5.6.15

Così non si campa. Idee per una vita sostenibile (Marcello Cini)

Il fisico Marcello Cini fu tra i fondatori del “manifesto” e, poi, tra gli autori de L'ape e l'architetto (Feltrinelli, 1976) un libro sui paradigmi scientifici, che fece parlare di una “scuola italiana” di epistemologia. Negli ultimi anni della sua vita (è morto nel 2013) lo scienziato si applicò spesso al “rossoverde”, al tentativo cioè di connettere la tradizione classista del socialcomunismo e le grandi, inquietanti domande dell'ambientalismo. L'orizzonte in cui la sua ricerca si collocava potrebbe definirsi “riformista”, se la parola non fosse usurata dall'uso perverso che ne hanno fatto i restauratori del dominio assoluto del capitale. Alcune cose, in questo articolo, mi sembrano discutibili in quanto degne di critica, ma molte altre sono discutibili in quanto stimolanti, in quanto degne di verifiche, di approfondimenti, di sviluppi critici. (S.L.L.)

Con il passaggio dal XX al XXI secolo il capitalismo ha ancora una volta cambiato forma. La conoscenza è diventata capitale intellettuale. Ce la spiega Thomas A. Stewart, editor della più importante rivista americana di economia Fortune, che è stato uno dei primi al mondo a occuparsi di come individuare, dispiegare in modo efficace, e sfruttare quella straordinaria risorsa costituita dal «brainpower collettivo», cioè da «tutto quel materiale intellettuale - sapere, informazione, proprietà intellettuale, esperienza - che può essere messo a frutto per creare ricchezza». «Chi lo trova e lo sfrutta - afferma categoricamente - vince». E continua: «Vince perché l'economia di oggi differisce radicalmente da quella di ieri. Noi siamo cresciuti nell'Era industriale. Ma questa è tramontata, soppiantata dall'Era dell'informazione. Il mondo economico da cui stiamo uscendo era un mondo in cui le principali forme di ricchezza erano concrete. Le cose che compravamo e vendevamo erano, appunto, cose: si potevano toccare, odorare, si potevano prendere a calci le gomme e quando si sbattevano le portiere si sentiva un piacevole tonfo. Gli ingredienti a partire dai quali si creava ricchezza erano la terra, le risorse naturali come il petrolio, il minerale di ferro o l'energia, e il lavoro fisico umano e le macchine. Le organizzazioni economiche concepite per attrarre capitali - capitali finanziari - al fine di sviluppare e gestire quelle fonti di ricchezza ed erano bravissime nel farlo.


Si compra e si vende il sapere
In questa nuova era, la ricchezza è il prodotto del sapere. Sapere e informazione - e non soltanto sapere scientifico, ma le notizie, i consigli, l'intrattenimento, la comunicazione, i servizi - sono diventati le principali materie prime dell'economia e i suoi prodotti più importanti. Il sapere è quel che compriamo e vendiamo. Non si può né odorarlo né toccarlo; persino il piacevole tonfo che fa la portiera di un'auto quando viene sbattuta è probabilmente il risultato di un'abile progettazione acustica. Il capitale fisso oggi necessario per creare ricchezza non è oggi la terra, né il lavoro fisico né le macchine utensili né gli stabilimenti: è un capitale fatto di conoscenza».
I problemi sollevati dal passaggio dall'economia degli oggetti materiali all'economia della conoscenza si intrecciano con quelli che derivano dalla insostenibilità dell'attuale processo produttivo di merci sia dal punto di vista dei limiti della carrying capacity dell'ecosistema terrestre (persino Bush è arrivato ad ammettere che i mutamenti climatici possono essere conseguenza dell'uso eccessivo delle fonti di energia non rinnovabili), sia dal punto di vista dell'innegabile aumento delle disuguaglianze tra ricchi e poveri, tanto a livello planetario quanto all'interno degli stessi paesi economicamente sviluppati. Questi fenomeni hanno conseguenze sociali dirompenti: dalle guerre per il possesso delle fonti di energia non rinnovabili alle inarrestabili ondate migratorie, dalle crisi finanziarie imprevedibili che mettono in ginocchio interi paesi alla crisi dei sistemi di welfare faticosamente costruiti nei paesi industrializzati nel corso del XX secolo.
Il nostro paese si trova in una situazione assai difficile. La produzione di beni di consumo individuali nei settori industriali tradizionali è sottoposta a una concorrenza insostenibile da parte dei paesi di nuova industrializzazione con manodopera a costi abissalmente inferiori a quelli richiesti dal nostro sistema produttivo per il mantenimento di un dignitoso livello di vita dei nostri lavoratori, e una adeguata protezione sociale dei nostri cittadini. D'altro canto, la scelta di competere sul terreno della produzione di beni a contenuto scientifico e tecnologico all'altezza della ricerca mondiale di punta - ammesso e non concesso che fosse auspicabile, e mi riferisco con questo inciso alle ragioni che sono alla base delle contestazioni dei movimenti newglobal - è manifestamente impossibile, salvo qualche rara eccezione, per le ridotte dimensioni del nostro sistema produttivo, soprattutto nelle condizioni di crescente degrado del sistema della ricerca pubblica e privata italiana.

