5.5.15

Gli intellettuali italiani e la Grande Guerra (Romano Luperini)

Dal sito “La letteratura e noi” riprendo, in questo centenario del “maggio radioso”, un intervento di Romano Luperini, letto al convegno Riflessi letterari della Grande Guerra, tenutosi a Giovinazzo, Bari, nel gennaio 2015. (S.L.L.)



Giovanni Papini
Una nuova generazione di intellettuali
Il sostantivo “intellettuali”, diffusosi in Francia alla fine dell’Ottocento in seguito all’affaire Dreyfus, compare in Italia qualche anno dopo ed è certificato per la prima volta da Alfredo Panzini nel suo Dizionario moderno del 1905. Secondo Panzini, «indica coloro che vanno distinti per l’uso e raffinatezza di cultura», talora anche in senso ironico. Pochi anni dopo, caduto ogni sospetto di ironia, il termine si presterà a un uso rigorosamente sociologico diventando denominazione di una «classe», come lo definisce più volte Croce, o piuttosto di uno «strato sociale», come preferisce chiamarlo Gramsci. La comparsa della parola coincide non casualmente con la rilevanza di un fenomeno sociale.
Già nell’età giolittiana, comunque, il termine definisce non solo pochi individui dotati di una cultura superiore ma in generale gli addetti alle professioni intellettuali, la «classe dei colti» cui si rivolge la principale rivista di quegli anni, «La Voce». E si capisce: la nascita in Italia di uno stato moderno determina un notevolissimo sviluppo non solo dell’industria, del ceto imprenditoriale e della classe operaia, ma della burocrazia statale e impiegatizia e nel lavoro culturale, negli uffici, nelle scuole, nei servizi, nel giornalismo, nelle case editrici, nelle sceneggiature della nascente cinematografia e ben presto anche alla radio. La piccola borghesia si allarga oltre misura, diventando rapidamente un nuovo strato sociale di massa. Anche la maggior parte dei letterati e degli scrittori proviene ormai da questo strato e non più dalla nobiltà o da une élite aristocratico-borgese. Gli intellettuali cessano insomma di vivere di rendita o di essere dei produttori indipendenti di reddito per divenire dei salariati. La maggior parte di essi fa l’insegnante, l’impiegato o il giornalista, e solo meno di un terzo riesce a vivere attraverso i diritti d’autore e i guadagni delle consulenze editoriali, delle traduzioni e soprattutto (ci informa Renato Serra in un libro uscito nel 1914, Le lettere) delle collaborazioni giornalistiche grazie agli elzeviri o ai brevi racconti pubblicati sulle terze pagine dei quotidiani.
Questa piccola borghesia è inquieta e tendenzialmente sovversiva, perché in cerca di uno spazio sociale e di un ruolo protagonistico che invece tende sempre più a ridursi. La soffoca l’alleanza giolittiana fra grande industria protezionistica e aristocrazia operaia del nord, mentre la sua condizione intermedia la condanna a un continuo pendolarismo fra borghesia e proletariato, fra un’esigenza di potere e di affermazione e i processi di proletarizzazione che invece la attraversano. I nuovi scrittori dell’età giolittiana si distinguono perciò nettamente dagli intellettuali della generazione precedente, quella di Carducci, Pascoli, d’Annunzio, Pirandello, Svevo, formatisi, culturalmente e politicamente, all’interno di una società ancora patrizio-borghese. Ad affermarsi ora è la nuova «generazione degli anni ottanta», quella dei «giovani» cui espressamente si rivolgono, in polemica contro i «vecchi», non solo i futuristi, ma le principali riviste del primo Novecento.
Ecco dunque giustificato l’arco del discorso qui proposto e motivata la ragione di alcune esclusioni. Non parlerò qui di d’Annunzio, Pirandello, Svevo, Croce, De Roberto, tutti intellettuali, nati negli anni cinquanta e sessanta dell’Ottocento, che pure sulla Grande Guerra hanno scritto, pubblicando racconti, poesie, romanzi, saggi, articoli. Mi limiterò invece a poche ma esemplari parabole di alcuni fra i principali collaboratori della maggiore rivista d’anteguerra, «La Voce», fondata da Prezzolini come settimanale politico-culturale nel 1908 con l’intenzione di dare “voce” appunto alla nuova generazione di intellettuali perché potesse affermarsi come classe dirigente. Ed è già significativo che questa rivista si trasformi poi, alla fine del 1914, a dimostrazione del fallimento di tale progetto e a guerra europea ormai in corso, nella «Voce» bianca diretta da Giuseppe De Robertis, dedita ormai a un impegno esclusivamente letterario. Evoluzione, che fa pendant con quella opposta di «Lacerba» che negli stessi anni da rivista artistica diventa invece rivista politica dell’interventismo militante. Due soluzioni diverse che rivelano però lo stesso impasse: la chiusura di ogni autonomo spazio di mediazione politico-culturale, a vantaggio della pura propaganda politica in un caso e della pura letteratura nell’altro.
