20.6.15

Lucida ragione, aspra eticità. Rossana Rossanda legge Hannah Arendt

L'interesse dell'articolo che segue, un'ampia recensione de La banalità del male di Rossana Rossanda, è nel fatto che va al di là della lettura “banalizzante” che sovente se ne fa, oltre la problematica relativa ad Eichmann, alla sua figura, alla sua “normalità”, per cogliere altri, non meno pesanti, interrogativi del libro, che non riguardano solo il passato. (S.L.L.)

Hannah Arendt
Si moltiplicano in Italia le letture di Hannah Arendt, a lungo trascurata e oggi esaltata dai suoi recenti scopritori come figura chiave della filosofia del secolo. La ripubblicazione in Italia ne La banalità del male, Eichmann a Gerusalemme (Feltrinelli, 2 edizione, 354 pagine, L.40.000) d’un suo lavoro del 1963 - Eichmann in Jerusalem, a Report on the Banality of Evil - è un’occasione per coglierne il particolarissimo accento. Anche per chi conosce il fondamentale saggio sul totalitarismo, ma anche quei Vita activa e La vita della mente che sono le sue opere sistematiche più ambiziose. E' infatti in questo libro e nel Carteggio con Karl Jaspers - anch’esso edito da Feltrinelli, a cura di Alessandro Dal Lago - che la sua riflessione ha registro esatto e più alto.
E' infatti specifica di Hannah Arendt, mi sembra, un’intelligenza del conoscere come indissolubile dall’eticità - l’aspra eticità di che cosa sia il giusto e l'ingiusto, il bene e il male, nell’essere e del fare politico del nostro secolo. Questo è il suo particolarissimo apporto, e raro in una storia del pensiero che di regola tende a dividere i due livelli, come se nel momento della ricerca la problematica morale fosse secondaria, o se nella prassi, nel fare, quello del conoscere fosse aggiuntivo. Questi due libri, che per molti aspetti si richiamano, testimoniano invece della tragicità d’una compresenza ineluttabile: Hannah Arendt non assolve e non si sarebbe assolta in nulla, né sotto il profilo del metodo né sulle conseguenze. Non so se possiamo dirci: «Questo non può essere che il pensiero d’una donna», lei non lo avrebbe detto, neppur ammesso; certo possiamo dire che, per esistere, un pensiero femminile deve come nessun altro tener insieme i due capi che sono stati scissi.

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Con il processo di Eichmann a Gerusalemme il groviglio si presentava in tutta la sua drammaticità: una questione antica, chi può giudicare chi, persona e comunità; una questione di storia recente, il genocidio degli ebrei; una questione di conoscenza, e quindi di metodo, e una di etica, diritto e morale. Donna e ebrea, Hannah Arendt conosceva la problematicità da una vita: nei secondi anni Venti, giovanissima, aveva studiato a Friburgo con Heidegger e con Jaspers e poco dopo, mentre ambedue restavano in Germania (erano «ariani», Jaspers aveva una moglie ebrea), era dovuta emigrare. Heidegger era stato non solo un affascinante maestro, ma un amore, tenuto nascosto per ben sei anni giacché egli non intendeva mettere a repentaglio nulla di sé. Hannah nulla gli rimprovererà mai sul piano personale, ma tutto, e certo non senza dolore, su quello politico - «un assassino» scriverà a Jaspers in un momento di esasperazione - e non esiterà a verificare lo spessore del suo pensiero da Sein und Zeit, su un metro al quale del resto l’arroganza di lui non avrebbe negato legittimità. Ma la necessità di pensare il complesso senza alcun relativismo riesplode in Eichmann a Gerusalemme.
Eichmann era stato l’organizzatore della deportazione degli ebrei in Germania, lo specialista, per così dire, pratico del loro sradicamento dal territorio verso «altro» prima, verso la «soluzione finale» poi. Non lo avrebbe mai negato, anche se sulla natura e dell’«altro» e della «soluzione finale» si schermisce dalla responsabilità - si disse sempre che volentieri li avrebbe portati nel Madagascar a vivere felici. E tuttavia finché potè dal 1945 si sottrasse, fuggì e si nascose in Argentina, dove i servizi segreti israeliani lo rintracciarono, sequestrarono e portarono in Israele, per processarlo poi, come avvenne, e condannarlo a morte. Hannah Arendt, che normalmente non faceva reportages, aveva accettato nel 1961 di seguire il processo a Gerusalemme per il “New Yorker” (e l’averlo fatto per questa testata, non priva di qualche intellettuale mondanità, non mancò di esserle contestato, come se avesse potuto andare in altro modo). Vi era andata senza preconcetto sfavorevole al tribunale, e non senza aver riflettuto se Israele avesse o no diritto di violare una regola internazionale, come era sguinzagliare i suoi agenti in cerca dei criminali di guerra per il mondo: la risposta che dà a questo punto è, per così dire, la prima in problematicità, giacché lei crede fermamente che non si deve violare la territorialità d’uno stato e il diritto di ciascuno di essere giudicato dai suoi per una pena commessa nella propria terra, e assieme sa che gli ebrei non ebbero mai la possibilità di essere considerati a casa propria, e per la prima volta avevano uno stato, il solo che si sarebbe assunto l’onere di affrontare non le efferatezze del nazismo, ma quella specifica efferatezza che era stata la teoria e la pratica della soluzione finale.

