente in dovere di avvertire la moglie che a Itaca egli resterà solo per qualche tempo: nell'Ade, l'indovino Tiresia gli ha predetto che le sue prove non termineranno con il ritorno in patria (Od., 11, 119-137).
Penelope, a riprova delle sue virtù, si guarda bene dal recriminare: io sarò sempre qui ad attenderti, promette al marito, nel letto che sarà sempre pronto per te, ogni volta che "lo vorrai nel cuore". Ma una domanda, una sola, Penelope vuole farla: quale sarà la meta del prossimo viaggio? E Odisseo racconta la profezia: egli dovrà navigare sino a giungere presso genti che non conoscono il mare,/ non mangiano cibi conditi con sale,/ non sanno le navi dalle guance di minio,/ né i maneggevoli remi, che son ali alle navi. (Od., 23, 269-272)
Un'altra Odissea lo attende, insomma: sui dettagli della quale, peraltro, vi sono non poche incertezze. Nella profezia di Tiresia, egli viaggerà, portando un remo sulla spalla, fino a quando un altro viandante gli dirà che regge sulla spalla un ventilabro: in altre parole, sino a che non giungerà presso gente che non conosce la navigazione. Solo allora, dopo aver piantato in terra il remo e aver sacrificato a Poseidone, Ulisse potrà finalmente tornare a casa, e restarvi sino a quando "morte dal mare" gli verrà, molto dolce, cogliendolo "vinto da serena vecchiezza" e circondato da "popoli beati" (Od., 23, 267-284, che riprende 11, 121-137).
Ma le fonti diverse da Omero, pur confermando la notizia, di questi viaggi danno versioni differenti. Oltre a informarci sull'itinerario, questi racconti parlano di incontri femminili, che attestano quel che - del resto - risulta già chiaro dall'Odissea: a differenza di quella proverbiale della moglie (sulla quale peraltro torneremo), la fedeltà di Ulisse è quantomeno discutibile.
Secondo l'Epitome di Apollodoro, infatti, attraversato l'Epiro, Ulisse sarebbe giunto presso i Tesproti, sui quali avrebbe regnato dopo averne sposato la regina, Callidice, che gli avrebbe dato un figlio di nome Polipete. E secondo Pausania solo alla morte di Callidice egli sarebbe tornato a Itaca, ove nel frattempo Penelope gli aveva dato un secondo figlio, di nome Poliporte. Ma i suoi ultimi giorni a Itaca non sarebbero stato felici come gli aveva predetto Tiresia. Ulisse infatti sarebbe stato ucciso nel corso di una rissa da Telegono, il figlio avuto da Circe, che - sbarcato sull'isola alla ricerca del padre - sarebbe stato da questi scambiato per un ladro. Infine, dopo l'uccisione del padre, Telegono avrebbe sposato Penelope.
Le notizie insomma sono molte e contraddittorie; la morte per mano di Telegono, infatti, non si concilia con il verso omerico sopra citato, che parla di "morte dal mare". Ma l'espressione greca ivi tradotta è ex alos, che può anche significare "lontano dal mare": donde un tentativo - in verità non poco forzato - di conciliare le opposte versioni: Ulisse muore per il veleno di una razza, usata come punta della sua lancia da Telegono, il figlio "nato lontano".
Su tutto questo torneremo: come che sia, il viaggio verso Itaca non è l'ultimo viaggio di Ulisse. E, di nuovo, le interpretazioni delle ragioni che lo inducono a riprendere le vie del mare sono molte.
Secondo quella forse più scontata, il viaggio, inteso come meta da raggiungere e prove da superare, è il senso stesso della vita di Ulisse. Così lo intende, accanto a molti filologi di professione, anche Giovanni Pascoli: dieci anni sono passati dal momento del ritorno in patria (dieci è ovviamente numero topico nella storia di Ulisse: dieci anni sotto le mura di Troia, dieci in mare, sulla via del ritorno, dieci a Itaca, prima di reimbarcarsi).
