10.3.15

Danimarca. Il popolo che disse no (Sergio Luzzatto)

Gilleleje. La fuga organizzata degli ebrei
L'8 settembre della Danimarca fu inaugurato da un telegramma. Era il telegramma inviato a Berlino da Werner Best, giovane ufficiale delle SS che Hitler aveva nominato da poco, in quell'estate 1943, plenipotenziario del Reich a Copenaghen. «Una coerente attuazione del nuovo corso in Danimarca comporta adesso, a mio parere, una risoluzione della questione ebraica nel paese»: così Best telegrafava a Berlino, e tutto lasciava intendere che la risoluzione della faccenda coincidesse anche lì con la “soluzione finale”. Invece no. La storia prese tutt'altra piega. Per gli ebrei locali - diversamente che in Italia - l'8 settembre '43 segnò l'inizio di una tragedia a lieto fine.
Ormai da tre anni e mezzo la Danimarca era stata occupata dai tedeschi sotto uno strano regime di compromesso, una specie di occupazione pacifica per cui il Reich non aveva dichiarato lo stato di guerra né si era assunto la responsabilità degli affari interni danesi. A differenza che in Norvegia, dove la monarchia e il governo costituzionale erano stati deposti con l'avvento del collaborazionista Quisling, in Danimarca il re Cristiano X era rimasto sul trono e le istituzioni democratiche avevano continuato a funzionare. I tedeschi avevano tenuto quasi soltanto a garantirsi, attraverso il controllo dello stretto di Oresund, la regolarità delle comunicazioni dal mar Baltico al mare del Nord, e inoltre un accesso diretto alla produzione agricola danese.
Ma nell'agosto 1943 il precario equilibrio dell'occupazione pacifica si era infranto contro un'ondata di sabotaggi, scioperi, sommosse, cui tedeschi avevano risposto instaurando la legge marziale. E scatenando infine la caccia - anche in Danimarca - contro il nemico per eccellenza, l'orrido giudeo: contro i sette-ottomila ebrei presenti allora sul territorio danese. Tremila circa di questi discendevano da famiglie insediate fin dal Seicento e appartenevano a un'élite assimilata. Circa altrettanti, i cosiddetti «ebrei russi», erano arrivati all'inizio del Novecento fuggendo la povertà e i pogrom dell'Europa orientale. Mille e passa erano giunti di recente: profughi tedeschi, austriaci, boemi, in fuga dalla persecuzione nazista.
Uomo di fiducia di Himmler, il «dottor Best» - come rispettosamente veniva qualificato a Copenaghen - sapeva quel che il capo delle SS si aspettava da lui: un personale contributo all'opera di disinfestazione razziale, la liquidazione degli ebrei dalla Danimarca verso le terre di sangue dello sterminio. Senonché Werner Best era un ufficiale nazista particolarmente colto, sensibile, e scaltro. A fine settembre '43, quando ricevette da Berlino l'ordine esplicito di procedere all'arresto e alla deportazione di tutti gli ebrei «purosangue», Best ebbe l'intelligenza di capire che la Danimarca non era, agli effetti della “soluzione finale”, un paese d'Europa come un altro. Decise allora di intraprendere un temerario doppio gioco. In apparenza, promosse l'operazione di pulizia etnica. In sostanza, procurò di limitarne la riuscita.
Ciò che rendeva la Danimarca un paese diverso era una diversa concezione del "noi" e del "loro". Agli occhi dell'opinione pubblica, l'altro da sé non era l'israelita, cittadino danese o profugo straniero, che partecipava di una diaspora millenaria: l'alieno era il nazista, tedesco o indigeno, che designava l'ebreo come un «sottouomo». Così, proprio l'avvio dell'operazione antiebraica suscitò in Danimarca - dopo tre anni e mezzo di attendismo, o di larvato collaborazionismo - un movimento spontaneo di resistenza civile. E generò, rispetto ad altri contesti di persecuzione degli ebrei d'Europa durante la seconda guerra mondiale, una configurazione originale del rapporto tra carnefici, vittime e spettatori.
