8.6.15

Codici di onore e rivoluzione nei costumi (Stefano Petrucciani)

Il filosofo ghanese-americano Kwame Anthony Appiah
Il significato e il peso dell’onore (tema che è al centro del recente libro del filosofo ghanese-americano Kwame Anthony Appiah Il codice d’onore. Come cambia la morale, Raffaello Cortina, pp. 240, euro 24,00) sono stati illustrati come meglio non si poteva nel finale del capolavoro di Monicelli La grande guerra. Qui due soldati italiani un po’ cialtroni, impersonati da Vittorio Gassman e da Alberto Sordi, presi prigionieri dagli austriaci, vengono minacciati di essere passati per le armi se non riveleranno le informazioni di cui sono a conoscenza. Dopo una rapida consultazione, i due decidono che la pelle è più importante della patria, e si risolvono a rivelare agli austriaci la notizia di cui sono in possesso. Appresa la decisione, gli austriaci commentano tra loro in modo sarcastico la mancanza di coraggio dei due italiani. Ma in quel momento Gassman, punto sul vivo, ha uno scatto d’orgoglio; non accetta di essere considerato dagli austriaci un uomo da nulla (ovvero senza onore) e fa dietrofront: non ti rivelerò proprio niente, dice all’ufficiale nemico, e lo apostrofa con l’appellativo «faccia di merda». A questo punto, in pace con se stesso, affronta tranquillamente il plotone d’esecuzione, al quale neanche Sordi, per solidarietà con l’amico, riesce a sottrarsi. Il film sembra dunque sostenere la stessa tesi che il libro di Appiah argomenta in molte pagine affascinanti e ricche di esempi storici: l’onore, individuale o di gruppo (per esempio, l’onore degli italiani) conta pur sempre qualcosa nelle nostre vite, anche se l’epoca dei duelli cavallereschi e dei codici d’onore è tramontata da molto tempo. Anzi, Appiah si spinge ancora più in là: ci spiega che alcune grandi «rivoluzioni morali» che hanno segnato l’epoca moderna non si comprendono se non si fa riferimento ai mutamenti nel senso dell’onore che le hanno accompagnate E, per dare sostanza al suo discorso, illustra con ricchezza di particolari quattro esempi (scelti opportunamente non solo in Occidente) di profonde trasformazioni del costume vigente: la fine dei duelli nell’aristocrazia britannica, l’abbandono della pratica di fasciare i piedi alle bambine in Cina, l’affermazione della illiceità della schiavitù sempre in Gran Bretagna (non negli Stati Uniti, tema che avrebbe richiesto un diverso approccio), e infine il superamento del «delitto d’onore». Un caso, quest’ultimo, di una rivoluzione nel costume che non si è ancora completata: il «delitto d’onore», infatti, non esiste più in Italia e negli altri paesi avanzati, ma è ancora presente in situazioni differenti, come per il esempio il Pakistan sul quale Appiah si sofferma.
La tesi dell’autore, che unisce i differenti casi e che dovrebbe risultarne dimostrata, è dunque che per dell’onore che le hanno accompagnate E, per dare sostanza al suo discorso, illustra con ricchezza di particolari quattro esempi (scelti opportunamente non solo in Occidente) di profonde trasformazioni del costume vigente: la fine dei duelli nell’aristocrazia britannica, l’abbandono della pratica di fasciare i piedi alle bambine in Cina, l’affermazione della illiceità della schiavitù sempre in Gran Bretagna (non negli Stati Uniti, tema che avrebbe richiesto un diverso approccio), e infine il superamento del «delitto d’onore». Un caso, quest’ultimo, di una rivoluzione nel costume che non si è ancora completata: il «delitto d’onore», infatti, non esiste più in Italia e negli altri paesi avanzati, ma è ancora presente in situazioni differenti, come per il esempio il Pakistan sul quale Appiah si sofferma.
La tesi dell’autore, che unisce i differenti casi e che dovrebbe risultarne dimostrata, è dunque che per spiegare questi profondi mutamenti nel costume il concetto di onore risulta molto utile. Cosa succede quando una di queste pratiche (che oggi ci appaiono tutte barbariche e disumane) viene abbandonata? Come si determinano queste «transizioni morali» che, dal nostro punto di vista, costituiscono senz’altro dei progressi? Per l’autore a generare questo mutamento non è sufficiente che certe usanze vengano considerate, in un’ottica morale, come lesive della uguaglianza o della dignità delle persone. Ragionamenti di questo tipo non bastano a trasformare il costume. Esso muta, invece, quando un modo di comportarsi che fino a un certo punto sembrava dover appartenere alla persona onorata in un certo contesto sociale (come sfidare a duello chi ti aveva offeso, nel caso dell’aristocrazia britannica, o uccidere chi aveva sedotto tua figlia, nel caso dell’uomo d’onore siciliano) cambia di segno, e diventa addirittura disonorevole. Insomma, la rivoluzione morale scatta, sostiene Appiah, quando, per esempio, appartenere a un gruppo o a una cultura che apprezza delitto il d’onore diventa qualcosa di cui vergognarsi, uno stigma di inferiorità, un attributo che ci fa apparire disonorevoli e ci umilia agli occhi degli altri. La spinta più forte a staccarsi da consuetudini brutali si ha quando esse diventano qualcosa di disonorante, capace di attirare il disprezzo degli altri su chi le pratica o le approva. Il mutamento dei codici d’onore, insomma, riesce a generare quei progressi che il solo richiamo a concetti universali, come per esempio l’eguaglianza di tutte le persone, è invece impotente a produrre.
Il ragionamento è ben svolto ma, ciononostante, non è del tutto persuasivo. La prima domanda che si potrebbe porre, infatti, è molto semplice: il mutamento dei codici d’onore è la causa della trasformazione dei costumi o ne è più semplicemente l’effetto? Per esempio: se i cinesi hanno dismesso la pratica, terribile, della fasciatura dei piedi, è perché la loro cultura è stata penetrata in tanti modi dall’influenza dell’Occidente o perché il loro codice d’onore è cambiato? In altri termini: forse sarebbe meglio riscoprire (certo senza esagerare, senza nessun riduzionismo) un po’ di sano materialismo storico, e ribadire che le grandi trasformazioni del costume non si capiscono se non si tiene conto dei cambiamenti che attraversano l’economia, le forme di produzione, i rapporti tra le classi sociali. Ragionare sulle «rivoluzioni morali» senza dar spazio anche a tutto questo rischia di essere indice di una certa ingenuità.


“il manifesto” 6 dicembre 2011

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