15.3.15

Tra San Benedetto e Togliatti. Luigi Salvatorelli da Marsciano (Angelo D'Ors)

Su “La Stampa” del 19 aprile 2012, Luigi Salvatorelli pubblicava un profilo di Luigi Salvatorelli, giornalista e storico nato a Marsciano, in Umbria. L'articolo era corredato di due brevi lettere, da Togliatti a Salvatorelli e da Salvatorelli a Togliatti, che qui “posto”. (S.L.L.)
«Illustre e caro Ministro»: così Luigi Salvatorelli si rivolgeva a Palmiro Togliatti nel luglio del 1946, aggiungendo tra parentesi «Mi auguro nell'interesse del Paese che Ella rimanga tale». Non fu così troppo a lungo, e l'Italia del dopoguerra si incamminò verso un cinquantennio democristiano, dopo il ventennio mussoliniano.
Ancor prima che il regime prendesse il via, Salvatorelli, storico del Cristianesimo antico, rinunciò nel 1921 alla cattedra appena vinta nell'Università di Napoli, per andare a fare il vicedirettore della “Stampa” (di fatto il direttore, in quanto Alfredo Frassati era stato nominato da Giolitti ambasciatore a Berlino): in quella decisione, assolutamente insolita per quel tempo e ancor più per i successivi, sta, si può dire, la cifra della personalità salvatorelliana.
Nell'Italia percorsa dalle camicie nere, allo studioso umbro parve una viltà continuare a occuparsi di santi, reliquie, epistole paoline...: il giornalismo fu da allora non solo il suo mestiere principale, ma un mezzo di lotta contro il fascismo. E nella prima metà degli Anni Venti i suoi articoli acuti rappresentarono un tentativo di capire il movimento mussoliniano, la sua base sociale, i suoi obiettivi politici e, nel contempo, un modo per combatterlo. E nell'autunno 1925, col cambio di proprietà e di direzione del giornale imposto dal regime, il primo nella lista degli epurandi fu lui, classificato come «feroce antifascista».
Cominciava allora la difficile sopravvivenza di un professore senza cattedra, di un giornalista senza giornale, per di più oppositore politico dichiarato. Eppure non cessò di lavorare, Salvatorelli, magari non firmando o usando pseudonimi, favorito da una rete di rapporti che a lungo ebbe al suo centro la Torino capitale culturale; lo aiutò una notevolissima velocità di scrittura, cimentandosi in molti generi, e temi, dal commento veloce, all'analisi politica, al saggio critico-filologico, ai grandi affreschi storici. Furono per la gran parte lavori «alimentari», che servivano cioè a procacciare a sé e ai suoi il sostentamento, e dunque molti di quei testi appaiono di modesto valore; e in quei tanti «disegni» di storia europea, e mondiale, l'autore fu costretto a eludere per quanto possibile i giudizi sul fascismo, in una dialettica fra mestiere e milizia che certo non umiliava lui, ma il regime.
Eppure non pochi scritti, anteriori e successivi all'avvento mussoliniano, restano oggi a dirci dell'intelligenza dello studioso e dell'efficacia del giornalista: il libretto Nazionalfascismo, edito da Piero Gobetti nel 1923 (che raccoglieva molti articoli della Stampa), è diventato un classico, così come i suoi profili di Santi come Francesco e Benedetto, oppure il mirabile Leggenda e realtà di Napoleone (dove sotto traccia si coglie qualche ombra ironica sul bonapartismo di Mussolini). E al fascismo volle dedicarsi anche nel dopoguerra, con la prima sintesi (Storia d'Italia nel periodo fascista, a quattro mani con Giovanni Mira). Riprese la milizia giornalistica, prima con il bellissimo settimanale “La Nuova Europa” (una vetrina di grandi firme, da Dionisotti a Capitini, da Calogero a Muscetta), quindi come editorialista di quello che era tornato a essere il suo giornale, “La Stampa”; ma in lui la delusione della «nuova Italia» (oltre che della «nuova Europa») fu palpabile. E il militante del Partito d'Azione si ritraeva sulle sponde della disillusione, in chiave amaramente conservatrice, senza però mai rinunciare ad analisi che anche quando oggi ci appaiono discutibili, restano lucide ed essenziali.
Di questa sua indefessa attività (era nato nel 1886, morì nel 1974) resta traccia nell'Archivio: 108 buste, 332 fascicoli, 1818 sottofascicoli a Marsciano (Perugia), patria di Salvatorelli...

Lettere
Da Togliatti a Salvatorelli e viceversa.

Roma, 11 luglio 1946
Caro professore,
mi permetto di rallegrarmi con lei per il suo articolo L'Italia vivrà. È la prima voce seria che sento levarsi in un coro di scervellati e di fanatici (ma lo saranno poi davvero, o non fingeranno, per altri scopi, o troppo poco o fin troppo chiarì?). Bisogna continuare, anche se si va contro corrente, perché troppo seria è la causa in gioco – è la causa, forse, io credo, della nostra vita stessa come Nazione.
Una cordiale stretta di mano,
Palmiro Togliatti
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Roma, 12 luglio 1946
On. Palmiro Togliatti Montecitorio, Roma
Illustre e caro Ministro,
(Mi auguro nell'interesse del paese che Ella rimanga tale). La ringrazio della Sua cortese lettera. Faccio quel che posso contro certe infatuazioni e certi erronei indirizzi; ma l'opera dei giornalisti indipendenti, in questa difficile situazione dell'Italia, è purtroppo ostacolata da due gravi impedimenti, l'uno estero, l'altro interno. La politica dei «Tre Grossi» [Stati Uniti, Unione Sovietica e Cina, ndr] nei nostri riguardi, nei procedimenti più ancora che nella sostanza, par fatta apposta per sabotare la repubblica nascente. Le condizioni, poi, della stampa sono tali, che, all'infuori degli organi di partito, non adatti ad influire su tutta l'opinione pubblica, non c'è nessun grande giornale nazionale di libera difesa della repubblica democratica.
Mi creda cordialmente

Luigi Salvatorelli

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