5.5.15

La lirica greca antica e la sua pragmaticità (Alfredo Giuliani)

Archiloco (da Wikipedia)
La Grecia antica è il luogo dove l'uomo ha coltivato con maggiore intensità e genio inventivo la Parola Parlata. Quando ancora non possedevano la scrittura, i greci hanno onorato i maestri della parola conservando e tramandando i loro detti da una generazione all'altra. E il bello è che i primi maestri della parola, in epoca pre-letteraria, furono i poeti: Chieo. Museo, Omero.
Per lungo tempo la cultura greca fu esclusivamente e poi prevalentemente orale; affidata all'orecchio, alla memoria. Niente di meglio che la poesia, in una società senza scrittura, per la trasmissione oracolare o spettacolare di norme di costume, esperienze religiose, conoscenze di portata pratica. Ed ecco perché, tra l'altro, la Grecia arcaica mandava in giro i suoi aedi e rapsodi: non tanto perché artisti e intrattenitori, sebbene lo fossero necessariamente e al più alto grado, quanto perché educatori, autorizzati a suggerire stili di vita e comportamenti, e informatori su ciò che allora era conoscibile.
Ma anche quando la scrittura cominciò a farsi strada, i greci non persero l'oralità originaria della loro cultura. Chi altri avrebbe potuto inventare e rendere universalmente noti due autori che non hanno lasciato scritto nulla, Esopo, autore di favole, e Socrate, ostetrico dei dialoghi filosofici? L'arte della comunicazione orale prosperava ancora nel quinto secolo. Platone, che condannava i poeti della tradizione perché irrazionali e suscitatori di passioni morbose, scriveva nella lingua parlata in Attica al suo tempo e conduceva l'indagine filosofica usando deliberatamente locuzioni quotidiane, proverbi, modi di dire dell'espressività familiare (in proposito è appena apparso un piacevole saggio di Stefano Jedrkiewicz: Platone e le favole esopiche, in Prospettive Settanta).