Aldo Palazzeschi
I vociani e la guerra
La prima «Voce», in fondo più salveminiana che prezzoliniana, si impegnò in un antigiolittismo sostanzialmente di stampo liberale e riformistico. Ma già la guerra di Libia, inizialmente contrastata, poi sostanzialmente accettata, segna una prima svolta, caratterizzata dalla fuoriuscita di Salvemini che dà vita a «L’unità». Da questo momento la ricerca di una funzione intellettuale nella nuova società di massa diventa sempre più confusa e convulsa, mentre comincia a prevalere la tendenza al sovversivismo piccolo-borghese più estremo. Ne diventa espressione soprattutto Giovanni Papini che, dopo avere svolto di fatto un ruolo di direzione della «Voce» nel corso del 1912, fonda nel ’13 la rivista «Lacerba». Papini declina il sovversivismo in forme ibride che mescolano avanguardismo di marca futurista e nostalgie invece provinciali che lo inducono al assumere un ruolo ideologico e pedagogico e pose vagamente dannunziane da poeta-vate.
Fra la guerra di Libia e lo scoppio del grande conflitto mondiale, venuto meno il riformismo della prima «Voce», la borghesia industriale andava scegliendo la strada degli armamenti e della preparazione alla guerra e gli spazi si andavano rapidamente chiudendo. Se il tentativo vociano di dare vita a una società civile autonoma aveva dovuto registrare il proprio fallimento, la volontà protagonistica di Papini di fatto era costretta a esercitarsi. nel vuoto sociale che si era ormai determinato fra classi subalterne e classe dirigente. Così la tradizionale aspirazione al potere da parte della cultura rovescia la propria frustrazione in atteggiamenti scandalistici e provocatori, che si esprimono nella proposta papiniana del «teppismo» da parte di un intellettuale, che si autorappresenta come «incendiario», solitario «scorridore», isolato «iconoclasta» (nel Discorso di Roma, 1913). Lo scoppio della guerra induce «Lacerba» a trasformarsi da organo artistico a rivista dell’ interventismo nazionalista e imperialista (vi si sottrae solo, in nome di un cauto neutralismo, un altro lacerbiano, Palazzeschi, l’unico della sua generazione a restare estraneo al bellicismo dominante). Nell’articolo Amiamo la guerrra!, pubblicato all’indomani dell’inizio del conflitto, l’ideologia malthusiana viene assunta da Papini come vaga copertura della propaganda futurista della guerra «sola igiene del mondo» e cinicamente esaltata in nome di un virilismo allora di moda (anche in seguito alla influenza di un altro pensatore caro ai vociani, Weininger, allora da poco tradotto anche in italiano):
Finalmente è arrivato il giorno dell’ira dopo i lunghi crepuscoli della paura. Finalmente stanno pagando la decima dell’anime per la ripulitura della terra.
Ci voleva, alla fine, un caldo bagno di sangue nero dopo tanti umidicci e tiepidumi di latte materno e di lacrime fraterne. Ci voleva una bella innaffiatura di sangue […]
È finita la siesta della vigliaccheria, della diplomazia, della ipocrisia e della pacioseria. I fratelli sono sempre buoni ad ammazzare i fratelli; i civili son pronti a tornar selvaggi; gli uomini non rinnegano le madri belve. […]
Siamo troppi. La guerra è un’operazione maltusiana. Fa il vuoto perché si respiri meglio. […]
Amiamo la guerra ed assaporiamola da buongustai finché dura. La guerra è spaventosa – e appunto perché spaventosa […] dobbiamo amarla con tutto il nostro cuore di maschi.
Questo appello eccitato e dionisiaco alla ferinità naturale dell’uomo (vi risuona l’eco di un Nietzsche magari letto attraverso d’Annunzio) è una rinuncia radicale ai valori della cultura che pure dovevano distinguere la “classe dei colti”. Anche se con toni molto diversi, e con ben altra tensione esistenziale e morale, tale rinuncia significativamente caratterizza, come vedremo, la vicenda di molti altri intellettuali vociani.
Scipio Slataper
Scipio Slataper
Più interessante seguire l’evoluzione di due “moralisti” interpreti dell’anima liberaldemocratica e riformista della prima «Voce», il triestino Scipio Slataper e il valdese Piero Jahier, genovese di nascita, ma di madre fiorentina. Entrambi svolsero di fatto, in parte contemporaneamente, in parte invece in tempi diversi, la funzione pratica di redattori della rivista, collaborando con Prezzolini o a volte sostituendosi a lui.
