27.5.15

Dialogo breve sul socialismo (Vittorio Foa, Andrea Ricciardi)

Questo Dialogo breve sul socialismo tra Vittorio Foa e lo storico Andrea Ricciardi, fu pubblicato negli Annali della Fondazione La Malfa (volume XXII 2007, Rubbettino, aprile 2008, pp. 311-319) a cura di Ricciardi. E' reperibile in rete in alcuni siti collegati al Circolo Rosselli (ad esempio “duemila ragioni”). (S.L.L.)
Vittorio Foa negli anni 60 del Novecento

FOA
Dopo il crollo del Muro di Berlino e la caduta del comunismo, mi pare che si sia pensato molto al PCI, alla sua storia, alle sue battaglie politiche, ai suoi errori, al peso dello stalinismo, e poco alla specificità del socialismo italiano, alle scelte del PSI in varie stagioni del Novecento. Penso in particolare a Nenni, il dirigente politico di maggior peso per molti decenni, l’uomo che più ha dettato la linea del partito a partire dagli anni Trenta per circa quarant’anni. E’ una figura che mi ha sempre incuriosito, anche riflettendo sugli anni in cui era repubblicano e lottava al fianco di Mussolini, che allora era un socialista rivoluzionario. Nenni è stato tante cose, un po’ come il PSI. Mi pare importante riflettere sui socialisti italiani e il secolo scorso, magari per provare a cogliere alcune tendenze di lungo periodo, orache si può ragionare più a freddo. Cosa ne pensi?

RICCIARDI
Penso che una profonda riflessione storica sul PSI sarebbe quasi necessaria, c’è ancora molto da capire. I socialisti sono stati per molti anni al governo, ma hanno anche fatto una dura opposizione tra il 1947 e il 1962 teorizzando un’alternativa di sistema e, in sostanza, rifiutando il riformismo ispirato alle socialdemocrazie europee. La centralità del PCI nella storia del movimento operaio italiano, almeno dal 1948, ha forse impedito un’analisi attenta in particolare su come il PSI pensava il socialismo. Qualcuno ha finito per credere che i socialisti avessero intrapreso fin dall’inizio della storia repubblicana la strada “giusta” rispetto ai comunisti perché non erano così legati all’URSS, avevano una diversa concezione della democrazia e, quindi, cercavano un’alternativa più credibile al capitalismo rispetto ai comunisti. Tuttavia, guardando al Novecento nel suo complesso e non solo al secondo dopoguerra, le cose non stanno proprio così. Quali sono, secondo te, i nodi principali da affrontare?

FOA
La prima cosa che mi viene in mente è il biennio rosso. Dopo la rivoluzione d’ottobre, in Italia i socialisti guardavano alla Russia e, anche dopo la nascita del PCd’I, la maggioranza del partito era in mano ai massimalisti e non ai riformisti. Da noi non accadde come in Francia, a Tours alla fine del 1920 i comunisti conquistarono la maggioranza e fu la SFIO a operare la scissione dal PCF. A Livorno, invece, i comunisti rimasero minoranza rispetto al PSI. Ma io mi chiedo: esisteva una grande differenza di prospettiva politica tra il PCd’I e il PSI all’inizio degli anni Venti? I riferimenti internazionali e il sogno della rivoluzione di classe non accomunavano i due massimalismi?

RICCIARDI
Credo che, in sostanza, fosse proprio così. Oggi possiamo dire che le differenze tra i due partiti non erano così centrali, anche se allora qualche significativa divisione si manifestò, per esempio sui tempi di realizzazione della rivoluzione in Italia. Si può aggiungere che la maggior parte dei massimalisti non intendeva comunque rinunciare a una specifica identità socialista, pur rifiutando la pratica riformista. Infatti i riformisti ruppero con il PSI proprio nell’ottobre del 1922, quando nacque il PSU di Turati e Matteotti. Alla vigilia della marcia su Roma, la sinistra era divisa in tre tronconi. Un problema che ritornerà spesso nel corso del Novecento…

