28.5.15

In morte di Marilyn Monroe (Pier Giorgio Bellocchio)

Molti dei soliti commentatori han trovato comodo far colpa a Hollywood della morte di Marilyn. Avrebbero almeno dovuto aggiungere che Hollywood le aveva anche dato la vita. Così, quando si accusa il pubblico di «crudeltà» verso un suo idolo, si dimentica la «generosità» con cui quel medesimo pubblico lo ha «creato» (ma sappiamo bene che, come non si tratta di vera generosità, neanche si tratta di vera crudeltà). Chi vende l'anima al diavolo è facile che finisca dannato, e non è onesto sdegnarsene e lacrimare. Molto più utile sarebbe invece chiedersi perché il patto col diavolo sia quasi inevitabile, necessario: qui è il nocciolo del problema, di qui si deve partire.
Mettere sotto accusa Hollywood — e per di più in quel modo becero — è ancora il miglior modo per evitare di mettere sotto accusa il sistema di cui Hollywood è solo uno dei tanti prodotti. Niente di più perfettamente hollywoodiano di questi cronisti e critici che se la prendono con Hollywood. Perché la morte di un «innocente» deve essere più tragica della morte di un «colpevole»? Perché aver sempre bisogno di un «colpevole» e di un «innocente»? Non siamo nei più puri schemi hollywoodiani? Questa gente non riesce a capire che niente è più tragico della nuda verità, si tratti del destino di Marilyn o dell'uomo più oscuro. Bisognerebbe costringerli a leggere Cechov, o Tolstoi (quando non è afflitto dal delirio ideologico), perché imparino la vita da capo.
Marilyn era una diva piuttosto che un'attrice. Qualcosa di meno, di più, — qualcosa di essenzialmente diverso. Il cinema tende ad esprimere soprattutto dei divi, e volendo fare un esempio di attore cinematografico quasi fatalmente cadiamo in nomi di attori di teatro che hanno anche fatto del cinema. Nessun'arte o spettacolo più del cinema (non solo per la sua specifica natura tecnica ma soprattutto per la sua enorme area di consumo) comprime la personalità dei propri autori, dal regista agli attori. Quanto più una massa è numerosa e diversa, tanto meno è ciò che la accomuna. Ed è questo minimo comune che il divo deve esprimere se tutti gli spettatori devono riconoscersi in lui. Questo minimo, ovviamente, è quasi sempre una semplificazione, una diminuzione, una falsificazione. Talora però, casualmente, in alcuni divi questo minimo è autentico; e se quasi sempre lo spettatore tende a riconoscere nel divo i più falsi dei propri problemi, i propri miti più grossolani, è ancora capace di scoprirvi la propria crisi (anche se in modo confuso, semicosciente, mascherato). Sono i casi eccezionali di Chaplin, della Garbo, e — in minore — anche di un Bogart e d'una Marilyn Monroe.
Non credo che Marilyn fosse molto congeniale al pubblico italiano e d'una certa Europa. Era un tipico prodotto americano. Ma che essa significasse altra cosa che una Rita Haywort o Sophia Loren (per tacere della categoria Jayne Mansfield) non poteva sfuggire. Il suo valore mi sembra consistesse in ciò, che insieme a una notevole coscienza d'essere una «merce» essa esprimeva anche una naturale incapacità di esserlo in modo completo e soddisfatto. In questo senso essa era una vivente protesta — anche se involontaria — contro il sistema.
Il candore della sua spregiudicatezza e la spudorata esibizione del suo bisogno di tenerezza, d'amore, attraevano e respingevano, colpivano. Eravamo tutti, più o meno, innamorati di lei. La sua vulnerabilità, il suo costante pericolo di perdersi (direi che del suicidio essa aveva la vocazione) scoprivano nello spettatore quell'infantile moto, smania a salvare che l'età adulta, ben altrimenti complicata, può solo umiliare rivelandone l'inadeguatezza.
Diceva Scott Fitzgerald, l'idolo letterario dell'America 1925, morto solo e in miseria, distrutto dall'alcool, che nei suoi racconti «c'era una piccola goccia di qualcosa — non di sangue, non di pianto, non del mio seme, ma più intimamente mio di questi, — era l'extra che avevo». Qualcosa di più... non so... Certo ciò che rendeva unici e indimenticabili molti momenti di Marilyn era che, oltre i personaggi di maniera cui era costretta e che essa interpretava male (una prova della sua autenticità), ci trasmetteva qualcosa di intimo, «sangue», «pianto», «seme»... Vederla era come toccare qualcosa di vivo, di nudo. Ciò era tanto più inquietante quanto meno prevedibile: come se, in mezzo a una conversazione banalissima e fortemente truccata, il nostro interlocutore si aprisse all'improvviso a una confidenza estremamente intima e semplice: la vertigine che ci coglierebbe sarebbe in gran parte dovuta alla nostra sorpresa, alla nostra impreparazione.
Era in declino. Niente è più precario, fragile di ciò che è unico, in un sistema nemico dell'individualità, un sistema che se non l'uccide negandola, l'uccide servendosene. Quell'extra che comunicava, non credo che potesse prescindere dalla bellezza del suo corpo, che già rivelava la decadenza. La diminuita popolarità, la mancanza d'affetto, la solitudine, la vecchiaia, - la realtà o il timore di tutto questo, — l'orrore di vivere... sono sempre gli stessi i motivi per cui ci si uccide. Non si deve mitizzare il suicidio di Marilyn, bisogna accettarlo non come cosa eccezionale, sensazionale, ma come il normale gesto di tanti uomini e donne, vecchi e giovani, che in America come in Russia, in Svezia come in Italia, ogni giorno rinunciano a una vita di cui non possono più aver ragione.


Quaderni piacentini, n.4-5, ottobre 1962

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