1.6.15

Corruzione in Toscana. "Ruba tu che rubo anch'io" (Valerio Castronovo)

Francesco Stefano di Lorena
"Si ruba dappertutto, nel settore militare, nel settore civile, nelle finanze, non si può citare alcuna magistratura, alcuna ricevitoria in cui il principe non sia ingannato e il popolo vessato. L' ufficiale generale, il governatore della piazza, il provveditore, il ministro, tutti mangiano, per servirsi dei vocaboli del paese...".
Così scriveva da Firenze il conte di Richecourt nel 1737, all'indomani del passaggio della Toscana dai Medici ai Lorena. Incuriosito da questa filippica, che non risparmiava quasi nessuno dei fiorentini più in vista, uno storico francese, Jean-Claude Waquet, ha voluto accertare quanto fondata fosse l' accusa di una così dilagante corruttela, e se le cose fossero cambiate sotto il nuovo sovrano Francesco Stefano di Lorena, marito di Maria Teresa d' Austria e futuro imperatore del Sacro Romano Impero.
Waquet ha così scoperto che, a voler elencare tutti i peculati commessi nel granducato (non solo prima, ma anche dopo l' avvento dei Lorena), non sarebbe bastata una vita, tanto ricorrente ed esteso era - e continuerà ad essere - questo genere di crimine. Sono tuttavia sufficienti i casi più significativi da lui esaminati - circa una cinquantina, nell'arco temporale fra il Sei e il Settecento - per darci un' idea dell'ampiezza e della frequenza del fenomeno, riscontrabile del resto in altri Stati dell' epoca, e non solo italiani (La corruzione. Morale e potere a Firenze nel XVII e XVIII secolo, Mondadori, pagg. 260, lire 18.000). Emerge da queste pagine una trama così densa e fitta di malversazioni e di imbrogli, dai più ingegnosi e azzardati ai più comuni e abituali, che alla fine ci si chiede come le finanze dello Stato abbiano potuto sopravvivere a tante depredazioni, che s'andavano ad aggiungere a quelle provocate di norma dagli sconquassi bellici, dagli sprechi della cattiva amministrazione e dalle principesche dissipazioni della dinastia regnante. In effetti, non c'era forziere pubblico - dalle casse dell' annona e delle dogane a quelle delle furerie e dei Monti pii - in cui i meccanismi della corruzione non affondassero le loro trivelle. Persino i fondi dei lazzaretti subivano periodici saccheggi. E in più di un' occasione capitò che a furia di scavare, i buchi si trasformassero alla fine in autentiche voragini, tali da inghiottire risorse imponenti e da mettere in pericolo le stesse fondamenta delle istituzioni pubbliche.
Il caso più clamoroso e drammatico fu il pauroso vuoto dell'"Abbondanza", l' organizzazione cui era devoluto il compito di assicurare il vettovagliamento di Firenze e di sfamare la popolazione in caso di carestia, grazie all'accantonamento di cospicue scorte di generi alimentari acquistate a basso prezzo durante le annate di buon raccolto, e alla costituzione di notevoli somme di danaro per far fronte ad eventuali acquisti d'urgenza. Si venne a sapere, nel 1747, che per trent'anni il provveditore di tale granaio pubblico (che poi era una delle più importanti istituzioni finanziarie fiorentine) aveva saccheggiato a man bassa al punto da lasciare quasi vuoti i magazzini, e da pregiudicare gravemente la possibilità di garantire il rifornimento della capitale in caso di calamità.
A perpetrare simili misfatti erano in genere funzionari e amministratori appartenenti alle grandi famiglie della nobiltà fiorentina; i quali, proprio per il loro alto lignaggio, avevano accesso alle cariche di maggior responsabilità, quelle cioè per cui erano prescritte particolari garanzie di probità e di devozione al bene pubblico. Pochi tra loro ebbero la sfortuna di incappare nelle maglie della giustizia; gli altri riuscivano spesso a farla franca. Quelli che avevano dei parenti altrove, o i più audaci, lasciavano per tempo lo Stato e si stabilivano lontano a godersi quanto avevano arraffato; altri sparivano nell'istante stesso in cui si cominciava a nutrire qualche sospetto su di loro; certuni, colti alla sprovvista, si rifugiavano in fretta e furia in una chiesa o in un convento, al riparo dell'immunità riconosciuta agli edifici ecclesiastici. Per i più potenti, poi, non era mai detta l'ultima parola, giacché la grazia del sovrano, anche in caso estremo, poteva tirarli fuori dai guai.