FOA
Mi ha colpito che alcuni bravi studiosi, penso in particolare a Paul Ginsborg, abbiano recentemente paragonato il biennio rosso al 1968-1969, assimilando così il primo dopoguerra agli anni della contestazione. Ma io non credo che il paragone sia calzante. Il ’68 non rappresentò semplicemente il tentativo di concretizzare il sogno della rivoluzione comunista, fu qualcosa di profondamente diverso e, in un certo senso, di più ampio perché non riguardò solo la classe proletaria e il mondo dell’industria dell’Italia settentrionale. Rappresentò una cesura col passato sul piano ideologico-politico, economico, socio-culturale e interessò il complesso della società attraversando le classi. Partendo dall’università, vennero messi in discussione i valori fondanti del vivere civile, entrarono in crisi usi e costumi che apparivano consolidati, vennero discussi i rapporti tra i sessi e la dimensione femminile, il ruolo dei giovani e il rapporto con le vecchie generazioni. Una cosa un po’ diversa da quella che era avvenuta negli anni Dieci, non ti pare?

RICCIARDI
Sono d’accordo, il ’68 è figlio di un contesto del tutto diverso da quello di inizio secolo e non lo si può in alcun modo interpretare come un nuovo tentativo di promuovere in Italia una rivoluzione comunista, questa mi pare un’interpretazione quasi riduttiva. Tornando agli anni Venti e al rapporto tra PCd’I e PSI, durante il fascismo le differenze di strategia e di identità tra comunisti e socialisti si ampliarono. I socialisti manifestarono una concezione dell’Aventino diversa da quella dei comunisti che, dopo la fondazione della Concentrazione Antifascista, non vi aderirono e anzi, seguendo la linea tracciata dal VI Congresso del Comintern, arrivarono ad accusare i socialisti di essere addirittura socialfascisti. In quegli anni la distanza tra i due partiti era notevole, forse esisteva una specificità del PSI rispetto al PCd’I.

FOA
Sì, è vero che nella seconda metà degli anni Venti PCd’I e PSI erano distanti, e i loro rapporti non migliorarono di certo dopo l’unificazione socialista del 1930. Ma poi ci fu il VII Congresso del Comintern. Venne la stagione dei fronti popolari e, al di là della Francia, bisogna pensare soprattutto alla Spagna, dove PCd’I e PSI si ritrovarono allineati. Perché Nenni, di fronte ai massacri del 1937 e alle uccisioni di trockijsti e anarchici da parte degli stalinisti, di fatto solidarizzò con i comunisti? Quando, in un secondo tempo, venne chiesto a Longo cos’era successo a Barcellona nel maggio di quell’anno così drammatico, alludendo alla morte di Nin, Berneri e ad altre uccisioni soprattutto di militanti del POUM e del sindacato anarchico, Longo rispose candidamente che non ricordava nulla di particolare… Ma io ricordo bene il contenuto di un articolo pubblicato allora da Nenni sul “Nuovo Avanti”, io ero in carcere e lo lessi anni dopo. Non un dubbio, né un critica. In quel momento, esisteva una specifica identità socialista?

RICCIARDI E’ difficile dirlo, il problema esiste e, in effetti, se ne è parlato poco, concentrando l’analisi su un aspetto che pure era centrale: la raggiunta unità antifascista. La priorità allora era proprio questa, mantenere l’unità del movimento operaio e lottare contro il fascismo e i suoi alleati. I temi scomodi, che potevano rappresentare un problema, venivano forse accantonati quasi per non “turbare” un’armonia raggiunta a fatica. Anche la battaglia per il socialismo e i suoi contenuti politico-economici rimanevano inevitabilmente sullo sfondo. Fu così anche dopo il 1941 quando, con l’attacco tedesco all’URSS, le forze antifasciste comuniste e non comuniste si ritrovarono insieme per combattere Mussolini e Hitler.

FOA Forse sì, ma le cose cambiarono dopo la guerra? Perché Nenni ruppe con Saragat nel 1946? Il fascismo era stato battuto, il PSIUP aveva preso più voti dei comunisti nelle elezioni per l’Assemblea Costituente, Nenni disse che non pensava di essere in maggioranza nel partito e, nonostante questo, volle l’alleanza con il PCI. A distanza di tanto tempo, non me lo spiego.

RICCIARDI Può darsi che Nenni, politico passionale e grande oratore, fosse stato un po’ illuso dalle grandi manifestazioni di piazza e dal clima di unità che si respirava tra le masse. Una scelta forse influenzata dal “profumo di vittoria” del socialismo, la lotta di classe era ancora una variabile fondamentale.