Ulisse, vecchio e canuto, non trova più ragioni per vivere. Gli anni trascorsi a Itaca, senza motivazioni e senza obiettivi, hanno trasformato la sua vita in un'anticamera della morte. Sinché, un giorno, quasi ridestandosi da un lungo sonno - mentre Penelope dorme, senza svegliarla - Ulisse si reca sulla riva del mare, dove da dieci anni, appunto, lo attendono i compagni, e riprende il suo viaggio a ritroso, quasi alla ricerca di un passato nel quale ha vissuto momenti che forse rimpiange, in cui ha compiuto scelte di cui forse non comprende più il senso, di cui non sa più valutare a fondo le ragioni.
Eccolo dunque dirigere la prua verso l'isola di Circe, verso la terra dei Lotofagi, verso la dimora delle Sirene: quelle Sirene di cui, un tempo, non aveva voluto ascoltare il canto, ma che ora interroga, per sapere che senso ha la sua vita mortale. Ma le Sirene, quasi a punirlo per non averle ascoltate quando volevano rivelargli le verità che esse sole conoscevano, restano chiuse in un ostinato mutismo: come, in una bella pagina di Kafka, avrebbero peraltro già fatto nel corso del primo incontro. E Ulisse continua il suo viaggio, giungendo finalmente da Calipso, la ninfa che gli aveva offerto l'immortalità, e muore tra le braccia di lei, avvolto nei suoi capelli. Forse, chissà, rimpiangendo di aver scelto la sorte dei mortali.
Ma tante altre, e diverse, possono essere le interpretazioni dei viaggi di Ulisse, di quei viaggi che quando sembrano giunti al termine ricominciano, senza fine: in genere perché un dio è stato offeso, ma a volte anche senza una ragione (come, appunto, nel caso dell'ultimo viaggio).
Sotto questo profilo, è difficile allontanare l'immagine di un'Odissea serial, racconto a puntate antesignano dei Dallas televisivi, a loro volta caratterizzati, oltre che dalla ripetitività della trama, dalla tipizzazione dei personaggi, televisivamente ottenuta dall'abbigliamento, dal sorriso, dalla pettinatura o altri elementi che immediatamente segnalano il tipo sociale e psicologico, il loro carattere, il loro ruolo.
Pensiamo alla forma più elementare della tipizzazione omerica, i famosi "epiteti", che costantemente accompagnano il riferimento ai diversi personaggi, fino a diventare quasi parte del loro nome: Achille "piè veloce", Odisseo "dalle molte astuzie", Penelope "saggia". Era "dalle bianche braccia", e via dicendo: la tipizzazione dei personaggi televisivi attraverso gli elementi visivi, come è stato osservato, appare in qualche modo l'equivalente degli epiteti omerici.
Senonché, mentre l'interpretazione letterario-filosofica di questo "serial" (se così lo si vuole leggere) pone l'accento sulla ripetitività senza fine delle esperienze del protagonista, la nostra indagine privilegia un'ottica diversa. Della nostra storia, Ulisse è il deuteragonista: la protagonista è Itaca, la meta del viaggio.
Itaca con i suoi abitanti, le sue istituzioni, la sua storia. E la storia di Itaca non è ripetizione di eventi: è la vita in divenire di una comunità dove uomini e donne si confrontano e si affrontano, dando vita a un tessuto di relazioni sociali governate, fondamentalmente, dai meccanismi tipici di una "cultura di vergogna": di una cultura, come vedremo meglio più avanti, in cui il rispetto delle regole è assicurato dal timore di perdere l'immagine (o, come si dice oggi, la faccia).
Ma nel momento in cui il re finalmente ritorna, dopo un periodo di rottura delle convenzioni dovuto alla sua assenza e alla tracotanza dei pretendenti di sua moglie, qualcosa di molto importante accade, nell'isola. Il ritorno di Ulisse non segna solo il ristabilimento dell'ordine precostituito. Esso preannunzia la nascita di un ordine nuovo. Una volta eliminate le turbative, Itaca si riorganizza in un sistema nel quale è possibile cogliere le tracce delle prime regole giuridiche del mondo occidentale.