Quando si chiude la fase riformistica della prima «Voce”, e dunque già nel corso del 1912, Slataper si allontana progressivamente dalla rivista, non condividendo né la prudenza di Prezzolini, troppo incline all’ordine crociano, né l’indirizzo prevalentemente letterario e artistico allora promosso da Papini. Slataper aveva sempre pensato alla «Voce» come a uno strumento di «preparazione» (termine spesso ricorrente nei suoi scritti) insieme, e indissolubilmente, etico-politica e artistica (d’altronde la sua autobiografia lirica, Il mio Carso, termina con questa significativa dichiarazione che unisce tensione sentimentale e morale: «Noi vogliamo amare e lavorare»). «Preparazione» doveva significare formazione di un ceto intellettuale capace di direzione politica complessiva perché costituitosi attraverso un continuo problematicismo culturale e la padronanza tecnica delle massime questioni nazionali poste dallo sviluppo della modernità. Ora, nelle diverse soluzioni prospettate da Prezzolini (sino a quella finale che farà della «Voce” un organo chiuso e persino settario dell’«idealismo militante») e da Papini (che nel 1913 aderisce di fatto a un’avanguardia artistica), Slataper vedeva svanire questa esigenza di «vivificazione» (altro termine a lui caro). Non per questo, tuttavia, lasciata «La Voce», egli rinuncia al proprio progetto, anzi mira ad articolarlo in termini più concreti e in una prospettiva politico-culturale più definita, calandolo nella realtà storica ed economica di Trieste. Pensa infatti a una nuova rivista, «Trieste», appunto, e a una nuova funzione sociale dell’intellettuale, capace di collegarsi organicamente ai centri commerciali più moderni della città. Il suo, avrebbe detto Gramsci, è il progetto di un intellettuale organico a una borghesia attiva in campo economico, politicamente liberale e progressiva. Slataper non immagina solo una rivista, un centro bibliotecario e una nuova università, in grado di rinnovare e di sviluppare l’antica scuola cittadina Revoltella, ma avanza un articolato progetto politico, che allora era condiviso anche dai socialisti triestini. Da un lato, sul primo versante, propone la fondazione di una università commerciale che superi la tradizionale estraneità fra il mondo della cultura e quello degli affari: una università che egli vorrebbe significativamente priva di una facoltà di lettere, ma fondata sullo studio storico delle civiltà moderne e dei popoli con cui Trieste era in rapporti commerciali e dunque sullo studio delle lingue, del costume, delle varie costituzioni politiche. Dall’altro, sul secondo versante, Slataper si batte per un irredentismo culturale e non politico: la Trieste da lui prospettata avrebbe dovuto difendere ed espandere la propria italianità, e magari imporre la propria egemonia, attraverso una libera concorrenza con le altre culture nell’ambito di «un’Austria del popoli», di una libera confederazione concepita in termini mazziniani e liberaldemocratici. Ne risulta escluso per il momento un impegno irredentistico volto a modificare i confini. Questo «irredentismo» esclusivamente culturale Slataper lo chiama significativamente «vociano». Particolarmente interessante è poi il drastico rifiuto delle posizioni nazionaliste e, invece, il proposito di rispettare i diritti dei vari popoli, a partire da quello slavo e dalle popolazioni della Dalmazia di cui viene riconosciuta l’esigenza di una autonomia linguistica e civile all’interno della auspicata federazione contro le tendenze imperialistiche anche di parte italiana. Tra i «vociani» Slataper è l’unico in quegli anni, insieme ad altri due triestini, i fratelli Stuparich, che si consideravano d’altronde suoi allievi, ad avere l’idea di un’Europa dei popoli, capace di convivere in modo pacifico e democratico (Jahier ci arriverà più tardi, subito dopo la fine della guerra, sull’onda dell’utopia wilsoniana).