FOA E’ possibile. E comunque non tutti i vertici del PSI, al di là di Saragat, avevano la stessa concezione del rapporto con i comunisti. C’era chi non era convinto delle liste uniche, basti pensare a Lombardi. Certo non era facile ipotizzare una vera rottura con i comunisti anche perché, al di là degli obiettivi ultimi del socialismo, eravamo tutti impegnati in battaglie politico-sindacali molto concrete che potevano essere condotte solo dall’interno della sinistra. Mi ricordo di quando noi azionisti entrammo nel PSI, mi chiedo cosa pensassimo veramente del socialismo. In realtà in noi c’era soprattutto l’idea di continuare a fare politica (io ero già un sindacalista più che un militante di partito) e di stare a sinistra. Il PSI rappresentava un’opportunità da cogliere per continuare a pensare a una società nuova, per provare a costruirla nel tempo. Il PSLI era una cosa un po’ diversa, a un certo punto ci eravamo chiesti se era il caso di seguire Saragat e non Nenni, ma di fatto i socialdemocratici erano collocati quasi in un campo avverso e, come ho detto altre volte, chi rompeva pubblicamente con l’URSS, in particolare durante la fase iniziale della guerra fredda, rischiava di essere letteralmente “occupato” dagli americani. Noi volevamo evitare che questo avvenisse. Riscossa Socialista (Jacometti, Lombardi, Santi, Pieraccini e io) cercò un’altra strada, ma il varco era troppo stretto e Nenni, già nel 1949, riconquistò il partito dando inizio alla fase stalinista del PSI, una brutta pagina. Per alcuni anni il dibattito interno al partito fu praticamente assente. Lombardi, nonostante il ruolo nei Partigiani della Pace, di fatto fu emarginato dopo lo scontro con Morandi e Basso pagò un prezzo molto alto. Forse allora avremmo potuto costruire un’intesa più solida, il nostro rapporto personale è sempre stato buono ma evidentemente ci rivolgevamo a contesti diversi: Basso era un intellettuale che si occupava molto della dottrina, io ero un sindacalista che viveva più a contatto con le masse e forse nella politica cercava altre cose. Anche guardando a quella fase, il problema dell’identità socialista rimane. In che cosa la linea della segreteria socialista differiva dalla proposta comunista? Nenni e Togliatti non rimasero molto vicini, anche dopo il 1953, diciamo fino al 1955? Torno a chiedermi se, almeno fino all’inizio della destalinizzazione, esistesse una specificità socialista nel pensare un’alternativa al capitalismo.

RICCIARDI
Penso che ritorni il tema dell’unità. Anche chi, come Lombardi, non poteva certo essere tacciato di simpatie staliniste, preferì forse rimandare il problema della ricostruzione di un’identità socialista per salvaguardare la prospettiva di un’alternativa al capitalismo. Credo che per tutti voi fosse difficile pensare a un diverso mondo possibile senza la collaborazione del PCI, i lavoratori a cui vi rivolgevate in quel momento non avrebbero capito una rottura in seno al movimento operaio. Inoltre è difficile vedere nei particolari un quadro mentre si stanno combattendo battaglie molto concrete, alcune cose inevitabilmente si possono cogliere in un secondo momento. Lo hai detto anche tu: o da una parte, con tutte le contraddizioni del caso, o lontano dal socialismo, di fatto nel campo avverso. E poi insisto: la costruzione della democrazia e la tutela dei diritti dei lavoratori erano cose molto concrete, che poco avevano a che fare con l’URSS e gli obiettivi ultimi del socialismo.

FOA
E’ vero, però mi chiedo se avremmo potuto fare di più. Quando Krusciov denunciò i crimini di Stalin, Nenni, durante una riunione di vertice del partito, disse che eravamo stati presi in giro. Io mi alzai e dissi che questo poteva valere per la maggioranza dei socialisti ma non certo per tutti i dirigenti. Indicai me stesso, Lombardi, Pertini, Basso e lo stesso Nenni, spiegai che non era così importante conoscere tutti i particolari della realtà sovietica, bastava molto meno per capire che quel sistema non funzionava. Per anni, basti pensare a Nenni ma non solo, anche i vertici del PSI hanno pensato che l’URSS e il comunismo fossero riformabili.

