28.4.15

Isis. Un ripugnante riflesso (Lanfranco Binni)

Il testo che segue è la prima parte di un articolo dal titolo Un'altra storia pubblicato su “Il Ponte” di marzo 2015. Il titolo è mio. (S.L.L.)

Delle origini in Iraq e in Siria dello «Stato islamico», finanziato e armato dagli Stati Uniti, e sottotraccia da Israele, per disgregare lo stato siriano con l’obiettivo strategico di attaccare l’Iran ed eliminare due importanti retrovie di sostegno al popolo palestinese, ormai sappiamo tutto. È lo stesso Obama, nella recente intervista del 19 marzo, a riconoscere il ruolo statunitense nella nascita dell’Isis, sia pure attribuendola alle conseguenze della guerra irachena di Bush e sottraendosi alle responsabilità della sua presidenza. Sappiamo anche che l’Isis, strumento del capitalismo senile occidentale e delle sue strategie geopolitiche, svolge oggi un ruolo di attrazione di soggettività radicali nei paesi arabi e nei paesi occidentali, innestando sul disegno eterodiretto dinamiche diverse e più complesse le cui radici affondano nei processi di esclusione sociale nei paesi arabi e di islamofobia e razzismo nei paesi occidentali: contro il neocolonialismo l’odio per l’Occidente, contro lo «stato ebraico» lo «stato islamico», contro i simboli del «moderno» integralismo occidentale i simboli di un integralismo islamico delle origini, contro le tute arancione dei prigionieri di Guantanamo le tute arancione dei prigionieri dell’Isis, contro le tecniche e i mezzi della comunicazione occidentale il loro impiego con contenuti opposti e speculari. Ma l’aspetto principale dell’Isis, nonostante l’attrazione di giovani guerriglieri in parte estranei a motivazioni di ordine religioso, resta la sua funzione di disgregazione terroristica degli assetti geopolitici nelle sue aree di intervento, al servizio delle strategie occidentali di creazione del caos che giustifichino gli interventi successivi delle potenze «democratiche».
Insomma, l’Isis è stato un ottimo investimento produttivo. Come ha detto lo storico israeliano Ilan Pappé in una recente intervista al «manifesto» (18 febbraio), «Lo Stato Islamico è la miglior cosa che potesse capitare a Israele. Con il califfato si risolleva la voce di coloro per i quali esiste un solo Stato illuminato in Medio Oriente, Israele, baluardo contro l’avanzata dell’estremismo islamico. Spero che in occidente la gente non cada nel trucco: non si tratta di uno scontro di civiltà, ma di giustizia sociale e modelli democratici di integrazione. Basta guardare a come l’Isis attira giovani musulmani europei andando a pescare tra i gruppi più oppressi e marginalizzati. Non stiamo parlando di una questione culturale e religiosa, ma sociale ed economica: se in Europa si assistesse ad una trasformazione democratica, se si impedisse a ideologie razziste e pratiche capitaliste di determinare l’esistenza della gente, gruppi come l’Isis non troverebbero spazio». In realtà lo Stato islamico non è «capitato» a Israele, che fin dall’inizio ne sfrutta le opportunità, e la galassia delle formazioni «radicali» è notoriamente infiltrata, da sempre, dal Mossad. Il risultato delle recenti elezioni, con il rafforzamento della destra oltranzista di Netanyau, accentuerà la politica di guerra del governo israeliano, contro ogni prospettiva di Stato palestinese, contro l’Iran, per la destabilizzazione dell’intera area araba.
Apparentemente l’Isis e la galassia delle formazioni terroristiche conducono la loro guerra contro l’Occidente e il sionismo, ma in realtà i bersagli degli attentati sono tutti all’interno del mondo arabo e musulmano, dalla Siria allo Yemen, dalla Libia alla Nigeria, in nome di una presunta ortodossia da difendere dall’Occidente; gli attentati di Parigi e di Tunisi hanno altre dinamiche, sono conseguenze della propaganda della «guerra santa» nei settori sociali emarginati delle «metropoli», nella tradizione della controviolenza anticoloniale, della guerra da portare in casa al nemico; fu questa la risposta del Fronte di liberazione nazionale algerino, negli anni sessanta del Novecento, al terrorismo dell’Oas. Ma anche su questo piano di violenza e controviolenza (e a questo proposito bisogna rileggere Frantz Fanon, I dannati della terra) la didattica del terrorismo dell’Is non ha rivolto le sue campagne militari al principale fattore di instabilità nell’intero mondo arabo, la fortezza israeliana. Quando lo farà, se lo farà, sarà per lo «Stato ebraico» un ottimo pretesto per attaccare i suoi nemici, i palestinesi e l’Iran.
Ascoltiamo ancora Obama, nella sua intervista del 19 marzo: «Se l’Isis venisse sconfitto, il problema di fondo dei sunniti resterebbe. Quando un giovane cresce senza prospettive per il futuro, l’unico modo che ha per ottenere potere e rispetto è diventare un combattente. Non possiamo affrontare tutto ciò con l’antiterrorismo e la sicurezza, separandoli da diplomazia, sviluppo ed educazione». È una clamorosa inversione della strategia statunitense, dalla liquidazione del governo irakeno di Al Maliki (alla vigilia di accordi economici e non solo con la Cina e con la Russia) in poi, probabilmente da collocare nel quadro della politica interna in previsione delle elezioni presidenziali, ma anche dovuta al fallimento dell’intervento contro la Siria e alla perdita di controllo dell’Isis e di tante altre formazioni qaediste e jihaidiste, peraltro in difficoltà nel principale terreno di scontro tra Iraq e Siria grazie soprattutto al nuovo protagonismo iraniano. La strategia statunitense del caos è ingovernabile e produce conseguenze sociali e culturali molto più pericolose delle azioni militari del «califfato» e dei suoi concorrenti. Commenta Ramzi Baroud, direttore di «Palestine Chronicle»: «L’Isis va visto non solo come un movimento alieno al più vasto mondo politico del Medio Oriente, ma anche come un fenomeno in parte occidentale, il ripugnante riflesso delle avventure neocolonialiste nella regione, accompagnate dalla demonizzazione delle comunità musulmane nelle società occidentali». E questo è il punto.

La strategia del caos, avviata il 19 marzo 2011 con i bombardamenti aereonavali Usa/Nato sulla Libia, e con il sostegno (documentato da una nota inchiesta del «New York Times») ai gruppi armati islamici combattuti dal governo di Gheddafi, anche in quest’area ha prodotto una situazione fuori controllo che mette in pericolo gli «interessi» neocoloniali occidentali. Un intervento militare sul campo, sia pure appoggiato su uno dei due governi in lotta tra loro, in un proliferare di bande armate «islamiste» o semplicemente anticolonialiste, non avrebbe altro risultato che rafforzare il fronte antioccidentale; a poco servirebbe ancorare l’intervento al «governo di Tobruk» e al suo Esercito nazionale libico diretto da un agente della Cia, il generale Khalifa Haftar, inviato in Libia dalla Virginia. Le farneticazioni militariste del governo italiano, lo schieramento aereonavale al largo delle coste libiche, le dichiarazioni velleitarie e irresponsabili di intervento diretto con uomini e mezzi, è soltanto un corollario del caos, determinato dalla ridicola volontà di potenza di un sistema politico in crisi di legittimazione che spera di farla franca anche grazie a un’avventura militare al buio; un nemico esterno, un fattore di paura, è sempre utile (pensano i nostri strateghi) sia sul piano internazionale (il «prestigio dell’Italia») che, soprattutto, interno. E questo è un altro punto.

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