4.2.15

Messaggi. Le "cartoline dei morti" di Franco Arminio

Nel 2011 Franco Arminio pubblicò per Nottetempo un libretto intitolato Cartoline dai morti, costituito da poco più di un centinaio di brevi messaggi che si immaginano venire ciascuno da un morto. Ne fornisco qui un assaggio. A mo' di appendice “posto” un breve dialogo con l'autore di Camilla Panichi, ripreso dal sito “404 not found” - www.quattrocentoquattro.com . (S.L.L.)
Franco Arminio
«Avevo appena finito di vedere la televisione. Mi sentivo debole. Mi sono disteso sul divano e ho sentito come una mano gigantesca che mi premeva il cuore. Ho pensato che stavo morendo e non avevo comprato il loculo. Sicuramente mi avrebbero messo sotto terra. E questo era l’ultimo fallimento della mia vita.»

«Nessuno mi aveva spiegato niente. Ho dovuto fare tutto da solo: rimanere fermo e muto, raffreddarmi, iniziare a decompormi.»

«Io sono morto quando ancora si moriva veramente. Mi ricordo il momento che è arrivato il prete e che dovevano chiudere la bara. Mia madre e mia sorella gridavano così forte che pure il prete si è commosso.»

«Adesso ho una curiosità un po’ scema. Vorrei sapere se poi mio cugino Maurizio è riuscito a vendere la sua Golf di seconda mano per la quale voleva sei milioni.»

«Pure io, sì pure io.»



"...il mondo muore quando si smette di morire" 
Dialogo con Franco Arminio 
di Camilla Panichi 

Il Dialogo con i morti è un topos dalla letteratura che nei secoli ha conosciuto varie forme di espressione. Nelle Cartoline dai morti, la frase sintetica e la parola asciutta, sembrano coincidere con la scoperta di un tono aforistico e talvolta oserei dire lapidario. Questo dettato breve si rifà a un particolare genere come l’epitaffio (penso all’Antologia di Spoon River), l’epigramma o muove da premesse diverse?
- Più che delle cartoline mi pare di aver scritto delle lapidi. La mia scrittura è essenzialmente aforistica e poetica, la brevità è la mia cifra. In questo caso dando la parola ai morti la brevità è unita alla reticenza, all’essenzialità.

La morte da lei descritta non è mai epica: si muore parlando di una ringhiera, si muore mentre alla tv danno un programma di cucina. In questo tono basso, talvolta ironico, understated, vi è un tentativo di riportare il tema della morte a una dimensione più quotidiana o crede che tale tema, oggi, non possa essere narrato diversamente?
- Semplicemente mi è parso che questa fosse la lingua giusta per i morti, una lingua intonata alla loro condizione. I morti perdono assai presto la lingua e tutto il resto della carne. Non aveva senso una lingua fastosa o aulica.

Un aspetto che mi ha colpito molto delle Cartoline è che in ogni frammento, attraverso piccoli particolari, è dato l’intero percorso di una vita. Ma si ha la sensazione che tutto ciò che rimane della vita sono solo pochi dettagli, insignificanti al cospetto degli altri, ma fondamentali per il soggetto che prende la parola. Crede che l’esperienza privata, circoscritta, possa in qualche modo avere il respiro delle esperienze vissute, universali?
- A me pare che ogni vita alla fine si risolva in poche cose, che si possono benissimo riassumere in una o due frasi. Mentre la viviamo ci sembra di fare chissà che, di fare chissà quali svolte, in realtà siamo come una mela lanciata verso il muro, qualcosa che si sfracella.

L’uomo delle Cartoline è quasi sempre anonimo; sembra voler parlare a nome di tutti. Ma quest’uomo è anche solo davanti alla morte. Si muore soli, ci dicono le voci, eppure l’ultimo frammento smentisce quest’ottica individuale perché, per quanto l’esperienza della morte sia del singolo, essa è un fenomeno che riguarda tutti. Crede che narrando la morte si possa dare una risposta a questa contraddizione?
- Credo che la morte vada narrata come vada narrata la vita. Escludere la morte dal circolo delle parole non la mette fuori dalla nostra testa, questo mi pare chiaro. E allora che l’ossessione diventi pubblica, condivisa e quindi anche più tollerabile.

In un frammento il soggetto dichiara di essere morto “quando ancora si moriva veramente”. Pensa che oggi la morte sia divenuto un fenomeno del tutto privato o pensa che possa avere ancora una funzione sociale?
- In un certo senso il mondo muore quando si smette di morire, questo penso, ma è una frase un po’ misteriosa, mi rendo conto.

La religione è un altro grande tema soggiacente alle Cartoline. Solo in pochi casi si esprime direttamente il disagio dell’uomo davanti al divino. Il dio dei suoi testi è un dio indifferente, che non salva. La fede sembra non essere più sufficiente.
- Io mi considero un fervente disoccupato, nel senso che ho un fervore religioso a cui non corrispondono chiese credibili. Sono come un amante non corrisposto. Qui comunque la faccenda diventa veramente complicata, la possibilità di dire sciocchezze è altissima e anche di dire frasi buone per tutti gli usi. Una cosa mi pare certa, almeno in occidente: Dio non salva ma neppure orienta al bene la vita delle persone.

Le ideologie e le filosofie moderne, come ci ricorda Walter Benjamin, sono volte al culto dell’edonismo e dell’eterno presente, e hanno eliminato il pensiero della morte dal mondo dei vivi, esorcizzando la morte e confinandola al territorio dell’esperienza individuale. Il suo libro ci dice che narrare la morte è possibile, ma solo attraverso i frammenti, mai per intero.
- Per me è stata una necessità, avevo bisogno di scrivere queste cose e le ho scritte. Ho avuto degli attacchi di panico e ho pensato che dopo questi attacchi potevo almeno ricavare delle righe di buona scrittura. La questione potrebbe essere anche tutta qui. Certo che la morte si può narrare solo per frammenti immaginativi. Se fosse possibile narrarla come si narra una gita non sarebbe la morte ma una gita. Delle ideologie e delle filosofie moderne non penso niente di buono, sono l’espressione di un’umanità sfinita, spiritualmente rinsecchita, priva di slanci. Un’umanità del genere non ha eliminato il pensiero della morte dal mondo dei vivi, altrimenti che senso avrebbe tutto questo consumo di psicofarmaci? Un’umanità del genere ha eliminato se stessa dal mondo dei vivi. Infatti la vita nel senso più nobile della parola appartiene ai cani, alle volpi, ai pesci, alle piante. Noi siamo dei morenti che pur di non morire facciamo morire tutto il resto. Ma l’impresa dell’eterno presente, come ogni impresa umana, è di per sé perdente. E dunque andiamo avanti, con la vita e con la morte, alla fine in un certo senso è tutta apparenza. Cerchiamo ancora, non possiamo fare altro.

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