RICCIARDI
Tuttavia, dopo il ’56, la situazione progressivamente mutò. I socialisti autonomisti vinsero nel partito e si costruì, sia pure a fatica, il centro-sinistra. Il PSI, rispetto ai comunisti, si ritagliò non solo uno suo spazio di manovra, modificando in concreto i rapporti con DC, PSDI e PRI, ma ridiscusse anche il valore della democrazia dando al sogno socialista un diverso contenuto politico. Si può parlare di una nuova identità del PSI?

FOA
Non lo so, non ne sono così sicuro. E’ vero che si aprì una nuova stagione ma, con quel quadro politico, c’era veramente uno spazio per la costruzione del socialismo? Quando facemmo la scissione e fondammo il PSIUP, compimmo senz’altro un grave errore perché finimmo per indebolire la prospettiva di un’alternativa, non per favorirla come volevamo. Da una parte lasciammo da solo Lombardi e cancellammo la possibilità di un cambio nella linea della segreteria (Santi o lo stesso Lombardi avrebbero forse potuto ottenere il consenso della sinistra e sostituire Nenni); dall’altra frenammo il rinnovamento ideologico-politico del PCI che, infatti, non voleva la scissione. Ma l’idea che la DC non potesse consentire al PSI di lavorare per affermare il socialismo per legge non era sbagliata, così come era vero che la gestione interna del partito non era proprio un esempio di democrazia. Io, non da solo, pensavo che il socialismo si dovesse rinnovare perché potesse sopravvivere il sogno di un’alternativa, non guardavo all’URSS come riferimento ma non potevo concepire un’alleanza con la DC.

RICCIARDI
Forse gli eventi del 1964 rappresentano un altro dei nodi centrali per riflettere sulla politica del PSI e sull’identità socialista.

FOA
E’ così, mi sono chiesto tante volte perché Nenni accettò di far nascere il II Governo Moro e, per quanto la paura del colpo di Stato possa essere stata una variabile importante, continuo a ritenere che Nenni non ci credesse fino in fondo e non pensasse solo alla solidità delle istituzioni democratiche. Le pressioni che giunsero dalla DC e dai poteri forti furono enormi, ma penso che Nenni abbia avuto anche altre buone ragioni per seguire Moro, senza trascurare un certo opportunismo politico. Se Nenni fosse uscito dal governo, Moro, con Segni consenziente, avrebbe potuto giocare la carta delle elezioni anticipate. Il PSI si sarebbe trovato in grande difficoltà innanzitutto perché rompere con la DC avrebbe significato dare ragione alla sinistra scissionista, sarebbe stato come dire che fare le riforme e realizzare una politica di sinistra era impossibile con il partito cattolico: in fondo era quello che sosteneva il PSIUP, al di là di quello che abbiamo detto sull’opportunità di fare la scissione. Il problema politico esisteva: accettare un ridimensionamento del programma ma, così facendo, non essere costretti a rivedere la scelta di fondo del centrosinistra rovesciando una linea portata avanti per anni, oppure insistere sull’attuazione delle tanto evocate riforme di struttura, come voleva Lombardi, e rompere con la DC, dando però implicitamente ragione alla sinistra socialista. La scelta della prima opzione mi riporta al problema dell’identità socialista: a metà degli anni Sessanta, anche prima dell’unificazione con il PSDI del ’66, esisteva una specificità del PSI nella ricerca del socialismo?

RICCIARDI Penso che, in realtà, nessuno avesse ben presente i caratteri del socialismo che sognava. Nel momento in cui, pur con tutte le incertezze e le contraddizioni che tu stesso hai affrontato, il modello sovietico veniva rifiutato e la socialdemocrazia veniva interpretata come una soluzione insufficiente, sia Nenni e De Martino, sia Lombardi, sia Basso, sia la sinistra sindacale in cui tu eri collocato cercava una strada. Si sapeva con chiarezza che cosa non era socialismo, ma forse non si capiva bene che cosa era e poteva essere il socialismo. Penso che molti di voi avessero coscienza dell’esistente, elaborassero analisi e avanzassero critiche estremamente lucide al sistema. Ma, al di là dell’URSS e del modello scandinavo, non esisteva qualcosa di concreto a cui ispirarsi. L’amore per la Cina verrà dopo e, comunque, si parlerà ancora di comunismo…

FOA
E’ una bella analisi, penso che tu abbia ragione. Noi cercavamo il socialismo ma in realtà non sapevamo bene cosa fosse anche se capivamo bene contro cosa lottare. Per quanto mi riguarda, credo che la dimensione di sindacalista mi avesse condotto su un terreno diverso dalla politica parlamentare in senso stretto. Le “spinte dal basso” erano, per me come per altri, importanti perché allargavano i confini dell’azione di partito e, in qualche modo, rappresentavano la democrazia diretta. Un modo diverso di interpretare la politica nella società, non solo “la stanza dei bottoni” evocata da Nenni. Solo in un secondo tempo, come ho detto in altre occasioni, mi sono accorto che la democrazia diretta è sì uno strumento fondamentale di crescita di una società ma funge soprattutto da stimolo per il buon funzionamento della democrazia rapprsentativa, non si può sostituire ad essa.