Slataper, proponendo una fusione fra la cultura «fiorentina» e lo spirito commerciale triestino, indica agli intellettuali un compito d’avanguardia borghese moderna in una cornice politica che tuttavia era quanto mai irreale. L’«Austria dei popoli» è un sogno che svanisce con l’uccisione a Sarajevo dell’arciduca Francesco Ferdinanndo e con l’ultimatum austriaco alla Serbia. È la guerra. Il «realismo politico» come lo chiama Slataper, lo induce ad accettare il fatto compiuto e a sposare la causa dell’irredentismo politico e dell’interventismo. Anzi Slataper giunge, in quei mesi di attesa, a rinnegare le precedenti posizioni federative e democratico-mazziniane e a sostenere l’annessione all’Italia non solo di Trieste, ma della Dalmazia di cui andrebbe duramente repressa l’aspirazione alla autonomia politica. Naturalmente l’adesione all’interventismo non è giustificata nei termini del dominante nazionalismo: Slataper parla di guerra difensiva, delle necessità dell’indipendenza nazionale e della conclusione del processo risorgimentale: «La nostra non sarà una guerra né sentimentale né imperialistica […]: sarà una guerra per difenderci», scrive. E tuttavia si assiste a una sostanziale rinuncia non solo ai principi democratici e mazziniani sino allora professati, ma soprattutto a quello spirito ribelle, non privo di venature anarchiche, che aveva animato la sua prima produzione, culminando nella figura del barbaro Alboino in cui si identifica il protagonista di Il mio Carso. Gli scritti politici e le lettere fra l’agosto del 1914 e il dicembre del 1915, quando Slataper cade sul Podgora in un’azione di pattuglia, sono caratterizzati da una accettazione dell’ordine, del codice (era la «conversione al codice» teorizzata da un altro moralista vociano, Boine), della disciplina. E quando torna a rivolgersi agli intellettuali è solo per constatarne ora il cupio dissolvi e la necessità della rassegnazione. Mi riferisco soprattutto a un articolo pensato per «Il resto del Carlino» e significativamente intitolato Prepariamoci alla guerra. Conviene citare:
Questa guerra, la guerra che dovrebbe essere […]la grande suscitatrice di passioni, costringe tutti dopo due o tre mesi a una quieta e quasi opaca rassegnazione spirituale. C’è un desiderio, curioso: d’essere imbrancati in qualche trincea, nel fango e nel freddo, e di morire. Un cupio dissolvi. Un sentimento quasi mistico […]. È l’eroismo questo?
Bisognerebbe «preparare il paese», aggiunge, ma come? Facendo propaganda alla guerra, cercando di convincere l’opinione pubblica? Ed ecco la disarmante conclusione:
È un’illusione credere che, in regime di neutralità, voi possiate convincere operaio e borghese a voler la guerra, mentre spinge l‘aratro e si corica, come se nulla fosse, o la gente avesse tempo di pensare a ciò che verrà. Se soltanto voi, intelligenza, per conto vostro, onestamente e astrattamente, senza faticoso e correttore contatto di popolo, siete riusciti a convincervi e quasi ormai avete l’istinto delle necessità vitali della nazione nel mondo, voi non potete pretendere e, soprattutto, non dovete illudervi di applicare oggi all’anima del lontano popolo le vostre conclusioni. […] Non c’è propaganda che persuada un popolo alla guerra. La guerra è un’imposizione e un’eroica rassegnazione. La guerra è un comando. Il comando verrà. E la nazione sarà un esercito.
L’unico eroismo, dunque, è quello della rassegnazione. Tanto resta a chi si era proclamato il «vivificatore» della propria generazione e si era proposto il compito della sua «preparazione» culturale e politica. Alla fine una sola proposta può avanzare: fare «piccole cose», per esempio organizzare associazioni di studenti medi che sovrintendano ai servizi pubblici in caso di mobilitazione generale. Sia l’autodistruzione del cupio dissolvi, sia la subordinazione e l’accettazione rassegnata della guerra come «imposizione» e «comando», sia la politica delle «piccole cose» concrete non sono che manifestazioni della rinuncia dell’intellettuale alla propria identità.
Piero Jahier
Piero Jahier
Jahier concepisce la funzione intellettuale essenzialmente come protesta antiborghese da un lato ed educazione e direzione delle masse diseredate dall’altro. A tenere unite le due posizioni è il populismo ideologico, che può esprimersi tanto con la polemica antiborghese quanto con l’adesione a un idealizzato mondo di montanari e contadini.