Il terribile Archiloco
Produzione e circolazione dei libri diventano un fatto rilevante soltanto nella seconda metà del V secolo. Fino a quell'epoca pochissimi erano in grado di leggere i testi dei poeti, quando fossero trascritti alfabeticamente, forse soltanto i professionisti della recitazione; viceversa, moltissimi ascoltavano le performances pubbliche, e ristretti ma numerosi gruppi godevano la comunicazione orale dei loro poeti (con rude analogia possiamo pensare a circoli militari, associazioni politiche, clubs conviviali, collegi femminili molto esclusivi, e così via).
Una cultura orale comporta che all'interno della lingua parlata si formi una lingua colta. Per noi è difficile immaginare una lingua colta completamente ignara della lettura. Ma qui sta l'eccezionalità del caso greco. Quando perfezionarono l'alfabeto fenicio, inventando il primo sistema fonetico di scrittura, i greci conoscevano da secoli l'arte di costruire oralmente i versi.
Negli ultimi decenni alcuni studiosi della grecità antica hanno prestato un'acuta attenzione alle forme della cultura orale e alle complesse transizioni dall'oralità alla scrittura, con risultati spesso affascinanti. Se ne può avere un'idea leggendo le opere dell'inglese Eric A. Havelock, pubblicate in italiano da Laterza, e l'eccellente raccolta di saggi da lui curata insieme con Jackson P. Hersbell: Arte e comunicazione nel mondo antico. Ora, presso lo stesso editore, appare un'altra indagine che si muove nella sfera d'interessi dell'oralità: Poesia e pubblico nella Grecia antica di Bruno Gentili (pagg. 414, lire 36.000).
Se Havelock ha esplorato il mondo dell'epica, il territorio congeniale a Gentili è quello frammentario e denso di individualità della poesia lirica. L'opera è costituita da una serie di sondaggi che insistono soprattutto sui modi e le forme della comunicazione poetica nell'età arcaica. Il filo conduttore mi sembra sia nell'idea di una sostanziale pragmaticità, in senso molto lato, della poesia anche più individuale. Pragmaticità vuoi dire che anche quando esprime vicende esistenziali di un singolo, quella poesia, affidata all'esecuzione più che alla lettura, ha una vibrante correlazione con la realtà sociale e politica, svolge funzioni didattiche o rituali o in qualche modo persuasorie e di suggestione entro ambienti determinati. Certo, in alcuni momenti anche l'antico lirico greco sembra parlare per se stesso, precedendo qualsiasi uditorio. Ma questa poesia è fatta per essere detta, e agisce con un'efficacia che a noi è difficile immaginare.
Ebbe enorme risonanza nell'antichità, ricorda Gentili, il suicidio del nobile Licambe e delle sue due figlie, provocato dai versi diffamatori di Archiloco. La famigliola s'impiccò perché i veleni poetici del tremendo Archiloco ne avevano «compromesso l'identità» civile e sacrale (Licambe era un uomo pubblico, che ricopriva magistrature, e le ragazze erano quasi certamente ministre di un tempio dedicato alla dea Era).
Non che tutte le poesie aggressive, al loro meglio, dovessero sortire generalmente tali effetti micidiali; e non è detto, tanto per offrire un esempio opposto, che Saffo, con la bella abilità della famosa ode ad Afrodile («e quanto il cuore è vago di compire/ compilo tu, combatti tu/con me», traduce Pontani), sia sempre riuscita a persuadere un nuovo amore. Resta il fatto, ora più che mai avvertito dagli studiosi, che la pragmaticità della lirica greca è connaturata al senso tattile della voce, che «aderisce alle orecchie degli uomini» (Simonide) e così s'insinua con folgori e incanti nelle loro menti. È un piacere di concretezza e di «comprensione creativa» leggere o rileggere con Gentili alcuni poeti amati fin dai tempi del liceo; il lavorio filologico e storico restituisce ai testi pregnanza di significati e suggestive coloriture d'epoca.
Se qualcuno, dai frammenti fino a ieri superstiti, poteva non rendersi pienamente conto della mirabile malizia di Archiloco, c'è ora la poesia scoperta in un papiro di Colonia e pubblicata nel 1974. Gentili ne dà una bellissima traduzione e un commento che illumina il carattere serio-comico del realismo di Archiloco.
La prima parte della poesia è un dialogo narrato dallo stesso autore, tra lui e una ragazza, ambientato nel recinto sacro del tempio di Era. Il commento fa osservare che è tipico nella società greca l'incontro di giovani presso un santuario, luogo eletto per gli innamoramenti, i primi approcci e le proposte di matrimonio. La ragazza, visto che il suo interlocutore sembra mosso da un impellente desiderio erotico, gli propone di sposare sua sorella, Neobùle, che è bella, tenera e aspira al matrimonio. Archiloco risponde che, oltre alla congiunzione nuziale vera e propria, la dea concede ai giovani «molte gioie» e potrà bastarne una; al matrimonio ci si penserà con calma. Quanto a Neobùle, che se la sposi qualche altro: è sfatta, folle, insaziabile, infedele e ipocrita. Andiamo verso i giardini erbosi, continua Archiloco, carina, non rifiutare, io voglio te che non hai nessuno di quei difetti.