Sapientemente ricostruita ed efficacemente raccontata, è questa la storia che si legge nel libro di Bo Lidegaard, Il popolo che disse no (Garzanti 2014): è l'avventurosa storia del salvataggio di massa di quei sette o ottomila ebrei di Danimarca. Entro le prime due settimane dell'ottobre 1943 la stragrande maggioranza di loro potè traversare lo stretto di Oresund e raggiungere la Svezia, la cui neutralità nella guerra equivaleva alla salvezza. Gli ebrei furono indirettamente aiutati dagli uomini delle istituzioni, che rifiutarono di prestare ai tedeschi qualunque tipo di assistenza politica, militare, culturale. Furono indirettamente aiutati da uomini di chiesa come il vescovo di Copenaghen, che contro la violazione nazista del diritto fece appello alla libertà di coscienza del suo gregge. Soprattutto, gli ebrei furono aiutati dal soccorso diretto della gente comune. Inseguite dai carnefici, le vittime vennero assistite dagli spettatori, che in Danimarca non rimasero tali.
Si prenda un posto come Gilleleje, villaggio di pescatori all'estremo nord dello stretto di Oresund. Millesettecento anime che da un giorno all'altro si trovano ad accogliere - a nascondere, a scaldare, a nutrire, infine a imbarcare - diverse centinaia di ebrei sconosciuti, danesi o stranieri, uomini donne vecchi bambini. Certo, per i pescatori di Gilleleje la rotta degli ebrei braccati dalla Gestapo corrisponde a una benvenuta opportunità economica: pur di salire su una barca e arrivare in Svezia, i profughi sono pronti a sborsare fino all'ultima corona che resti loro in tasca. Ma i soldi versati ai pescatori non bastano per spiegare la nascita, a Gilleleje, di un Comitato ebraico animato dal meccanico Petersen e dal droghiere Lassen insieme al falegname del villaggio, al maestro di scuola, al medico condotto e al presidente del consiglio parrocchiale. I soldi non spiegano la mobilitazione di una comunità locale che, salvando la vita agli ebrei fuggiaschi, intende salvarsi come comunità umana.
La notte del 6 ottobre soldati della Gestapo avevano fatto irruzione nella chiesa di Gilleleje, avevano arrestato ottantacinque ebrei precariamente nascosti in quel luogo sacro, ne avevano disposto la deportazione verso il ghetto boemo di Terezin, anticamera dei Lager. La nascita del Comitato ebraico di Gilleleje costituiva una risposta a questo schiaffo. Non rappresentava soltanto un gesto di solidarietà verso sconosciuti ebrei in fuga: era anche un gesto di rivendicazione dell'identità comunitaria. Era una mobilitazione in difesa dei valori non negoziabili su cui tale identità si fondava.
Lungo le coste danesi dell'Oresund si moltiplicarono esperienze collettive di salvataggio come quella di Gilleleje. In totale, nei primi quindici giorni dell'ottobre '43, le traversate in barca organizzate clandestinamente furono circa settecento: e circa settemila furono gli ebrei che così scamparono in Svezia ai colpi della “soluzione finale”. Mentre nessuno dei settecento trasporti illegali (neanche uno!) fu intercettato dalle pattuglie della Marina tedesca.
L'inefficacia dei pattugliamenti navali si spiega, prima di tutto, con il sottile doppiogioco del dottor Best. Il plenipotenziario germanico riuscì allora a convincere perfino Adolf Eichmann, giunto in missione a Copenaghen, che gli ebrei di Danimarca stavano meglio dispersi per le città della Svezia che ammassati nei ghetti di Boemia o nelle camere a gas di Polonia. Ma a un livello più profondo, l'improbabile inefficacia dei pattugliamenti lungo l'Oresund - e l'inusuale arrendevolezza di un uomo come Eichmann - si spiegano attraverso una dinamica propriamente politica. In Danimarca, il Terzo Reich rinunciò a realizzare la “soluzione finale” per una ragione molto semplice, insopportabilmente semplice: perché fu posto di fronte all'opposizione di un popolo intero.

«Il Sole 24 Ore», 12 gennaio 2014

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