Anche in Jahier convivono una spinta alla ribellione anarchica (che artisticamente si manifesta soprattutto nelle Resultanze in merito alla vita e al carattere di Gino Bianchi) e un bisogno evangelico di disciplina e di integrazione, rivolta, nel suo caso, all’universo contadino. Benché queste esigenze esprimano aspetti ideologicamente diversi e per certi aspetti opposti, egli le convoglia entrambe nel proprio iniziale interventismo, quello dei nove mesi di neutralità italiana. Così da un lato rivendica i diritti dell’individualismo contro l’autoritarismo germanico, il gusto personale dell’esistenza, spontaneo e anarchico, degli italiani contro lo spirito di caserma e la piatta uniformità di vita del popolo austriaco: «Avanti, Italia, sempre tempo di libertà mai di caserma!»1: liberalismo e individualismo, insomma, contro dogmatismo e massificazione burocratica. Dall’altro il conflitto fra estro latino e ordine autoritario germanico viene presentato anche come scontro di civiltà fra «Naturvölker» e «Volkulturvölker», fra popoli contadini contro popoli «meccanici» e industrializzati. Dopo l’entrata dell’Italia in guerra, Jahier, ufficiale degli alpini, si trova a vivere a diretto contatto con fanti contadini e montanari e comincia a rendersi contro della distanza fra gli entusiasmi degli intellettuali e la rassegnazione degli soldati che non sanno perché vengono mandati a morire. A differenza di Slataper, però, non vuole che la guerra sia imposta al popolo e intenderebbe persuaderlo a una concezione democratica del conflitto capace di far prevalere gli interessi materiali e ideali dei più poveri sia a livello nazionale sia nei rapporti fra gli stati. È questo il momento di Con me e con gli alpini, in cui Jahier mette in scena, alternando prose liriche e versi fortemente prosastici, questo complesso rapporto di educazione ma anche di autoeducazione che si svolge fra intellettuale e popolo. Come Salvemini, anche Jahier tra l’altro si troverà a svolgere nell’esercito una funzione ideologica precisa dato che farà parte del servizio “P” (Propaganda) e per questo dopo Caporetto, come vedremo, dirigerà un giornale destinato a rincuorare e indirizzare la truppa; e tuttavia il suo atteggiamento non è certo riducibile a questo intento strumentale. Anzi Con me e con gli alpini trova il suo motivo conduttore, la sua interna coerenza di svolgimento, proprio in una continua dialettica fra una volontà astrattamente didattica volta a rendere accessibile ai soldati un apriori ideologico a loro estraneo e l’esigenza dello scrittore di confrontarsi realmente con loro e di imparare da loro una lezione di pazienza, di rassegnazione, di fraterna solidarietà che a quell’a priori invece radicalmente si oppone. Così, nonostante l’esaltazione dell’esercito e l’ingenua idealizzazione dell’etica montanara, nel libro sono continuamente presenti la polemica contro gli ufficiali, che Jahier vede lontani dai fanti perché divisi da una distanza di classe, e contro la disumanità del militarismo e una esigenza fortissima di eguaglianza e di giustizia fra gli uomini. Quando Jahier inizia una delle sue prose con l’avversativa «Ma», è evidente che intende rovesciare un luogo comune diffuso: «Ma questa guerra non dire neanche che è una lezione. – Muoiono i migliori, muoiono i soli che potessero approfittare». E poi:
Domanda angosciosa che torna quando vi guardo e voi non potete sapere: Perché alcuni son chiamati a lavorare e a guadagnare sulla guerra, e altri a morire? Morire non ha equivalente di sacrificio; morire è un fatto assoluto. – Se la guerra ha un valore morale: rieducare alla salute, alla mansuetudine, alla giustizia, attraverso il passaggio nella pena della privazione e distruzione, perché più di tutti debbon portarne il peso questi che erano nella privazione e nella mansuetudine, e non desideravan più che la salute?
In Jahier è in atto quel «logorio delle motivazioni originarie» della guerra di cui ha parlato Isnenghi e che è riscontrabile anche in altri autori (fra tutti, soprattutto Lussu, che scrive però Un anno sull’altipiano vent’anni dopo). La revisione critica fu però bloccata sia dalla catastrofe di Caporetto e dalla necessità della difesa nazionale, sia dalle teorie wilsoniane, che sembravano rilanciare l’idea di una possibile «giustizia fra i popoli» nell’assetto della futura Società delle nazioni e di una corrispondente «giustizia sociale» al loro interno. È allora il momento del giornale di trincea «L’Astico» che Jahier dirige nell’ultimo anno del conflitto. La guerra contro l’Austria e la Germania vi viene presentata ormai come «guerra redentrice» contro i «popoli sfruttatori» necessaria per aprire un’età nuovo di pace e di giustizia. Il passo successivo, a guerra finita, fu l’avventura giornalistica di «Il nuovo contadino», rivolto al mondo agrario con un duplice scopo: costringere il governo a mantenere le promesse fatte ai fanti contadini negli ultimi mesi di guerra e vigilare che ciò potesse accadere senza scontri di classe, nell’ambito di una politica interclassista di collaborazione. Questo secondo compito si rivelerà irrealizzabile: in quel 1919 in cui lo scontro sociale si era fatto durissimo. Non era più tempo di pacificazione, e Jahier è costretto a chiudere il suo giornale, dando ragione, nel suo ultimo scritto, a un contadino socialista con cui aveva sino allora dialogato e schierandosi significativamente dalla sua parte nel conflitto di classe che si era aperto.
