8.4.15

A che serve la storia? Una nuova vita per i saperi umanistici (Giuseppe Cantarano)

Bambino etiope
Che strana età, la nostra. Ricordate quando i cantori neoconservatori della globalizzazione tecnica ed economico-finanziaria ci promettevano maggior benessere e prosperità per tutti? Ebbene, nessuna di quelle promesse si è, manco a dirlo, realizzata. Anzi, nel giro di un ventennio, le condizioni generali delle popolazioni del pianeta – anche nel nostro opulento Occidente capitalistico – sono di gran lunga peggiorate. Meno lavoro. Più disoccupazione. Generalizzata precarietà e sfruttamento. Aumento delle povertà, vecchie e nuove. Crescita delle disuguaglianze. E, come se non bastasse, un pianeta ridotto a una pattumiera globale: aria irrespirabile, acqua potabile che tende a scarseggiare, il suolo intriso di veleni, destinato, prima o poi, alla sterilità se la tendenza dell’odierno sviluppo capitalistico procederà ancora verso questa dissennata e catastrofica direzione.
Circa un miliardo di individui oggi vive con meno di un dollaro al giorno. Solo in America Latina ci sono duecento milioni di poveri. Mentre negli anni Sessanta l’insieme dei paesi più sviluppati era trenta volte più ricco dei pesi più poveri, oggi lo è di settanta, ottanta volte. Tanto per capirci: un bambino americano oggi consuma quello che consumano 422 suoi coetanei etiopi. Con buona pace dei guru neoliberali dell’economia finanziaria. E della dispotica tecnocrazia. I quali, non soddisfatti di aver contribuito – con i loro scientifici «saperi taumaturgici» – a determinare tutti questi drammatici problemi, continuano indifferentemente, come se niente fosse, a fornirci ricette per risolverli. Continuano a predisporre «strategie terapeutiche», diciamo così, per «malattie» da essi indotte. Strategie terapeutiche che non fanno altro che indurre altre «malattie». Che i loro saperi «scientifici» si apprestano di nuovo a «guarire». Un circolo vizioso infernale, come si vede – un circolo che dovrebbe essere al più presto inceppato, spezzato, interrotto. O quantomeno, demistificato.
È a questa sfida che sono chiamati oggi i saperi umanistici, come scrive Piero Bevilacqua nel libro da lui curato – A che serve la storia? I saperi umanistici alla prova della modernità, Donzelli, pp. 172, euro 22 – che contiene scritti di Vandana Shiva, Serge Latouche, Pietro Barcellona, Franco Cassano, Mario Alcaro, Raffaele Perrelli, Laura Marchetti, Edoardo Salzano.
Davvero strana, la nostra età. L’età della tecnica. E del dominio scientifico dell’economia finanziaria. Idolatriche divinità della nostra età secolarizzata. Che globalizza flussi finanziari e carte di credito, ma non sa – o non vuole – globalizzare i diritti, perfino quello più elementare alla vita. Altro che quell’epoca della biopolitica, che avrebbe dovuto farsi carico e prendersi cura della vita di ciascun individuo. Nel nostro mondo che, nell’assordante chiacchiericcio retorico, sostiene di aver globalizzato i diritti umani, ogni cinque secondi un bambino muore. Per fame e per malattie. Nell’epoca del dominio incontrastato della scienza, della tecnica e dell’economia – quella finanziaria soprattutto. Aveva ragione Lord Keynes: quando l’economia si converte interamente nella finanza – diceva – lo sviluppo di un paese diventa il sottoprodotto delle attività di un casinò. E oggi il «casinò» è diventato globale. È la delirante e tracotante egemonia di questa globalizzazione – dispensatrice di disuguaglianze, iniquità e nuove solitudini – che i saperi umanistici sono chiamati a demolire. Quei saperi – storia, letteratura, arte, filosofia e via dicendo – sempre più emarginati dalle strutture formative. In quanto ritenuti irrilevanti e inutili al potenziamento del funzionalismo tecno-economico.
Nessuna ingenua e puerile rinuncia ai saperi scientifici, evidentemente. Che, del resto, sarebbe impossibile. E, francamente, nemmeno auspicabile. Si tratta, invece, più realisticamente, di trarre fuori dai loro angusti specialismi le tecnoscienze. Soprattutto quelle economico-finanziarie. Le quali, interamente asservite al mito capitalistico dello sviluppo e della crescita illimitata, hanno perso di vista non solo lo sguardo d’insieme sulla società e sul mondo. Ma sono diventate servizievoli strumenti al servizio dei «famelici appetiti di breve periodo» – come osserva Piero Bevilacqua nella sua introduzione – delle classi dominanti.
Insomma, i saperi umanistici – proprio in virtù della loro odierna marginalità e tendenziale insignificanza nel dispositivo bellico delle tecnologie utilitaristiche della crescita – devono «chiedere conto», diciamo così. E lo devono chiedere a coloro che, nel delirio del loro dominio tecno-scientifico, non si sono accorti che la loro idea di sviluppo «ha cancellato – come scrive ancora Piero Bevilacqua – il ruolo della natura nel processo di produzione della ricchezza, trascinando il nostro pianeta sull’orlo del collasso». Cancellando le relazioni sociali. E consegnando ciascun individuo a una solitudine globale.


il manifesto 24 Novembre 2011

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