14.6.15

La pólis itinerante e la tirannide. Ritorna Senofonte (Paolo Lago)

Secondo Albin Lesky l'Anabasi è, fra le opere di Senofonte, quella «che per noi è la più viva». In effetti, questa «spedizione verso l'interno» (così è la traduzione di «anabasi») possiede una indubbia facies metamorfica tanto che siamo incerti se definirla resoconto di viaggio, racconto d'avventura, opera storica, autobiografia, memoria; l'Anabasi è, sicuramente, tutte queste cose insieme. Oggetto del racconto è la spedizione dell'esercito di Ciro il Giovane, insieme a un cospicuo gruppo di mercenari greci (fra i quali si trovava lo stesso Senofonte con un ruolo di comando), allestita per spodestare il fratello Artaserse II: un lungo viaggio, iniziato nel marzo del 401 a. C., da Sardi verso Babilonia, capitale dell'Impero Persiano. La spedizione verso l'interno si interrompe però a Cunassa dove, in una battaglia, Ciro viene ucciso da Artaserse; inizia allora la ritirata, la marcia dell'esercito verso il mare, in un percorso diverso rispetto a quello dell'andata, attraverso territori inospitali e popolazioni sconosciute, l'Armenia, la Tracia, fino a costeggiare il Mar Nero e ritornare in Grecia. L'opera è divisa in sette libri dei quali solo il primo racconta il viaggio verso Cunassa; al viaggio di ritorno, invece, sono dedicati tutti gli altri libri.
L'Anabasi di Senofonte la possiamo leggere adesso in un'edizione alleggerita da ogni pesantezza filologica, ma non per questo meno accurata nelle note e nella traduzione: La spedizione verso l'interno (Anabasi) (Quodlibet, pp. 446, € 16,50), a cura di Dino Baldi, un classicista - come leggiamo nella nota biografica - «studioso di storia dell'antichistica e dell'antifilologia». E in una direzione antifilologica (nel senso buono del termine) si muove anche questa versione senofontea, fin dalla copertina (fra le precedenti traduzioni italiane possiamo ricordare una più ‘filologica', a cura di Franco Ferrari, per la Bur, 2008, e un'altra sicuramente più simile a questa nostra, a cura di Valerio Massimo Manfredi, Mondadori, 2007, il quale ha anche scritto un romanzo, L'armata perduta ispirato all'Anabasi): su sfondo bianco, infatti, campeggia un colorato graffito dipinto su un qualche muro della Facoltà di Lettere di Bologna, figure quasi mostruose, ma di un mostruoso intessuto di un buffo e irriverente surreale (eccentrica anche rispetto alle copertine delle due versioni sopra nominate, che riportano la fotografia di un'armatura).
Si tratta, innanzitutto di un'edizione che non presenta il testo greco a fronte; non pare, quindi, tanto destinata allo studente universitario o al filologo quanto invece all'appassionato, al curioso lettore che intende avvicinarsi e scoprire un autore antico. Perché, dice Baldi nell'introduzione, «la sua qualità principale è proprio quella di lasciarsi leggere come pare a ciascuno, ed è un sollievo poterlo proporre, anche qui, semplicemente come un libro di avventure ambientato in paesi lontani e fra popoli dai costumi singolari, pieno di quel gusto per la vita ingenuo, disperato e intenso che si ritrova solo nelle storie di giovani uomini in mezzo ad una guerra». Siamo quindi liberi di leggerlo come un libro di avventure, in una traduzione piana, semplice e costantemente attenta ai fatti (come si premura di notare il traduttore), e di scoprire insieme a Senofonte (che è anche personaggio del libro) tanti popoli sconosciuti, dalle strane usanze, come i Mossineci, una tribù che abita vicino alle coste del Mar Nero, «che si comportano in tutto alla rovescia: fanno l'amore in pubblico e parlano e ridono da soli».