Emilio Lussu
Anche in questo caso la realtà dei fatti si incarica di logorare prima e di annientare poi le istanze di mediazione ideologica che l’intellettuale Jahier aveva professato e cercato di tradurre nella pratica. Il successivo ventennale silenzio dello scrittore sarà un riconoscimento di questa sostanziale sconfitta.
Renato Serra
Renato Serra
Renato Serra presenta un profilo assolutamente diverso rispetto ai casi sinora considerati. Collaborò sì alla «Voce» prezzoliniana, ma senza aderirvi mai veramente, mentre sarà assai vicino a De Robertis e alla «Voce» bianca. E infatti ostentò sempre una certa insofferenza nei confronti dell’engagement dei vociani e al loro intento di unire politica e cultura. Vissuto a Cesena, dove era nato, lontano dai centri del potere politico e culturale, amò coltivare per sé una immagine di umanista provinciale, di lettore «disinteressato» di poesia (come dirà di sé), di appartato uomo di lettere che poteva dichiararsi ancora ammiratore e seguace di Carducci. Per questo poté sembrare ai vociani un «conservatore», come lo chiamò Boine. Che però subito si affretta a correggersi con la formula «moderno conservatore»6. «Moderno»: perché Serra non si rifugia in una difesa del passato ma vive drammaticamente, come gli altri vociani, la crisi dei vecchi valori e della stessa funzione umanistica. Ed è la guerra, di nuovo, a far precipitare questa crisi, a fargli avvertire l’insufficienza stessa della letteratura e della religione umanistica delle lettere sino allora affermata, e a indurlo a un interventismo lontanissimo dalle ideologie democratiche come da quelle nazionaliste e anzi estraneo alle posizioni culturali allora prevalenti. Espressione di questa crisi è l’ Esame di coscienza di un letterato, scritto da Serra fra il 20 e il 25 marzo 1915, a due mesi dall’entrata dell’Italia in guerra e a quattro dalla sua morte in trincea sul Podgora (anche lui, come Slataper).
Nell’Esame di coscienza di un letterato (e si noti l’ostentazione polemica della qualifica di «letterato», non molto ben vista in ambito vociano) egli si affretta subito a condividere l’assunto di De Robertis per cui il valore della letteratura non era affatto da abbandonare in tempo di guerra (e anzi, da buon crociano, De Robertis aggiungeva che della guerra era giusto si occupassero il governo e il ceto politico, non i letterati). Ma, pur sostenendo anche lui che dedicarsi alla letteratura sarebbe stata comunque una delle poche cose degne che si potessero allora fare, la sua scelta è poi sostanzialmente diversa. Da otto mesi, dice, da quando cioè ha avuto inizio la neutralità italiana, la letteratura a lui non interessa più, anzi «gli fa schifo». Il «letterato» dichiara dunque che il suo primum non è più la letteratura. Bisogna partire da qui, da questa bruciante contraddizione, per capire la portata di uno scritto per molti aspetti straordinario sia per ciò che lo distingue e anzi nettamente lo differenzia dalle posizione degli altri vociani, sia per ciò che invece a loro lo unisce.
L’Esame si divide nettamente in due parti attraverso uno spazio tipografico lasciato in bianco a segnare la distinzione. La prima parte comincia e finisce evocando la letteratura, sostenendo dapprima il diritto di farla malgrado la guerra e, poi, introducendo il cauto proposito (preceduto infatti da un «forse») di tornare a essa dopo quegli otto mesi di intervallo: «il meglio forse è di tornare […] proprio a quella letteratura che io ho sempre considerata la cosa più estrinseca e meno compromettente». Ma il lettore, avvertito anche da questi due ultimi aggettivi, farà bene a dubitarne. Il proposito è insieme vero e non vero, come vedremo. E d’altronde in tutto l’Esame, che pure avanza alla fine una tesi molto netta e precisa, Serra gioca di continuo con il lettore, avanzando ipotesi, correggendole, ritirandole, ritornando spesso sugli stessi argomenti da angolature diverse, ed esibendo non poche ironiche e autoironiche cautele.
