25.6.15

Juan Gelman. L'Argentina nel cuore e nei versi (Franco Avicolli)

E' morto Juan Gelman (1930 – 2014), poeta e argentino. Trattandosi di un poeta c’è da chiedersi se è morto veramente. Perché i poeti pensano alla signora con la falce come fosse la negazione della poesia, metafora del vuoto, un foglio bianco e muto. I1 poeta cancella la morte con la parola e può dire con Juan Gelman: «Queste parole sono più vere di me» (La pretesa). «Ciò che nomina/ ha il mare che porta lontano» scrive il poeta argentino in Divergenze, una delle sue poesie più recenti, «nella sua casa tutti possono entrare/ e il suo tempo non cessa/ in ogni bocca». Ora, egli è morto, ma già ha richiamato alla vigilanza perché da qualche parte appariranno le sue mani «spinte dalla sua rabbia immortale» (La fine).
Walt Whitman, dal suo canto, si allontanava «come l’aria» e «per rinascer dall’erba che amo». Per trovarlo bisogna cercarlo «sotto la suola delle scarpe», perché, comunque «in qualche posto mi sono fermato e t’attendo», recitava.
Il poeta sente la precarietà delle cose, precede la loro scomparsa o l’accompagna. Ed è proprio questa la vicenda storica e umana di Juan Gelman. Il suo tempo si intreccia con l’Argentina della seconda metà del secolo scorso delle molte incertezze e delle rovinose cadute. Soffrì sulla propria pelle e pesantemente la tragedia dei desparecidos. I generali golpisti gli tolsero Buenos Aires, lo costrinsero ad «andare diviso in due» (Habana-Baires) e gli uccisero un figlio. Vagò senza il conforto della sua esistenza e cercò la nuora rapita con lui. Gli dissero che aveva partorito, ma non dove. Trovò la nipote quando aveva 24 anni, ma non più la sua città («quasi vivo,/ scrivo versi dapprima pianti/ perla città dove sono nato»). È morto a Città del Messico dove risiedeva da una ventina di anni.
Fu comunista, castrista, guevariano, montonero, traduttore, giornalista e non smise mai di essere poeta pensando al necessario piuttosto che all’utile. «Con questo poema non prenderai il potere» scrive e neppure servirà agli operai e ai maestri per vivere meglio, per mangiare o per avere qualche vantaggio, ma «si siede a tavola e scrive» (Fiducia).
Lascia una poesia coinvolgente e affabulatrice, piena di volti, di voci e personaggi incontrati, di luoghi che egli considera sempre sotto lo stesso cielo. È tra le più alte e civili di lingua spagnola.
In una lettera del 9 maggio 1980 da Roma dove vive da esiliato, scrive: «Tutti gli uomini sono umani e quello che c’è in me dovrebbe essere negli altri... Posso offrire solo i raggi della luce che illuminavano la lotta per la felicità, la generosità della morte, cioè della vita...».
E non c'è dubbio che sia il lascito di un poeta generoso e profondo.


“Il Sole 24 ore Domenica”, 19 gennaio 2014

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