Su “La Stampa” del 19
aprile 2012, Luigi Salvatorelli pubblicava un profilo di Luigi
Salvatorelli, giornalista e storico nato a Marsciano, in Umbria.
L'articolo era corredato di due brevi lettere, da Togliatti a
Salvatorelli e da Salvatorelli a Togliatti, che qui “posto”.
(S.L.L.)
«Illustre e caro
Ministro»: così Luigi Salvatorelli si rivolgeva a Palmiro Togliatti
nel luglio del 1946, aggiungendo tra parentesi «Mi auguro
nell'interesse del Paese che Ella rimanga tale». Non fu così troppo
a lungo, e l'Italia del dopoguerra si incamminò verso un
cinquantennio democristiano, dopo il ventennio mussoliniano.
Ancor prima che il regime
prendesse il via, Salvatorelli, storico del Cristianesimo antico,
rinunciò nel 1921 alla cattedra appena vinta nell'Università di
Napoli, per andare a fare il vicedirettore della “Stampa” (di
fatto il direttore, in quanto Alfredo Frassati era stato nominato da
Giolitti ambasciatore a Berlino): in quella decisione, assolutamente
insolita per quel tempo e ancor più per i successivi, sta, si può
dire, la cifra della personalità salvatorelliana.
Nell'Italia percorsa
dalle camicie nere, allo studioso umbro parve una viltà continuare a
occuparsi di santi, reliquie, epistole paoline...: il giornalismo
fu da allora non solo il suo mestiere principale, ma un mezzo di
lotta contro il fascismo. E nella prima metà degli Anni Venti i
suoi articoli acuti rappresentarono un tentativo di capire il
movimento mussoliniano, la sua base sociale, i suoi obiettivi
politici e, nel contempo, un modo per combatterlo. E nell'autunno
1925, col cambio di proprietà e di direzione del giornale imposto
dal regime, il primo nella lista degli epurandi fu lui, classificato
come «feroce antifascista».
Cominciava allora la
difficile sopravvivenza di un professore senza cattedra, di un
giornalista senza giornale, per di più oppositore politico
dichiarato. Eppure non cessò di lavorare, Salvatorelli, magari non
firmando o usando pseudonimi, favorito da una rete di rapporti che a
lungo ebbe al suo centro la Torino capitale culturale; lo aiutò una
notevolissima velocità di scrittura, cimentandosi in molti generi, e
temi, dal commento veloce, all'analisi politica, al saggio
critico-filologico, ai grandi affreschi storici. Furono per la gran
parte lavori «alimentari», che servivano cioè a procacciare a sé
e ai suoi il sostentamento, e dunque molti di quei testi appaiono di
modesto valore; e in quei tanti «disegni» di storia europea, e
mondiale, l'autore fu costretto a eludere per quanto possibile i
giudizi sul fascismo, in una dialettica fra mestiere e milizia che
certo non umiliava lui, ma il regime.
Eppure non pochi scritti,
anteriori e successivi all'avvento mussoliniano, restano oggi a dirci
dell'intelligenza dello studioso e dell'efficacia del giornalista: il
libretto Nazionalfascismo, edito da Piero Gobetti nel 1923
(che raccoglieva molti articoli della Stampa), è diventato un
classico, così come i suoi profili di Santi come Francesco e
Benedetto, oppure il mirabile Leggenda e realtà di Napoleone (dove
sotto traccia si coglie qualche ombra ironica sul bonapartismo di
Mussolini). E al fascismo volle dedicarsi anche nel dopoguerra, con
la prima sintesi (Storia d'Italia nel periodo fascista, a
quattro mani con Giovanni Mira). Riprese la milizia giornalistica,
prima con il bellissimo settimanale “La Nuova Europa” (una
vetrina di grandi firme, da Dionisotti a Capitini, da Calogero a
Muscetta), quindi come editorialista di quello che era tornato a
essere il suo giornale, “La Stampa”; ma in lui la delusione della
«nuova Italia» (oltre che della «nuova Europa») fu palpabile. E
il militante del Partito d'Azione si ritraeva sulle sponde della
disillusione, in chiave amaramente conservatrice, senza però mai
rinunciare ad analisi che anche quando oggi ci appaiono discutibili,
restano lucide ed essenziali.
Di questa sua indefessa
attività (era nato nel 1886, morì nel 1974) resta traccia
nell'Archivio: 108 buste, 332 fascicoli, 1818 sottofascicoli a
Marsciano (Perugia), patria di Salvatorelli...
Lettere
Da Togliatti a Salvatorelli e viceversa.
Roma, 11 luglio 1946
Caro professore,
mi permetto di
rallegrarmi con lei per il suo articolo L'Italia vivrà. È la
prima voce seria che sento levarsi in un coro di scervellati e di
fanatici (ma lo saranno poi davvero, o non fingeranno, per altri
scopi, o troppo poco o fin troppo chiarì?). Bisogna continuare,
anche se si va contro corrente, perché troppo seria è la causa in
gioco – è la causa, forse, io credo, della nostra vita stessa come
Nazione.
Una cordiale stretta di
mano,
Palmiro Togliatti
-------
Roma, 12 luglio 1946
On. Palmiro Togliatti
Montecitorio, Roma
Illustre e caro Ministro,
(Mi auguro nell'interesse
del paese che Ella rimanga tale). La ringrazio della Sua cortese
lettera. Faccio quel che posso contro certe infatuazioni e certi
erronei indirizzi; ma l'opera dei giornalisti indipendenti, in questa
difficile situazione dell'Italia, è purtroppo ostacolata da due
gravi impedimenti, l'uno estero, l'altro interno. La politica dei
«Tre Grossi» [Stati Uniti, Unione Sovietica e Cina, ndr] nei nostri
riguardi, nei procedimenti più ancora che nella sostanza, par fatta
apposta per sabotare la repubblica nascente. Le condizioni, poi,
della stampa sono tali, che, all'infuori degli organi di partito, non
adatti ad influire su tutta l'opinione pubblica, non c'è nessun
grande giornale nazionale di libera difesa della repubblica
democratica.
Mi creda cordialmente
Luigi Salvatorelli
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