RICCIARDI
Dunque il socialismo come ricerca di un diverso mondo possibile – ritorna Lombardi – senza però poter chiudere il cerchio…

FOA
Forse è così, anche se queste istanze hanno portato anche a risultati concreti, dentro e fuori dalle fabbriche.

RICCIARDI
E comunque anche i socialisti meno “radicali” di te non sono riusciti a raggiungere l’obiettivo di costruire una valida alternativa al capitalismo. Hanno rafforzato la democrazia contribuendo all’attuazione, peraltro parziale, della Costituzione repubblicana ma forse, e torno al punto che hai posto, effettivamente non hanno affermato un’identità socialista veramente riconoscibile.

FOA
Mi viene in mente Craxi. Penso che Craxi abbia avuto il coraggio di dichiarare che il collettivismo era finito, che bisognava valorizzare l’individuo e rinnovare il socialismo attraverso il definitivo abbandono del leninismo e della prospettiva di un’alternativa al capitalismo. Proudhon era solo un pretesto, da un lato per distinguersi dai comunisti anche sul piano delle radici storiche e dall’altro per dire che bisognava fare i conti con l’economia di mercato, accettare la modernità senza inseguire chimere. Era un’intuizione giusta, poi però la politica che ne derivò non fu all’altezza delle basi di partenza.

RICCIARDI
Il dibattito su Craxi è in corso, secondo me prevalgono di gran lunga le ombre sulle luci. E’ vero che l’intuizione di cui hai parlato era giusta e che l’azione di Craxi fu coraggiosa ma, a proposito di identità socialista, non mi pare che possiamo ricordare quella stagione come una fase di vero rinnovamento del PSI. Non che Craxi sia stato l’unico responsabile della crisi del partito, credo anzi che certi problemi siano derivati da scelte compiute diversi anni prima della sua segreteria, tuttavia è con Craxi che il PSI crolla. Al di là di ciò che è emerso con Tangentopoli, il socialismo italiano degli anni Ottanta ha prodotto davvero una svolta storica positiva? Il collettivismo venne opportunamente abbandonato, ma in nome di che cosa? A me sembra che la riscoperta dell’individuo abbia prodotto soprattutto il trionfo dell’individualismo. Se fosse stato veramente sposato il modello socialdemocratico, sarebbe stato necessario innanzitutto risanare la politica e razionalizzare la spesa pubblica per favorire un vero Welfare State e non uno stato assistenziale basato sul clientelismo, un sistema che non ha rappresentato (e non rappresenta) il socialismo in alcuna variante, né la tanto evocata democrazia compiuta. Le riforme istituzionali furono agitate ma non furono realizzate, il modello elettorale venne modificato contro il parere di Craxi e la maggioranza del PSI. Il debito pubblico, dopo il 1983, salì alle stelle e la lotta all’inflazione, condotta con grande vigore, ottenne dei risultati senza in realtà scalfire i poteri forti e mettere in discussione le rendite. Non credo che bastino Sigonella, la battaglia per gli euromissili e un periodo di feeling con gli intellettuali, tutto sommato breve, per pensare a Craxi come a uno statista moderno e vincente che ha saputo ridare fiato al socialismo. La crescita elettorale del PSI ci fu, anche se non fu proprio travolgente, ma i consensi non giunsero da sinistra bensì dal centro. E’ vero che il PDS entrò nell’Internazionale Socialista anche perché i vertici del PSI lo vollero, ma dubito che si potesse pensare di rinnovare la sinistra prima entrando in rotta di collisione con il PCI di Berlinguer e la maggioranza della CGIL, poi scegliendo la destra democristiana come interlocutore di governo in barba a ogni prospettiva politica riformista. Sulla gestione interna del partito, basti pensare a Lombardi e al suo polemico abbandono della presidenza del partito nel 1980 a soli due mesi dall’elezione, o al documento degli intellettuali dell’ottobre 1979, che già parlava di “gestione personale” del partito da parte del segretario e che venne firmato, tra gli altri, da intellettuali del calibro di Bobbio, Amato, Ruffolo, Coen, Cafagna, Giugni e Guiducci, quasi tutti vicini a Giolitti. Forse, per quanto paradossale possa sembrare, fu proprio la morte di Nenni a salvare Craxi. Il partito si ricompattò nel ricordo del leader scomparso e, dopo l’accordo con Signorile, Craxi nel 1981 si alleò con Manca e De Michelis. Era molto abile e determinato. Anche tu, con Giolitti, Arfé e altri, nella seconda metà degli anni Ottanta pensasti a una ridefinizione del socialismo senza sposare in alcun modo la linea di Craxi. C’era un’altra strada che non fosse il ritorno al passato?