Dalle ricette ai contenuti
Il problema è dunque di scendere dal piano delle ricette puramente economiche a quello dei contenuti: cioè della discussione dei settori su cui investire le risorse pubbliche e private necessarie per sfuggire alla tenaglia che ci stringe. Non si può più affermare che esista una economia in astratto che non dipende da quello che si produce e si consuma. Politica economica, politica fiscale, politica industriale e politica della ricerca diventano un intreccio non separabile in campi distinti gestiti dai rispettivi specialisti. Credo che sia arrivato il momento di riconoscere che questo è un punto fondamentale da affrontare e discutere all'interno della sinistra, per riuscire a dare risposte credibili ed efficaci al compito di restituire fiducia al paese e aprire una prospettiva di sviluppo fondata su un miglioramento della qualità della vita per tutti i cittadini.

Lo sviluppo sostenibile
La scelta di uno sviluppo sostenibile non è una fissazione di ambientalisti maniaci o di moralisti con la testa tra le nuvole da tacitare con qualche elargizione soltanto in tempi di vacche grasse, ma è la scelta di una strada non solo compatibile con le «leggi dell'economia», ma una via essenziale realisticamente percorribile per uscire dal pantano in cui stiamo affondando.

I problemi della riqualificazione urbana e della difesa del suolo (centri urbani degradati e alluvioni), con quelli connessi della mobilità delle merci e dei viaggiatori (traffico in tilt, reti ferroviarie insicure e imprevedibili), sono anche intrecciati con quelli dello sfruttamento delle fonti energetiche rinnovabili e dell'efficienza dei consumi energetici (lo sviluppo del solare e dell'eolico è un decimo rispetto alla Germania), e con quelli dello smaltimento e del riciclaggio dei rifiuti (ecomafia e industriali alleati in stretto connubio).
I problemi di una sanità efficiente per tutti, della prevenzione delle malattie, di una agricoltura di qualità e di una alimentazione non macdonaldizzata - connessi questi ultimi con la questione della tutela della biodiversità dell'ecosistema terrestre - sono anch'essi aspetti strettamente legati alla qualità della vita quotidiana della gran parte dei cittadini. Soprattutto, sono problemi che hanno il pregio di investire interessi diffusi e locali che non possono essere affrontati importando merci a basso costo dalla Cina o tecnologie raffinatissime dagli Stati uniti. Sono anche tutti - questo è il punto più importante - problemi la cui soluzione apre la possibilità di impiegare una grande quantità di lavoro qualificato, promette ai giovani dotati di creatività e di capacità organizzative di potersi costruire un futuro migliore di quello della fuga all'estero, e attraverso l'investimento iniziale di ingenti risorse mirate e selezionate, di innescare un circolo virtuoso di crescita economica di nuove imprese competitive su un mercato internazionale che in questi settori non è ancora dominato dalle multinazionali.


