9.6.15

Italia, la borghesia "vendedora" (Agostino Spataro)

1.
C’era una volta in Italia una borghesia che da “compradora” è divenuta “vendedora”.
Ho usato questo incipit non per il vezzo di parafrasare il titolo del bel film di Sergio Leone, ma solo per evocare quell’atmosfera e narrare la “favola” triste di tale mutazione ai giovani che, spesso, non comprendono le ragioni per le quali nel nostro Paese si continua a privatizzare, a vendere a stranieri pezzi pregiati della nostra industria, quartieri e alberghi di lusso, società di calcio, ecc.
Si vende e si compra come un tempo avveniva nei paesi colonizzati e/o neo-colonizzati, soprattutto dell’America latina, da parte di una borghesia compradora, un mix di capitali metropolitani e locali, che si accaparrava di tutto a prezzi vili; un ceto sociale molto speciale che svolgeva una funzione predatrice delle risorse endogene (terra, manifatture, trasporti, banche, servizi, ecc) e, al contempo, di mediatrice fra masse sfruttate e oligarchie coloniali.
Oggi tale “modello” (ovviamente riverniciato) comincia a prendere piede anche in taluni paesi sviluppati dell’Europa, specie in quelli più deboli della fascia sud-mediterranea (Italia, Grecia, Spagna, Portogallo, un po’ anche Francia) e del centro-est di recente incorporazione nella U.E.
Non c’è più il colonialismo (che, a ben pensarci, fu una delle prime forme d’internazionalizzazione capitalistica dell’economia), ma la globalizzazione neo-liberista che abbatte le barriere dei mercati di beni e servizi, viola i confini degli Stati per importare (illegalmente) decine di milioni di “nuovi schiavi” per destrutturare i “mercati” del lavoro a suo vantaggio e che ora punta al grande shopping d’imprese produttive, società finanziarie e calcistiche, anche fra le più rinomate e longeve.
In misura diversa, l’intera Europa sta subendo l’assalto del capitale extracomunitario, anche d’incerta origine sul piano legale e di quello di origine rentiere e parassitaria.
La chiamano “libera circolazione dei capitali e degli investimenti”. Troppo libera- direi- poiché imperversa senza limiti e regole trasparenti e per fini non sempre lineari e dichiarati.
Come si può intuire dalla sottostante lista, l’Italia è uno dei paesi presi di mira:
http://www.mezzostampa.it/politica/6912_italia-terra-di-conquista-aziende-storiche-vendute-allestero.xhtml

2.
Oltre questa lista, gli acquisti sono continuati.
Recentemente, altri “gioielli” dell’economia nazionale sono stati venduti a stranieri: buon ultima la “Pirelli” ai cinesi.
Che triste destino per questo nostro Paese! Da un lato ha visto partire, de-localizzare decine di migliaia d’imprese verso i territori poveri U.E. ed extra U.E, (specie Cina, India, Brasile, ecc) e dall’altro lato arrivare compratori provenienti da quelle stesse realtà.
“Todo cambia” dice una bella canzone di Mercedes Sosa. Anche questa borghesia fedifraga che, in nome della “patria”, trascinò il popolo italiano in due disastrose guerre mondiali, e che oggi, immemore del suo spirito borghese e patriottico, da “compradora” diventa “vendedora”.
Insomma, si stanno mischiando le carte, arrivano capitali freschi. Nessuno vuole demonizzare il fenomeno. Non ci sfugge l’importanza degli investimenti esteri per la nostra economia in affanno, vorremmo solo che fossero leciti, puliti e non ri-puliti; sapere come si vuole giocare la partita: se con il trucco o con regole certe e trasparenti, senza ledere gli interessi strategici nazionali e quelli sociali dei lavoratori coinvolti loro malgrado.
Ovviamente, c’è anche un problema di salvaguardia dell’immagine,della tradizione del paese, al limite della stessa sovranità economica nazionale ed europea.
Si è creata così una situazione inedita, caotica, per alcuni versi imprevedibile, che fa nascere interrogativi angoscianti nella coscienza dei popoli europei messi all’angolo da governi incapaci e servili.
Si tratta di libero mercato o di una dittatura degli investimenti?
L’U.E. dei banchieri e del dirigismo neo-liberista riuscirà a superare la crisi (non solo economica) o l’Europa diventerà preda di pericolose incursioni e di un espansionismo strisciante di varia provenienza?
Il pericolo dell’espansionismo esiste, forse è già operante, mentre altri ne vediamo comparire all’orizzonte. In primo luogo, la bozza di trattato TTPI (in fase negoziale fra Europa e Usa) che potrebbe sfociare in una moderna “dittatura” degli investimenti, a tutto danno delle prerogative di sovranità degli Stati nazionali e dei diritti dei lavoratori.
Perciò, è bene parlarne, responsabilmente, per avviare una riflessione e una lotta decisa per un futuro, ancora possibile, di pace e di prosperità condivisa. L’Europa tentenna, l’Italia naviga a vista. La via d’uscita non s’intravvede. Chi ha sbagliato non può continuare a decidere in solitudine. Le scelte di fondo non possono essere appannaggio esclusivo dei decisori di Bruxelles, ma vanno assunte dai popoli europei, sovrani, magari mediante un voto referendario.

