28.5.15

Essere ebrei in Italia (Cesare Cases)

La Sinagoga Grande a Mantova
Il brano che segue è parte del racconto che il grande germanista Cesare Cases (un ebreo molto poco ebreo) fece a puntate sul “manifesto” (non so dire se altrove ristampato) dei suoi rapporti con ebraismo, sionismo e antisemitismo. A me pare un piccolo capolavoro dell'arte memorialistica: senso storico, razionalismo illuministico e ironia ne sono gli ingredienti fondamentali. Lettura vivamente consigliata. (S.L.L.)
Cesare Cases nel 1995
Essere antisemiti è facile, ma ebrei? In comunità compatte e legate alla tradizione l'appartenenza naturale e irriflessa poteva essere, in prima istanza, un fatto ovvio. In una situazione di emancipazione e di atomismo sociale il raro ricorso alla tradizione era uno sforzo imposto dall'esterno e soggettivamente incomprensibile. Per chiarirlo a se stessi bisognava storicizzarlo, e con ciò stesso dissolverlo.
Da quando mio nonno era piovuto da Mantova a Milano, un secolo fa, in cerca di fortuna borghese, la fortuna gli aveva arriso, ma l'appartenenza comunitaria si era rifugiata in una pallida memoria di sinagoghe (o «scole») mantovane che già per mio padre non significava più nulla. Nell'ascendenza di mia nonna — cui mi sentivo spiritualmente più affine — c'era almeno un eroe, e un eroe può accendere la fantasia più che il ricordo di qualche «scola».
Questo eroe era il rabbino di Reggio Israele Carmi, che, andato giovanissimo come deputato del dipartimento del Crostolo al sinedrio rabbinico del 1806, convocato da Napoleone a Parigi per spezzare le resistenze della «nazione» ebraica e sottoporla alle leggi dello stato, dal matrimonio al servizio militare, fu l'unico che votò contro anche dopo che il grand'uomo, seccato dalle lungaggini degli ebrei, si recò personalmente nella sala, misurandola su e giù a gran passi, per porre loro un ultimatum, terrorizzandoli tutti con i suoi rat fulminei: tutti, fuorché il mio impavido antenato. Da ragazzo avevo letto un libretto commemorativo che narrava questo episodio, di cui trovai più tardi conferma in accenni delle grosse storie del popolo ebraico del Gràtz e del Dubnow.
Ma questo eroe che aveva sfidato le ire napoleonlche e cui potevo rifarmi, anche se un po' vecchiotto, per dare qualche senso e lustro al mio essere ebreo; questo personaggio che m'immaginavo minuto, fragile e tenace di fronte a Giove Tonante come la sua discendente, mia nonna, di fronte al voleri tirannici di suo marito, aveva poi ragione? In fondo non sapevo se optare per lui o per il suo antagonista, di cui i miei testi scolastici vantavano l'opera di distruzione del particolarismo e dell'arbitrio feudale, a giovamento tra l'altro proprio degli ebrei.
Nella mia testa confusa l'ebreo cozzava con il borghese, e il secondo era molto più saldo, anche perché la contraddizione si presentava per la prima volta. In quegli anni Benjamin, Bloch e Gershom Sholem andavano teorizzando l'incompatibilità di borghesia e spirito ebraico, ma io non ne sapevo nulla e del resto non li avrei capiti. Oggi che il riflusso delle speranze rivoluzionarie fa pensare che i particolarismi siano l'unico argine al potere dei monopoli, tutti mi invidierebbero un antenato che si oppose al grande livellatore. Io, invece, nutro ancora 1 miei dubbi. Così Ceronetti, Zolla, Calasso, che pur non essendo ebrei hanno studiato l'ebraico fin da piccoli per poter leggere
lo Zohar, non possono capire perché io non evadessi dalla borghesia nel misticismo ebraico. Invece, ahimè se c'era un filosofo ebreo che mi interessava era proprio il grande razionalista Maimonide.