La nave di Alceo
Riferito il dialogo, la poesia passa al racconto diretto: «Tutto questo dicevo e presa la ragazza / la distesi sui floridi fiori / e l'avvolsi nel morbido / mantello abbracciandole il collo, / aveva desistito (dalla fuga) / pavida come un cerbiatto, / e le toccai dolcemente il seno / dove essa mostrava la sua fresca pelle/ malìa di giovinezza; / mentre tutto il bel corpo le palpavo / emisi il bianco sperma / sfiorando il biondo pelo».
Le ingiurie a Neobùle e il petting con la sorella; sacrilegio nel tempio di Era, gravissima infrazione della ragazza ministra del culto! Vero o verosimile l'episodio, la voce della poesia era così potente da portare il disonore. Questa è la pragmatica del serio-comico, del dileggio strutturato artisticamente, senza pudore ma con grazia innegabile.
Se avessimo appartenuto alla cerchia militare e politica di Archiloco, saremmo stati i primi a deliziarci della sua incantevole perfidia, e in quale occasione? In un simposio. Per lungo tempo, e soprattutto nell'epoca arcaica, il simposio fu, per i circoli di sodali, momento ricorrente di intensa socialità e di intrattenimento intellettuale. Qualcuno ritiene che fu addirittura il luogo dove nacque la poesia individuale, quella che noi moderni chiamiamo genericamente lirica (una scelta di studi in proposito è stata raccolta da Massimo Vetta in Poesia e simposio nella Grecia antica, Laterza, e se ne trae un quadro affascinante sugli aspetti pragmatici, giocosi e rituali di tate istituto conviviale).
Il privato dei greci ha sempre una fortissima intonazione sociale, e fondamentalmente è il carattere orale della comunicazione (e anche della concezione) a costituire il terreno comune della poesia quale forma privilegiata in tutti i suoi generi. Le analisi di Gentili concernenti poeti assai diversi, quali Alceo e Anacreonte, Simonide e Pindaro e Saffo, colgono la concretezza storica e ambientale di tali diversità ritrovando il sorprendente spessore dei motivi tematici e stilistici.
Valga per tutti l'esempio dell'allegoria della nave in Alceo. Secondo la definizione degli antichi l'allegoria è una metafora continuata: sulla base di un rapporto analogico e simbolico tra due campi semantici, si parla di un evento nei termini di un altro del tutto autonomo dal primo. Così in quattro frammenti superstiti (tre poetici e uno consistente nel commento a una poesia perduta) Alceo rappresenta le vicende della sua città-stato, Mitilene, raccontando le traversìe di una nave fiaccata dalla tempesta, sbattuta contro uno scoglio, carcassa invecchiata, appesantita dal sale e dalla sabbia. Ogni movimento della nave, ogni atto dei marinai, vengono descritti con una lingua viva e con precisione denotativa. Ma ogni espressione ha un valore metaforico e allude alla storia di Mitilene tra VII e VI secolo, considerata dal punto di vista della vecchia aristocrazia della città. Parlando della nave Alceo trasmette alla sua fazione messaggi politici che non devono essere compresi fuori della cerchia nobiliare.
Anche l'allegoria ha dunque una funzione pragmatica, di informazione, avvertimento, esortazione a scegliere una certa condotta nell'urgere degli avvenimenti. Con stupenda penetrazione Gentili ha individuato i quattro momenti cui si riferiscono i frammenti allegorici e ha ricostruito, mi azzardo a sostenere, un capitolo importantissimo nella storia della poesia.
Costretto a trascurare molti altri temi sondati da Gentili, vorrei concludere con una riflessione suggeritami dal libro. Gentili si mostra molto interessato, e giustamente, a quei fenomeni di comunicazione orale che la poesia di tanto in tanto conosce, un po' misteriosamente, e poi dimentica. E' accaduto nel nostro Settecento, quando Alfieri lodava ammirato l'estro dei poeti estemporanei dotti («Nasce appena il pensiero, e già s'innostra / di poetico stil; né mai vien mozza / la voce, o dubitevole si prostra...»). E' accaduto, in modi completamente diversi, in tempi recentissimi, nelle avanguardie americane della poesia «processuale».
Ma di là da queste episodiche consonanze, leggendo nel modo concreto di Havelock e di Gentili i poeti greci si sente uno strano fascino e turbamento. E' come se leggessimo intorno a qualche cosa che ci tocca molto da vicino; come se venisse il sospetto di un'attualità germinale, potenziale, virtuale, scegliete l'aggettivo che vi pare più giusto, contenuta nei grani d'energia di quei frammenti antichi. Eppure, noi abbiamo relegato la poesia in un angolo, l'abbiamo separata da tutto, abbiamo perfino teorizzato che il suo destinatario non è un pubblico determinato ma il risibile uditorio costituito dagli stessi letterati che la poesia la scrivono o la criticano. La poesia, per avere senso, deve rivolgersi a una cerchia determinata, grande o piccola non ha importanza. Forse l'attualità dei poeti greci arcaici è l'attualità di domani? O forse è l'ultima potente finzione che ci trasmettono?


“la Repubblica”, ritaglio senza data, ma 1984

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