1.2.15

L'Italia nello specchio del teleschermo (Massimiliano Panarari)

L'ampio stralcio che propongo da un articolo del “manifesto” di qualche anno fa è una riflessione sulla televisione italiana e sull'Italia della televisione originata dalla lettura di tre libri che erano appena usciti. Credo che le chiavi di lettura suggerite siano molto produttive.  (S.L.L.)
Le "ragazze fast food" della trasmissione televisiva "Drive in"
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Tre libri da poco pubblicati rivendicano con forza l’idea che la televisione rappresenti un osservatorio idealtipico per constatare le mutazioni del nostro corpo sociale e, soprattutto, uno strumento capace come pochi altri di modificare (come è effettivamente avvenuto…) la testa degli italiani.
Altro che elettrodomestico: se la paleotv ha accompagnato la Prima Repubblica dei partiti di massa (e dell’egemonia democristiana), con la sua cifra di deferenza nei confronti della classe politica, la neotv ha poi, quasi irresistibilmente, aperto le porte alla postdemocrazia. Ecco perché guardare, anzi tenere attentamente d’occhio, il piccolo schermo ha una valenza eminentemente politica, e i testi qui discussi, seppur non così immediatamente riconducibili a tale tema, confermano come il peso di certi pregiudizi abbia impedito alla sinistra di comprendere fino in fondo la rivoluzione che si stava annunciando nei decenni destinati a trasfigurare il paese. La televisione andava, dunque, pensata e usata dalla cultura progressista nel modo migliore (e qualche esempio si è anche prodotto), e non demonizzata o abbracciata sic et simpliciter.
La mutazione individualista (Laterza) è il titolo del volume di Giovanni Gozzini, professore di Storia contemporanea all’Università di Siena, il quale – ed è questo, a nostro giudizio, il pregio principale del libro – evidenzia come, lungo i Settanta (aumentando di intensità col procedere degli anni), si produca all’interno della televisione una sorta di scissione interna, che vede la fase post-Bernabei abbandonare il connotato pedagogico per convertirsi pienamente in «industria del divertimento» e dell’intrattenimento. Una lacerazione che vede, da un lato, un orientamento di difesa del sistema della famiglia tradizionale, in ossequio alla visione delle gerarchie cattoliche, tradotto mediante l’esaltazione della «virtù dell’obbedienza» al paradigma patriarcale, del risparmio domestico, della casalinghitudine delle donne e dall’altro lato, la pubblicità che, in sintonia con il cambiamento dei tempi (di cui, per la sua parte, è anche motore), promuove un modello di famiglia nucleare, con una donna che, sebbene ancora «in casa», si apre all’esterno, innanzitutto quale soggetto di consumo.

Sotto le macerie della neotv
E così la tv si fa, come sempre è accaduto, specchio delle metamorfosi della società. Il lavoro di Gozzini è di notevole accuratezza storiografica e segue l’evoluzione/involuzione di questi decenni, anche mediante una disamina informata delle trasmissioni tv – dalle soap operas Dallas e Dinasty ai vari talk show, dall’imprescindibile (per le analisi che stiamo conducendo) televisione di Antonio Ricci sino al Grande Fratello e ai reality – che hanno costellato i vari inverni del nostro (maggiore o minore) scontento televisivo.
A rimanere sotto le macerie di questa neotelevisione edonistico-disimpegnata sempre più ingombrante e «totalitaria» sono state tante categorie che avevano occupato la scena pubblica dei decenni precedenti (e di cui torniamo ad avere un gran bisogno). Come la politica, che smette di rappresentare un «progetto condiviso di futuro» per venire convertita – secondo la logica horse race della comunicazione politica postmoderna, strettamente imparentata con quella mediale – in un circo Barnum, un teatrino e, soprattutto, un’arena gladiatoria; o, come sostiene Stefano Balassone, si tramuta in una situazione di spoliticizzazione spettacolare, con il prevalere dello schieramento sulla discussione, della semplificazione sulla complessità e dell’esperienza vissuta «direttamente» dal profano-uomo qualunque sul competente e lo specialista. Come la storia, cancellata con un tratto di penna, al pari della memoria, in nome di un eterno presentismo. E, ancora, come la fatica e l’impegno lavorativi, rimpiazzati dall’anelito desiderante e vitalistico a «esserci» (sul palcoscenico sfavillante di qualche televisione) e a conseguire affermazione e successo, naturalmente a prescindere dalla tipologia e qualità della «performance», in quella che rappresenta, alla fin fine, una versione soft del darwinismo sociale.
Un libro apocalittico quello di Gozzini, dunque? No, realista piuttosto, nel descrivere efficacemente le modalità di instaurazione dell’egemonia sottoculturale, via neotelevisione commerciale, nell’Italietta, apparentemente allegra ed esuberante e, in verità, sempre più tristanzuola e preda delle passioni fredde di cui ci ha magistralmente resi edotti il filosofo e psicanalista Miguel Benasayag.
Lo sguardo maschile come motore della televisione è al centro di Occhi di maschio (Donzelli, con una prefazione di Franco Cardini) di Daniela Brancati, che è stata la prima direttrice donna di un telegiornale nazionale in Italia – avendo creato nel 1991 quello di Videomusic, e guidato, nel ’94, il Tg3. Brancati, che conosce quindi molto bene dall’interno i meccanismi del piccolo schermo, delinea in questo libro una sorta di “controstoria” della tv, a partire dal 1954, dal punto di vista degli «sconfitti», tra i quali, naturalmente, come scrive, «le persone di buon gusto e di buon senso».