La realtà è che, sconfitto il mio avo reazionario (o forse, adesso, per carità, rivoluzionario) e tramontata la comunità ebraica come fatto culturale, salvo che nell'ebraismo orientale cui erano ancora vicini gli scrittori tedeschi e mitteleuropei, essere ebrei significa semplicemente un modo di essere borghesi. Per aver rivelato questo segreto di Pulcinella, Natalia Ginzburg fu allontanata qualche anno fa dalla Stampa. In prima istanza il mysterium Judaicum era proprio questo, ed era già abbastanza difficile da capire per un bambino; in seconda istanza esso consisteva nel vago timore di non poter mal contare interamente su questa appartenenza, poiché al di là di Lambrugo c'era qualche Longone al Segrino e al di là ancora una caduta brusca, il trauma delle persecuzioni, dimenticate ma non scomparse nel subconscio.
Un senso di provvisorietà e di insoddisfazione era quindi insito in quella coscienza borghese senza bisogno di disseppellire la Cabala e di condannare il mondo in nome del trascendente. La comunità scomparsa era ridotta al culto della famiglia e alla feroce ascesi inframondana, per dirla con Max Weber, che esso comportava e di cui mio padre era un interprete radicale, mentre nell'estroversione e nella vitalità anche un po' volgare di mio nonno echeggiava, oltre all'arrivismo del pioniere borghese, un resto delle gioie sabbatiche delle «scole» di provincia. La chiusura nel privato conferiva alla società la forma del male necessario e il più possibile “vitando”, ma il suo fantasma giganteggiava nella mente con la forza del represso, determinando quella tendenza a interpretare tutto nella dimensione sociale su cui ha insistito Sartre. Tuttavia la società penetrava nel sacrario familiare nella sua veste più astratta e inumana, il denaro, il cui culto non si identificava con l'avarizia tradizionalmente attribuita agli ebrei — e che forse sarà esistita fino a Shylock, finché essi erano gli unici rappresentanti dell'economia monetaria — ma aveva piuttosto carattere di esorcizzazione della società stessa.
Anni fa Sebastiano Tlmpanaro pubblicò un taccuino di viaggio di Graziadio Isaia A scoli, scritto sul retro di un libro delle spese in cui il grande linguista goriziano segnava ogni minimo esborso, e lo riconobbi un vecchio conoscente, il libro nero su cui la mia nonna ogni sera annotava le spese, arrovellandosi se le era sfuggito un centesimo. Nell'ascesi protestante questo poteva servire a confermare il borghese nella coscienza del successo e quindi della predestinazione; in quella ebraica serviva assai più a soddisfare il Moloch del mondo in cui si doveva vivere ma da cui non si era mai abbastanza al sicuro, sicché assolto il rito e pagato il debito si poteva tornare alla religione familiare, l'unica in cui si era rifugiato il Dio degli ebrei.
Nulla di tutto questo che non fosse fondato sull'assise della società capitalistica, ma mentre presso i cattolici che ci circondavano l'istituzionalizzazione del divario tra essere e parere, tra norme e istinti, sopiva le contraddizioni, esse premevano insopportabilmente nella vita dell'ebreo, schiacciato tra l'angustia e l'immobilità di una separatezza spacciata per felicità e l'irraggiungibilità del veri desideri umani.
A Lambrugo passavo ore davanti al cancello, nell'appiccicoso caldo pomeridiano, a leggere tra l'altro certe lunghe e noiose biografie romanzate del Savoia. Ce n'era una che mi piaceva perché l'eroe (chi era? Emanuele Filiberto?) aveva scelto come motto J'atens mon astre. Anch'io attendevo il mio astro, e che altro potevo fare in quella calda solitudine? Ma intanto davo un'occhiata al cancello per vedere se per caso arrivassero delle suore questuanti, perché avevo precise istruzioni di dar loro due lire. Gli altri — mi aveva spiegato mio nonno — ne davano una sola, ma noi ne dovevamo dare due perché altrimenti si sarebbe detto che eravamo ebrei.

"il manifesto", 3 agosto 1982

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