3.
Siamo di fronte a una realtà ostica, incandescente che potrebbe costituire il principale banco di prova della “nuova sinistra” da più parti invocata e che non può nascere da un glorioso raduno di reduci, ma da un nuovo movimento politico, da un nuovo pensiero.
Per risultare credibile il nuovo soggetto politico dovrà analizzare i fenomeni sociali, gli assetti di potere, le nuove tendenze con rigore scientifico e coerenza sociale, con la ragione e non con il sentimento che è la commozione del pensiero. E, per non sbagliare, mantenere come punto di riferimento costante il progresso e il benessere delle larghe masse popolari.
In particolare, si richiede una lettura della crisi mondiale senza tabù e accanimenti ideologici, sapendo che la nuova sinistra, da sola, non potrà farcela e pertanto deve ricercare le necessarie alleanze, programmatiche e politiche, con i ceti sociali (anche di tendenza nazional-popolare) vittime dei processi di “globalizzazione” selvaggia che attira verso l’Europa flussi di capitali leciti e illeciti, merci e organizzazioni criminali.
Quasi sempre all’insegna dell’illegalità, dell’elusione e dell’evasione fiscali, senza un controllo democratico degli Stati né, tanto meno, della burocrazia di Bruxelles.
Insomma, il varco è stato aperto e ognuno s’infila, come può. I nuovi “compradores” agiscono senza freni: acquistano tutto quel che luccica sul mercato con la complicità di una borghesia “vendedora” che (s)vende al migliore acquirente, mentre continua a trasferire impianti di produzione nei paesi emergenti.
Una deriva che provoca disoccupazione (specie giovanile), illegalità e insicurezza diffuse, corruzione, evasione fiscale, ecc. e crescente malcontento popolare.
La sinistra non può regalare alla destra, ai demagoghi di turno il compito di combattere contro queste piaghe. Poiché, la legalità è un valore fondante e ineludibile, in primo luogo per la sinistra.

4.
A fare le spese di questo disinvolto turismo di capitali e d’impianti sono le fasce sociali più deboli, soprattutto lavoratori e giovani inoccupati europei, doppiamente fregati in termini di disoccupazione e di attacco ai loro diritti contrattuali. Questo clima ha reso possibile in Italia il varo del “Job act”.
Pagano anche gli Stati che devono sobbarcarsi ingenti oneri a copertura della maggiore spesa sociale derivata.
Tutto ciò è anche il risultato della teoria del “Meno Stato e più mercato”, uno slogan efficace che sintetizza una grossolana filosofia revanchista delle relazioni sociali, da cui prese avvio il disegno neo-liberista che ha portato i popoli al disastro economico e sociale e accelerato il processo di decadimento dell’Europa.
A fronte di ciò serve poco lo scatto d’orgoglio. Quel che serve - fra le tante cose- è una nuova politica economica, una svolta nella politica estera euro-mediterranea basata sulla cooperazione pacifica, reciprocamente vantaggiosa.
La regione euro-araba-mediterranea ha bisogno di pace, di scambi culturali e commerciali e non di guerre, di missioni “umanitarie” che, invece di spegnere, alimentano i conflitti tribali e religiosi.
L’obiettivo dovrebbe essere quello di far convergere, a sostegno di un grande programma di rinascita, tecnologie e saperi italiani, europei e capitali e risorse dei paesi arabi per creare uno spazio economico comune, da intendere come primo nucleo di un nuovo polo dello sviluppo mondiale.
Una prospettiva ancora possibile nella quale gli Stati, le istituzioni democratiche europee hanno da giocare un ruolo importante. Altro che “ meno Stato e più mercato”! Anzi, visti i pessimi risultati, è tempo d’invertire la formula e propugnare “Più Stato e meno mercato”.
Non per innalzare il vessillo del socialismo (ir)reale o per mera rivendicazione ideologica (che pure ci sta), ma per assicurare al settore “pubblico”, allo Stato, risanato e ammodernato, un ruolo di equilibrio, di compensazione, di orientamento programmatico e, quindi, di tutela degli interessi sociali e strategici nazionali.
Qualcosa del genere successe in Italia ai (bei) tempi del boom economico (anni ‘60 e ’70) realizzatosi in un contesto di economia mista in cui la componente pubblica e cooperativistica si attestava intorno al 40 %.


IlPuntodue.it, 9 aprile 2015

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