Il proposito di tornare «forse» alla letteratura è giustificato dal fatto che, secondo Serra, tutte le motivazioni «intellettuali e universali», anzi «tutte le ragioni» portate a favore dell’interventismo gli paiono ora inconsistenti. In realtà la guerra a suo avviso non cambierà nulla, né in campo letterario, né in campo spirituale, e neppure in quello materiale. La guerra non migliora la letteratura (anzi, se la cambia, è solo perché incoraggia la sua trasformazione in retorica) e non rende migliori i popoli. Sì, ci saranno cambiamenti di confini e di tendenze politiche, ma lo «spirito della nostra civiltà» resterà invariato. I tempi in cui le razze le nazioni i popoli modificano la loro identità sono lentissimi. Nella sostanza partecipare alla guerra o restarne fuori non cambierà il destino dell’Italia. Se la classe dirigente manca oggi l’occasione della guerra, ne capiteranno altre domani. L’ira e il disprezzo contro Giolitti, contro i preti e contro i socialisti sono perciò esagerati e soprattutto inutili. La razza è fondata su una «animalità istintiva e primordiale» (e più avanti si parlerà di «animalità sorda e irriducibile») che procede attraverso impercettibili mutazioni che si misurano sui secoli e sui millenni. Il popolo viene ricondotto al «branco», il corso della civiltà a quello della natura. Evidenti sono qui le tracce di una formazione ancora positivistica.
Contro gli interventisti di destra e di sinistra Serra è categorico: la guerra «non migliora, non redime, non cancella; per sé sola. Non fa miracoli. Non paga i debiti, non lava i peccati». Peggio ancora: la guerra è comunque una «perdita cieca»:
Non c’è bene che paghi la lagrima pianta invano, il lamento del ferito che è rimasto solo, il dolore del tormentato di cui nessuno ha avuto notizia, il sangue e lo strazio umano che non ha servito a niente. Il bene degli altri, di quelli che restano, non compensa il male. […] [La guerra] è un perdita cieca, un dolore, uno sperpero, una distruzione enorme e inutile.
Sono queste, forse, le parole più chiare e più dure che siano state scritte in quei mesi contro l’interventismo.
Ebbene, proprio perché, alla fine della prima parte del suo scritto, Serra ha esaminato e distrutto, uno per uno, tutti i «pretesti», come li chiama, in cui anche lui si era rifugiato in quegli otto mesi, ora parrebbe propenso a ritornare forse alla letteratura. In realtà non è esattamente così. Eliminati quei pretesti, all’inizio della parte seconda dell’Esame Serra può sentirsi finalmente libero: «libero e vuoto», e anche «vuoto e nuovo». In cosa consiste questa nuova libertà? Forse nel dedicarsi liberamente alla letteratura? La libertà di cui Serra parla è un’altra: quella di vivere al di fuori delle ideologie e di lasciarsi travolgere dalla «irresistibile onda della vita», di cui fanno parte gli elementi della natura (l’erba, la polvere, il vento, il verde delle prode) e dell’umanità (le case, le strade, gli altri uomini). È la libertà di vivere pienamente la passione per la vita, colta nei suoi momenti più fugaci, negli attimi, nelle occasioni che essa presenta. Siamo in presenza qui di un grande tema del modernismo europeo, anche se declinato in termini che possono apparire provinciali. Una concezione attimale dell’esistenza viene piegata a motivare una scelta che dovrebbe essere altrimenti complessa. Perché per Serra cogliere il momento significa vivere «l’ora di passione» della guerra. La guerra è un’opportunità di vita, e va colta se non si vuole «invecchiare falliti». «Fra milioni di vite c’era un minuto per noi» («noi, quelli della mia generazione», specifica), «e non l’avremo vissuto». Non si tratta beninteso, di una scelta etica. «Non è un sacrificio indispensabile», precisa infatti. Si tratta di una scelta esistenziale. Non è una «fede», dichiara ancora, ma una «voglia» («Si ha voglia di camminare, di andare). Di fronte a questa spinta puramente emotiva, qualsiasi precedente ragionamento si rivela inessenziale, compreso evidentemente quello che aveva giudicato la guerra una «perdita cieca».
La «voglia di andare insieme agli altri» nasce dall’esigenza di ritrovare «il contatto col mondo e con gli altri uomini». L’aspetto morale, che induce Serra a chiamare «fratelli» coloro che marciano con lui, è indubbiamente presente, ma come risucchiato all’interno di quello esistenziale ed emotivo. Osserva Guido Guglielmi che sembra esserci in Serra, come in Ungaretti, il richiamo a una comune umanità elementare, «a una condizione di unanimità». Ma è una condizione che si può raggiungere non per via ideologica ma solo grazie a un empito. Questo appello alla fratellanza, pur declinato in questo caso in chiave esistenziale, è presente anche nei “moralisti” vociani, come Slataper o Jahier. E soprattutto anche in loro è dato riscontrare questa esigenza – individuale e insieme collettiva perché riguarda tutta una generazione – di un momento decisivo da non perdere. Basti citare il caso di Jahier per cui, nella poesia appunto intitolata In questo momento partecipare alla guerra è l’ultima speranza per salvare la vita: «Ti scade l’ultima speranza di essere uomo in questo momento».