Itaca e la nascita del diritto, insomma: questa è la storia che vogliamo raccontare. Una storia che, intrecciandosi ovviamente con quella di Ulisse e del suo ritorno in patria, sarà composta di tre parti.
La prima parte sarà dedicata a Itaca in assenza di Ulisse: una comunità in cui vige la legge del più forte, nella fattispecie la hybris, la tracotanza senza misura dei pretendenti di Penelope; una città in cui il tempo sembra sospeso in attesa del ripristino di un ordine senza il quale non è neppur pensabile una vita civile.
La seconda parte sarà dedicata alle avventure di Ulisse lungo la via del ritorno, o quantomeno ad alcune di esse; al significato che queste hanno ai fini della comprensione dei valori eroici e del discrimine tra la civiltà, che Ulisse rappresenta, e la barbarie, nella quale si imbatte e sulla quale ha il sopravvento. Ma non è solo la barbarie il pericolo che Ulisse deve scongiurare. Non meno pericolosa, anche per i valori civici, è la seduzione, rappresentata nell'Odissea - certamente non a caso - da figure femminili più o meno mitiche.
Le avventure di Ulisse con questi personaggi femminili insegnano tra l'altro che esiste una divisione netta e invalicabile tra due categorie di donne, che hanno ruoli e, più avanti nel tempo, uno status giuridico diverso. Una distinzione presente, nella mentalità greca, ben prima del momento in cui la polis la codificherà nelle sue leggi: da un lato le donne oneste (le mogli e le donne destinate a diventare mogli: le figlie e le sorelle del capo della casa); dall'altro le seduttrici, donne libere, autonome al punto da vivere sole, belle e invitanti, ma mortalmente pericolose.
Infine, esaminate sia singolarmente, sia nel loro complesso, le avventure di Ulisse sulla via del ritorno si rivelano, in più di un'occasione, come le gesta di un soggetto - contrariamente a quanto spesso si afferma - già "intero" e compatto, capace di autodeterminarsi e di agire non solo indipendentemente, ma a volte addirittura contro la volontà degli dèi.
La terza parte, quella conclusiva, sarà dedicata a Itaca dopo il ritorno di Ulisse. Essa sarà la storia della sua riconquista del potere familiare e politico. Due poteri diversi, che Ulisse riafferma all'interno di due logiche diverse.
Il potere domestico - potere di un capo assoluto, su dipendenti che potremmo definire sudditi - viene riaffermato infliggendo castighi, a volte feroci, ma che tengono conto tuttavia di concetti etici come volontarietà o involontarietà dell'azione, presenza o assenza della colpevolezza e responsabilità dell'agente.
La riconquista del potere politico, invece, si svolge nella logica inesorabile della vendetta, retribuzione pura che non può tener conto di stati soggettivi, di gradazioni della volontarietà e di misurazioni della colpa. Ma anche all'interno di questa logica - non nel caso dei proci, ma nel corso di altre vendette - è possibile cogliere l'emergere di nuove regole, che segnalano la trasformazione della forza fisica da strumento di riaffermazione dell'onore individuale e familiare in strumento per il mantenimento di un ordine comunitario, garantito da alcune norme di comportamento che la comunità considera imprescindibili. E sempre all'interno di questa logica, è anche possibile individuare i metodi predisposti dalla nascente polis per imporre l'osservanza di queste norme. In altre parole, come abbiamo già detto, è possibile cogliere un momento fondamentale nella storia dell'Occidente: quello nel quale, in Grecia, nacquero le prime regole che oggi definiamo giuridiche.


Da Itaca. Eroi donne e potere tra vendetta e diritto, Feltrinelli, 2013 (prima ed. 2002) 

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