In mezzo a queste avventure e ai ripetuti scontri o alleanze con le popolazioni incontrate ci troviamo di fronte - secondo la definizione di Gerald B. Nussbaum-a una pólis itinerante: una città greca, con tutte le sue usanze e istituzioni, non più stanziale, ma nomade, avvicinabile un po' alla macchina da guerra nomadica di cui parlano Deleuze e Guattari in Mille Piani. E della pólis, il gruppo dei soldati greci in viaggio conserva anche il potere della parola: Senofonte spesso intesse lunghi discorsi ai soldati, o per difendersi da accuse o per semplici esortazioni, trasmettendo al lettore «il potere quasi soprannaturale della parola». Ma questa pólis itinerante, nel suo spostamento, ci svela la fine di un'epoca, proprio l'epoca delle póleis e della grecità classica, un sistema che crolla e collassa sotto il proprio peso (Alessandro e l'Ellenismo sono dietro l'angolo).
L'Anabasi è un'opera che, antifilologicamente, ha goduto di una certa fortuna anche nella contemporaneità: forse non tutti sanno che il famoso film I guerrieri della notte, di Walter Hill (1979), è tratto dall'omonimo romanzo di Sol Yurick (1965) che si ispira direttamente all'opera seno fontea; come i Greci devono tornare al mare e difendersi da ogni attacco nemico così i Guerrieri, la gang newyorchese, deve rientrare a Coney Island (verso il mare) attraversando i pericolosissimi territori delle bande rivali.
Certo, l'Anabasi è, forse insieme alla Ciropedia (che racconta la vita di Ciro il Vecchio), l'opera più nota di Senofonte; non dobbiamo però dimenticare altre opere come l'Economico, il Simposio, o lo Ierone, un dialogo che pone di fronte, appunto, Ierone, tiranno di Siracusa tra il 476 e il 468 a. C. e il poeta Simonide, amico e consigliere del tiranno. Oggetto della discussione fra i due è se la condizione di uomo privato sia preferibile a quella di tiranno. Questo dialogo possiamo ora leggere in una nuova versione a cura di Federico Zuolo, assegnista di ricerca dell'Università di Pavia, il quale allestisce un'edizione precisa e (stavolta) filologica (ma sempre nel senso buono del termine), con tanto di puntiglioso commento: Senofonte, Ierone o della tirannide (Carocci, pp. 134, € 13,00). Se l'Anabasi di Baldi ci pareva più diretta a un pubblico di appassionati e curiosi, lo Ierone di Zuolo possiede una sicura destinazione accademica; lo studioso allestisce una rigorosa introduzione in cui viene spiegato il concetto di tirannide (che, agli inizi, non aveva il valore negativo che assunse in seguito) presso gli antichi, dedicando ampio spazio alle interpretazioni di Platone e di Aristotele, fino a un excursus (senz'altro degno di lode: è importante non rimanere chiusi nell'involucro filologico delle opere antiche ma, quando sia possibile, studiarne la fortuna e la ricezione successive) sulla fortuna del dialogo dal Rinascimento alla Modernità (Bruni, Machiavelli, Rousseau), fino a due pensatori contemporanei come Leo Strauss e Alexandre Kojève.
La fortuna del dialogo attraverso i secoli, secondo Zuolo, «si gioca sui due fattori più originali dello scritto: l'autocritica della tirannide e la possibilità di riformarla». Di fronte alle pressanti domande di Simonide sui privilegi e sulle ricchezze concesse a un tiranno, Ierone risponde che non si tratta di veri privilegi, ma sono tutti dominati dalla falsità, perché le persone che lodano o contornano un tiranno lo fanno solo per paura: un tiranno perciò non conosce né vera amicizia né vero amore. Tanto che - dice Ierone - così grandi sono i mali di un tiranno che non gli resta altro da fare che impiccarsi. Ma, afferma Simonide in conclusione, anche un tiranno può possedere il bene più bello: essere felice senza essere invidiato. Basta che spenda più per il bene pubblico piuttosto che per il privato, che pensi alla salvaguardia e alla cura della città e dei cittadini più che a se stesso. Si parlava di ricezione contemporanea; ecco, molte di queste riflessioni, valgono e devono valere anche ai nostri giorni, e non certo solo per i tiranni.


“alias – il manifesto la talpa libri”, 29 luglio 2012

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