Questa rinuncia alla mediazione ideologica può esprimersi solo nell’immediatezza attimale. «Non mi occorrono altre assicurazioni sopra un avvenire che non mi riguarda. Il presente mi basta; non voglio né vedere né vivere al di qua di questa ora di passione», scrive Serra. Distrutta ogni mediazione intellettuale (anche di tipo umanistico, in questo caso), dissolta ogni prospettiva di agire sul futuro, non resta che lasciarsi bruciare dall’ora di passione della guerra. L’orizzonte di Serra è ontologico, non storico. Sta qui la sua originalità. Ma il suo è ovviamente anche un modo per vivere la stessa crisi dei suoi coetanei vociani.
Anche per Serra, l’ora di passione esprime la rinuncia a svolgere un qualsivoglia ruolo intellettuale. Non resta che «andare a vivere e morire insieme, anche senza saperne il perché». «Senza saperne il perché»: non potrebbe essere immaginato scacco maggiore per un intellettuale.
A questo punto – siamo alle battute finali dell’Esame – si riaffaccia, introdotto con la solita ironica cautela, il tema della letteratura. Serra sa bene, e lo dice, che la soluzione da lui proposta potrà apparire anch’essa un modo letterario di reagire alla guerra. Ma che importa? «Io sono contento, oggi», sono le ultime parole. Conta solo l’istante, la contentezza dell’«oggi». 
Ma il lettore non può non scorgere un velo di malinconia dietro questo eventuale ritorno alla letteratura, d’altronde così ambiguo e circospetto, e dietro questa contentezza troppo esibita.

Clemente Rebora
La guerra e la crisi dell'identità intellettuale
Papini vuole essere un intellettuale teppista, un solitario «schermidore» che si diverte a rompere i vetri delle finestre alla case borghesi, e in questo modo pensa di svolgere una funzione intellettuale provocatoria e anticonformista. Slataper propone un intellettuale organico ai ceti economicamente più sviluppati della sua città e un’Austria di popoli confederati in cui gli ottocentomila italiani dell’impero austroungarico possano liberamente competere per l’egemonia culturale. Jahier si batte perché il ceto intellettuale svolga una funzione democratica a vantaggio dei poveri e dei contadini. Serra prospetta la possibilità di una fedeltà all’umanesimo e alla religione delle lettere, vedendovi una soluzione ancora praticabile, seppure nell’ambito della vita di provincia. Tutte queste diverse proposte sono spazzate via dalla guerra. Il teppista Papini, nemico di ogni accademia, si trova a rompere i vetri per conto del ceto industriale e protezionista che spinge alla guerra, e poi, chiusa la parentesi bellica, adeguatamente ricompensato, finirà paludato e innocuo accademico d’Italia. Slataper, prima di morire in trincea, per realismo politico accetta la prospettiva dell’interventismo e della «eroica rassegnazione» alla imposizione del conflitto e rinuncia alle proprie esigenze di «vivificazione» e ai propositi liberaldemocratici circa i confini orientali. Jahier, terminata la guerra, si accorge che ogni intento di mediazione ideologica e sociale è miseramente fallito e si chiude in un silenzio ventennale. Serra sceglie di vivere l’immediatezza di un’ora di passione e di andare a morire senza chiedersene il perché. In modi diversi, insomma, si ripete lo stesso destino. Ormai, in trincea, si oscilla fra il senso di solidarietà e di fratellanza fra soldati sottoposti alla durezza della disciplina e agli imprevisti del destino, come in Ungaretti, o si scoprono il non-senso dell’esistenza e la frode di ogni umana intesa come nelle poesie dal fronte di Rebora.
Manca, in Italia, se si eccettua qualche spunto reboriano, una letteratura che denunci l’orrore della guerra, come faranno altrove Barbusse con Le feu e Remarque con Im Westen nichts Neues. I due libri italiani più risoluti nella critica del militarismo e delle ingiustizie della disciplina al fronte, Un anno sull’altipiano di Lussu e Con me e con gli alpini di Jahier, non giungono mai a porre in discussione le ragioni dell’interventismo. La crisi della identità sociale dell’intellettuale fu da noi così radicale da rendere impossibile persino quel minimo di autonomia che sarebbe stata necessaria per tale denuncia. Il fascismo, di lì a poco, avrebbe fatto il resto imponendo agli scrittori l’alternativa penitenziale fra il silenzio, il parlar d’altro, e la retorica.

Dal sito “La letteratura e noi”, gennaio 2015

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