Il mercato non giova alla ricerca
La produzione della nuova conoscenza necessaria ad affrontare i problemi di un'economia sostenibile non può, in generale, essere lasciata interamente al mercato. E' George Soros, un capitalista doc, che ce lo spiega: «Il mercato è amorale: permette di agire secondo il proprio interesse, ma non esprime un giudizio morale sull'interesse medesimo... Ma la società non può funzionare senza qualche distinzione tra giusto e sbagliato. Prendere decisioni collettive su cosa vada permesso e cosa vietato è compito della politica».
In particolare, nel nostro paese la produzione di nuova conoscenza non può essere lasciata al mercato anche a causa della debole struttura della sua economia. Il capitale privato italiano abbandona la grande industria ed è ormai da un lato dominato da palazzinari, assicuratori e pubblicitari, dei quali Berlusconi rappresenta il dominus in tutti i sensi, e dall'altro è spezzettato in una molteplice varietà di piccole e medie industrie. Nessuno investe in ricerca per ragioni evidenti. Le privatizzazioni delle industrie di stato hanno soltanto privatizzato i profitti e socializzato le perdite, sostituendo le tasche nelle quali entrano le rendite di monopolio. La ricerca necessaria per aprire la via a un'economia sostenibile deve essere, per lo meno in Italia, prevalentemente pubblica. Cosa significa pubblica? Significa in primo luogo che deve anteporre gli interessi pubblici a quelli privati. Per quanto riguarda i ricercatori, per esempio, occorre per prima cosa riconoscere la differenza profonda esistente fra i dipendenti (o i consulenti) di imprese private legati al segreto industriale e gli operatori degli enti pubblici di ricerca che dovrebbero rispondere dei loro programmi alla collettività che li finanzia, o per lo meno concordare con i suoi rappresentanti le scale di priorità da rispettare.

Le evidenze di rischio
I primi hanno come dovere contrattuale quello di massimizzare i dividendi dei propri azionisti mentre i secondi, per esempio, dovrebbero in primo luogo esplorare a fondo le evidenze di rischio, non ancora divenute certezze, ma già più solide delle congetture, che giustificherebbero l'adozione di una sospensione precauzionale dell'immissione sul mercato dei prodotti che sono frutto delle ricerche dei primi. Come si fa a non stupirsi nel constatare che la elementare norma di correttezza civile, oltre che giuridica, secondo la quale controllori e controllati non possono essere le stesse persone, non vige all'interno della scienza? Oggi molti scienziati di grido sono al tempo stesso consulenti delle multinazionali o addirittura azionisti delle industrie di punta e al tempo stesso membri delle commissioni governative che dovrebbero certificarne i prodotti dal punto di vista dell'efficacia e della sicurezza. In secondo luogo, ricerca pubblica significa ricerca che deve mettere i risultati ottenuti a disposizione di tutti i privati che intendono investire capitali nella trasformazione di questi risultati in prodotti vendibili sul mercato.

La conoscenza fruibile
Le modalità di questa messa a disposizione possono essere diverse, ma l'importante è che scopo della ricerca pubblica non può essere quello di competere sullo stesso terreno di quella privata per il conseguimento di brevetti di conoscenza confezionata in forma di merce da immettere sul mercato. La conoscenza ottenuta con fondi pubblici deve essere fruibile da tutti. E' ancora George Soros che scrive a questo proposito: «L'espressione "proprietà intellettuale" è fuorviante, perché si basa su una falsa analogia con la proprietà tangibile. Una caratteristica essenziale della proprietà tangibile è che il suo valore deriva dall'uso che ne fa chi la possiede, ma la proprietà intellettuale trae il suo valore dall'uso che ne fanno gli altri: gli scrittori vogliono che il loro lavoro sia letto e gli inventori che sia utilizzato.... L'istituzione di brevetti e diritti di proprietà intellettuale ha contribuito a trasformare l'attività dell'ingegno in un affare, e naturalmente gli affari sono mossi dalla prospettiva del profitto. E' lecito affermare che ci si è spinti troppo oltre. I brevetti servono a incoraggiare gli investimenti nella ricerca, ma quando scienza, cultura e arte sono dominate dalla ricerca del profitto, qualcosa va perduto».



il manifesto 2005.08.24

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