Ragazze «fast food»
L’attenzione per i soggetti «vinti» (sfruttati o manipolati) dei processi comunicativi non costituisce, infatti, una novità nel lavoro dell’autrice, che ha sviluppato una spiccata sensibilità per minori e donne. Il punto di partenza dell’analisi risulta sostanzialmente comune con quello illustrato nei volumi di Gozzini e, vedremo, di Vanni Codeluppi: il passaggio da un disegno educativo (per quanto discutibile sotto certi aspetti) della televisione monocolore e monocromatica del monopolio pubblico a quella coloratissima dell’oligopolio privato, apparentemente priva di progetto, ma piena di ricchi premi e cotillon e di «pacchi», dominata da uno sguardo implacabilmente maschile (e ginecologico). Una logica tipica della neotv che ha finito per tracimare e trapassare anche nella Rai, seppur in misura più contenuta di quanto avviene nelle emittenti «rivali» private, anche e soprattutto a causa del conflitto di interessi che ha gravato sull’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, principale tycoon privato che, in quanto capo del governo, si è trovato a piazzare uomini di propria fiducia e stretta osservanza nelle stanze dei bottoni del servizio pubblico.
La copertina del volume effigia con precisione chirurgica (anche nel senso di quella plastica ed estetica) uno dei punti di cesura, e di non ritorno, di questa storia parallela – ma primaria, sfortunatamente, per l’immaginario di tanti nostri connazionali – ovvero la figura della donna attraverso il Drive In di Italia 1, in pieni anni Ottanta. Le cosiddette «ragazze fast food» (alla cui «qualifica» risulta facilmente, e volutamente, associabile l’idea del consumismo sessuale) che faranno scuola e apriranno la strada per una marea di programmi tv a venire, impegnati in una gara a scoprire quanto maggiormente possibile i corpi delle loro soubrette, delle vallette o (nuovamente, copyright di Ricci), delle «veline» e affini. Un libro utilmente completato, a livello documentario, da un dizionario delle ottocento donne che hanno fatto passato e presente della televisione e da una interessante cronologia «a tesi» ed euristica che elenca, in maniera incrociata, fatti ed eventi della storia nazionale, dell’evoluzione del tubo catodico e delle conquiste femminili in campo sociale e politico.
Stanno uccidendo la tv (Bollati Boringhieri), il bel libro di Vanni Codeluppi (professore di Sociologia dei consumi e Comunicazione pubblicitaria all’Università di Modena e Reggio Emilia), è infine un duro j’accuse nei confronti dello stato di prostrazione in cui il ceto politico ha ridotto la ex tv di Stato, che prende le mosse dalle scomposizioni e ricomposizioni di quel prisma che è diventato la televisione, e dalla sua influenza sociale, e ha il merito di provare anche a delineare gli scenari futuri e il mondo, diciamo così, posttelevisivo.

Quindici minuti di celebrità
Il tubo catodico, dopo le stagioni, già ricordate, della paleotv e della neotv, sta vivendo l’epoca della transtelevisione, la tv dei reality caratteristica delle società ipermoderne, che si avvale del crossing tra media differenti e, senza soluzione di continuità, passa dalla riproposizione-rappresentazione della realtà alla sua produzione (che diviene iperrealtà), mettendo in scena, ancora una volta, quel processo di «vetrinizzazione sociale» che Codeluppi ha configurato e raccontato per primo in Italia. Questo modello tv dell’illusione del quarto d’ora di celebrità, perfetta realizzazione delle intuizioni warholiane (e, ci sembra, pure degli incubi cronenberghiani di Videodrome), imbonisce e distrae, dispensa illusioni ed erode il (tutt’altro che scontato) senso critico, e alimenta una tendenza alla passivizzazione di cui si nutre, da tempo, la politica, rivelandosi in tal modo un altro volto di uno dei veleni del Novecento e di questo nuovo secolo, il populismo.
Ecco perché l’autore addita quale primo killer della televisione non le innovazioni tecnologiche, bensì la politica stessa, autentica responsabile o, quanto meno, corresponsabile, della degenerazione e dell’impoverimento-imbarbarimento dell’offerta del piccolo schermo, che ha allontanato schiere sempre più nutrite di potenziali utenti e moltissimi appartenenti alle generazioni più giovani. È la «televisione degli ignoranti»; e «d’altronde», scrive Codeluppi, «la volontà di mantenere la popolazione nell’ignoranza rappresenta proprio il cuore del progetto populista appartenente a quella politica contemporanea dalla quale la televisione dipende» – ennesimo cortocircuito e paradosso della nostra età postmoderna (o ipermoderna), postdemocratica e postpolitica (dove a essere differita o addirittura superata, purtroppo, nella visione di molti, è l’idea della politica quale mezzo di emancipazione collettiva). Un paradosso (seppur non troppo) – e l’autore che è specialista di queste tematiche lo sottolinea, anche perché le strategie di marketing mass-market oriented, alla ricerca della massimizzazione del pubblico, ne hanno costruito uno composto di monadi tutte uguali, producendo l’effetto collaterale (ma esiziale per loro stesse) di spostare gli investimenti pubblicitari di qualità su altri media, verso i quali si è indirizzato il target dei cosiddetti «fruitori intelligenti». Chi è causa del suo mal, pianga se stesso…
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il manifesto, 26 novembre 2011

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