11.3.15

Macbeth, la tragedia del potere. Letture e riletture (Nadia Fusini)

Vittorio Gassman nei panni di Macbeth
“Un classico della critica shakesperiana”: così lo presenta l'attenta curatrice Rosy Colombo e questo è la Lettura di Macbeth di Agostino Lombardo, che comparve quarant'anni fa per i tipi di Neri Pozza, e ora Feltrinelli ripresenta: un classico. Un libro importante, che nel più puro amore filologico invita a sillabare la tragedia shakespeariana parola per parola, pur non perdendo mai l'unità dell´interpretazione, che in sintesi potremmo riassumere così: la tragedia di Macbeth è la tragedia del potere, quando in particolare il potere è conquistato con la frode. Ovvero, nel caso specifico in cui il potente si presenta come l'usurpatore. Neppure per un attimo Shakespeare ci lascia dimenticare che il cuore del problema è lì per Macbeth: la corona l´ha strappata a chi l'aveva di diritto. Macbeth non è un ladro qualunque che chiede o la borsa o la vita, Macbeth s'è preso tutto, vita e corona. E ora domina la Scozia qualcuno che non è al "suo" posto: regna il regicida. La sovversione è al comando. Macbeth è in questo senso la continuazione dell´Amleto, dal punto di vista di Claudio.
Non è la prima tragedia del potere che Shakespeare scrive; il suo teatro abbonda di figure di re spodestati, trucidati, morti in battaglia, perseguitati dai fantasmi di chi hanno deposto. Riccardo II è il primo a dire che sono proprio "le tristi cronache della morte dei re" a interessare il popolo; Shakespeare, il teatrante, direbbe il pubblico. Ma è la stessa cosa, pubblico e popolo coincidono. Come si vede, accadeva anche all'inizio del Seicento, a Londra. Non è una cosa nuova dei nostri tempi. Alle vicende del potere l'uomo comune non poteva, non può partecipare che così: come fosse a teatro. E riguardo all´estraneità che si prova di fronte alla recita non v´è differenza essenziale tra l'uomo monarchico di allora e l'uomo post-democratico di oggi. Siamo sempre a teatro.
Sono però diverse le mosse del potente. E cambia la consapevolezza dell'atto. E' perché sa di aver sbagliato nel governare che Riccardo II cede la corona all'usurpatore Bolingbroke. Conquista così, fuori tempo massimo, l´intima coscienza che, al di là dell'appello al diritto divino, al diritto di stirpe, al puro sangue blu, per essere re bisogna saper regnare. Elisabetta, la quale non a caso pare si identificasse con Riccardo, sapeva bene come compiacere il popolo, ingraziarselo, come dimostrare almeno un po' di giustizia e tolleranza nei confronti della moltitudine. E governò con modestia regale, e pratico realismo. Idee più grandiose aveva il suo successore Giacomo, che venne dalla Scozia invocando idealità monarchiche assolutiste, un ultimo colpo di coda di fronte ai tempi che cambiavano. E così in fretta che tra poco gli uomini comuni avrebbero portato davanti al loro tribunale l'Unico, l'Unto. Lo avrebbero processato! Non fu una vera e propria rivoluzione, come quella in Francia, ma negli anni quaranta del Seicento in Inghilterra ci si trovò di fronte a una scena in un certo senso ancora più memorabile, dove l'Unico, l'Unto, dovette accettare di essere giudicato e condannato dagli "uomini comuni", eguali l'uno all'altro nel non avere nessun´altra qualità, se non quella di parlare a nome del "bene comune". Che gli "uomini comuni" avessero acquisito il diritto di giudicare i loro governanti, da allora in poi è diventato un fatto. Anche se non nel nostro paese, a quanto sembra.
Sul significato politico del dramma Lombardo insiste. Nel linguaggio dell'opera si nasconderebbe criptata un'analisi del potere, addirittura un'evoluzione del concetto di governo. Dal re buono Duncan, attraverso lo stato d'eccezione del tiranno Macbeth, si arriverebbe all'esercizio più moderno della sovranità da parte del figlio Malcolm, il quale coniugherà la forza del leone e la scaltrezza della volpe. Non perché abbia letto Machiavelli, ma perché nel dramma la scienza politica dell'epoca affiora. E il dibattito sulla forma di governo monarchica era acceso ai tempi.
L'interpretazione di Lombardo è a lieto fine: il tiranno viene sconfitto, l'ordine restaurato, la Scozia, il tempo, il mondo sono "liberi", alla fine. Come la curatrice del volume, io non concordo su questo punto. E qui si data la lettura del critico: Lombardo è un uomo di sinistra di quelli che oggi non possiamo che chiamare "d'altri tempi"; crede alle magnifiche sorti e progressive; crede che dalle esperienze negative si può imparare, che dal male può nascere il bene. Suggestionata dai miei tempi, io sarei portata a dire che nella tragedia di Macbeth, il prode atleta della morte, domina una tonalità sovversiva che non lascia scampo a nessuna speranza. Direi semmai che la passione dominante nel dramma è il contrario della speranza, è la paura. E della paura non c'è catarsi.
Non c'è nulla di più violento della paura, commenta Simone Weil nei suoi quaderni. Ha ragione. La paura sta all'ambizione di Macbeth, come il dolore al piacere nell´economia libidica del sadico. E' sadico, il potente. E' spaventato. Così appare ai nostri giorni. Ma attenzione; è pur sempre adrenalina.


“la Repubblica”, 11 marzo 2010

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