FOA
Non è facile rispondere, certamente quello che dici su Craxi e l’identità socialista degli anni Ottanta è difficile da negare anche perché c’era chi, senza volere un ritorno all’ortodossia marxista, chiedeva effettivamente una linea politica alternativa all’alleanza di ferro con la DC e un’altra gestione interna del partito. Mi ricordo bene dell’amarezza di Lombardi, profondamente deluso anche da una parte della sua corrente. Però anche il PCI di Berlinguer si dimostrò inadeguato a confrontarsi con i nuovi scenari nazionali e internazionali, non credi? L’eurocomunismo non fu un’altra illusione?

RICCIARDI Sì, Berlinguer forse non era un uomo molto moderno e credo che mai abbia smesso di essere comunista, anche dopo lo strappo con Mosca. Il fallimento dell’eurocomunismo mi pare un’altra prova della difficoltà, per non dire impossibilità, di trovare un’altra via tra sistema sovietico e socialdemocrazia. Però Berlinguer era amato da molta gente, non solo dai comunisti, perché, al di là degli errori politici e della rigidità che mostrava, aveva un’idea alta della politica. La “diversità”, su cui tanto insistette, poteva effettivamente essere una forzatura e urtare la sensibilità dei socialisti, ma la questione morale non era certo una sua invenzione propagandistica, era un problema enorme dell’Italia che, purtroppo, è rimasto tale e si presenta di continuo sotto varie forme. Ogni volta che il socialismo ha saputo incidere sulla realtà italiana, questo è avvenuto tenendo ben presente il valore dell’onestà materiale e intellettuale, gli esempi sarebbero tanti, a cominciare dall’età giolittiana. Senza questa tensione etica, anche accettando il compromesso che è parte integrante della politica, credo che ogni ridefinizione dell’identità socialista, anche per il futuro, sarebbe inconsistente. La governabilità può essere un valore, soprattutto nei momenti in cui le istituzioni democratiche appaiono indebolite, lo si è visto negli anni Sessanta e Settanta. Ma io credo che la politica abbia bisogno anche di altri valori.

FOA
Mi chiedo se Craxi avrebbe potuto rimanere fermo una legislatura dopo i quattro anni in cui aveva governato e, in un certo senso, “aspettare” i comunisti rinunciando al legame di ferro con la DC.

RICCIARDI Non penso che Craxi sia stato un uomo molto paziente da un punto di vista politico, era carismatico e intraprendente ma poco disposto ad aspettare e forse un po’ troppo innamorato di se stesso. E poi non era facile prevedere cosa sarebbe accaduto nel 1989, anche se i segnali non mancavano. Pensando al presente, ritieni che il socialismo, guardando in particolare all’Italia e alla nascita del Partito Democratico, abbia un futuro?

FOA

La distanza tra poveri e ricchi sembra essere aumentata, quindi la necessità di lottare contro l’ingiustizia sociale e per l’estensione dei diritti civili e politici è sentita in tutto il mondo, forse stanno cambiando le forme di lotta. Bisogna ripensare molte cose, ridiscutere i meccanismi di inclusione nella società di chi vive ai margini. Il richiamo al socialismo del secolo scorso può essere importante, ma non è sufficiente. Quanto all’Italia, ho il vantaggio di non fare più politica attiva da tempo e di non dover sempre prendere posizione su tutto quello che accade giornalmente. Faccio molti auguri al Partito Democratico, ma sono un po’ perplesso.

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