Ma l'intenzione di Waquet non è quella di presentarci una galleria variopinta di corrotti e corruttori di grande o piccolo calibro, sullo sfondo del progressivo disfacimento di una prestigiosa casata e del difficoltoso acclimatamento di un' altra ancor più angusta dinastia; e neppure di raccontarci per filo e per segno certe magagne per il semplice gusto dell' aneddotica storica o a scopi edificanti. Il suo obiettivo è di capire perché, e in che modo, certi atti fraudolenti, del tutto riprovevoli sul piano morale e di tale gravità sotto altri profili da logorare il funzionamento dell'apparato statale, dissimulassero una determinata funzione nei rapporti di forza e negli equilibri politici e sociali. Depredare le ricchezze dello Stato, scroccare i soldi di questo o quel cittadino per influenzare l'operato dell' amministrazione, appropriarsi di beni privati con l'ausilio della propria autorità pubblica, tutto ciò provocava senza dubbio, al di là di ogni altra considerazione, danni rilevanti agli interessi della collettività ed era perciò fonte di squilibri e disfunzioni. In compenso, la corruzione procurava danaro e attribuiva potere: la spoliazione dell'erario statale soddisfaceva, insomma, le ambizioni e gli appetiti dei gruppi dominanti installati negli impieghi pubblici. Occorre perciò considerare il fenomeno della corruttela in termini problematici, valutare cioè quale ruolo concreto svolgesse.
Secondo lo storico francese, le estorsioni e gli abusi di magistrati e amministratori pubblici rappresentavano una forma latente di sovversione politica e, al tempo stesso, un mezzo tortuoso di equilibrio sociale. Attribuire la corruzione, come si faceva di solito, alle passioni umane (l'interesse, l' avidità e così via), o a singoli errori di condotta, e giudicarla quindi alla stregua di un qualsiasi altro crimine individuale, non era che un esorcismo consolatorio, un modo per mimetizzare o per non ammettere il carattere profondamente sovversivo di tale reato. Non per questo si deve credere che nelle organizzazioni d'ancien règime le leggi contro la corruzione fossero più imprecise o più imperfette di quanto non lo siano oggi, e neppure che la società fosse tanto permissiva come talora si è voluto sostenere. Il punto fondamentale è un altro: lo stesso sovrano non aveva interesse né a chiarire sino in fondo le cose, né a calcare la mano. Per la stabilità delle istituzioni era assai più opportuno che le malefatte di ministri e funzionari apparissero come fatti di costume isolati e privi di conseguenze, come biasimevoli colpe personali, piuttosto che come espressione di una sorta di "colpo di Stato permanente", o delle degenerazioni di un sistema burocratico intimamente ricattatorio, quali invece erano. L' occupazione delle istituzioni e la spoliazione dello Stato servivano infatti a una classe aristocratica che di denaro aveva gran bisogno per restare in sella, per continuare a far valere le sue prerogative nei confronti della monarchia assoluta.
Come dimostra lo storico polacco Antoni Maczack in un saggio comparso di recente (su “Prometeo”, 1986, n. 13), e come sta emergendo da alcuni studi intrapresi in Francia e in altri paesi, l'indebito sfruttamento delle cariche ricoperte o l'influenza che si poteva trarre dal controllo di certi uffici, offrivano all'aristocrazia di toga e di corte la possibilità non solo di conservare quel lussuoso tenore di vita che essa si credeva tenuta a ostentare, ma anche di mantenere in piedi una vasta rete di legami familiari e clientelari, di connivenze e favoritismi. Era questo sistema di vincoli e di dipendenze, in cui il più forte proteggeva e assisteva il più debole avendo in cambio diritto ai servizi e alla lealtà di quest'ultimo, il fondamento del potere aristocratico e costituiva, allo stesso tempo, una zona d' ombra, nel funzionamento dei sistemi politici e nella vita delle piccole comunità, che sfidava impunemente l'autorità suprema del sovrano anche nel quadro dello Stato assoluto.
Che di tutto ciò il monarca fosse perfettamente consapevole, risulta non solo dalla tendenza dei suoi inquirenti a considerare la corruzione come un "peccato privato", ma anche dal fatto che egli non usava troppo l'arma del castigo contro i responsabili, per non scatenare le reazioni di un parentado troppo influente o per non alienarsi la devozione di altri rappresentanti della stessa casta. Così la corruzione era doppiamente eversiva. Da un lato, dava luogo a disfunzioni che compromettevano il ruolo delle istituzioni e sottraeva risorse cospicue allo Stato. Dall'altro, oltre a fare la fortuna di funzionari disonesti, generava un processo sia pure impercettibile, ma non per questo meno micidiale, di corrosione del potere supremo; che in tal modo scivolava a poco a poco dalle mani del sovrano, finendo surrettiziamente in quelle di un gruppo sociale privilegiato.
Il fatto che la corruzione assolvesse a queste due funzioni (non soltanto in Toscana, ma probabilmente anche altrove) potrebbe portare a una riconsiderazione dei tempi e delle modalità di affermazione dell'assolutismo monarchico. Nel senso, almeno, di valutare più a fondo l'incidenza di certi meccanismi più nascosti e vischiosi di riequilibrio dei poteri all'interno dell'apparato statale e della realtà sociale. Di qui l'ipotesi che l'affermazione dello Stato assoluto non fu affatto lineare e irreversibile, ma caratterizzata piuttosto da lunghi tempi di adattamento, e comunque mai definitiva, bensì sfilacciata da parecchie smagliature.


“la Repubblica” 30 marzo 1986  

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