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Tuttavia questa scelta, in senso proprio ambigua, sarebbe rimasta tale per l’incapacità o impossibilità o fatica del tribunale di andarvi a fondo, perché erano poi degli uomini, e diversi fra loro a comporlo, così come l’orrore patito rendeva difficile tener fermo che, come Arendt ricorda, al centro del processo sta il colpitole e non la vittima, ed è questo che separa il far giustizia dal far vendetta. L'eccezionalità del crimine - gli ebrei erano stati perseguitati sempre, ma nessuno aveva pensato e tanto meno dichiarato prima del nazismo che andavano estirpati dall’umano genere - e quella del tribunale, e quella delle regole da tener ferme, tutto questo divaricò a ogni momento il processo.
Arendt si trovò di fronte a due domande senza risposta, senza soluzione: la prima è dunque la sua condizione, la seconda la figura di Eichmann, che sia nel dibattimento in aula sia nella lunga confessione resa in carcere e passata agli atti, lungi dall’essere un mostro di sicurezza, appariva un burocrate di modesta intelligenza e ancor più modesta capacità di interrogarsi su quel che faceva: così banale era lo strumento di tanta atrocità, un essere moralmente acefalo, che più che a Norimberga la tematica della sproporzione fra persona e atti compiuti, coscienza e obbedienza, e quindi colpa, diventava veemente.
Questo tema dà il titolo al libro ma non non è l’aspetto più importante. Che il nazista fosse un essere comune, e non un mostro, era già stato oggetto di libri e film, sempre disagevoli perché sarebbe più confortante collocare fuori della normalità l’assassinio. Se mai, quel che Hannah Arendt vede nella personalità dell’imputato, è che neli massimo della normalità «ordinata» sta il minimo della problematica morale, perché sta il minimo, lo zero della libertà. Ma questo è anche l'oggetto del suo lavoro sul totalitarismo.

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L’elemento dirompente della sua ricerca era altrove. Di fronte alla portata distruttiva di questa volontà piccola, Hannah Arendt era andata a studiarsi da vicino la storia delle deportazioni nei diversi paesi, e ne aveva veduto una qualche diversità sia nei deportatori - punto che accentua le responsabilità dei singoli governi - sia nell’atteggiamento assunto dalle comunità ebraiche per difendersi. Talvolta incapaci di capire a che cosa realmente si trovavano di fronte, talvolta indotte a contrattare e, nella speranza di salvare i più, disposte a concedere ai nazisti quelli che parevano i meno. Per cui Hannah Arendt si chiedeva a un certo punto senza ambasce se alcune comunità non avessero contribuito al massacro, e si rispondeva che se esse non fossero intervenute e ognuno avesse cercato di scampare per conto suo, ci sarebbero state meno vittime di quante non ci furono. Si può capire come il libro suscitasse reazioni violente.
Come, un’antifascista, un'ebrea, osava interrogarsi sia sul processo, sia sul mostro, sul suo popolo? Si poteva dubitare come lei che Eichmann fosse inumano - dunque disumano, fuori dell’umano al punto che la stessa Corte, per onorare il diritto di difesa, gli aveva dovuto dare un difensore non ebreo - peggio, considerare, come Arendt faceva capire, che c’era in questo una sottrazione, una fuga dell’ebreo dal dover essere universalmente giusto? Si poteva scrivere che alcune comunità avessero agito contro se stesse, con il nemico mortale? Partì un’ondata di attacchi, dei quali - per la incessante attenzione di lei alle ragioni che sottostanno ai comportamenti - dovette percepire l’insopportabilità del dolore, l’insostenibilità d’uno sguardo lucido, la pesantezza del sentirsi in qualche modo deprivati del diritto d’una nazione alla vendetta - e che perciò debbono esserle apparsi ancora più pesanti. Ma non l’avrebbero fatta vacillare: nell’appendice al volume, la scrittrice conferma tutto seccamente. Alla natura politico-morale dell’attacco, per lei avrebbe risposto Mary MacCarthy, - scrittrice dal carattere non si può immaginare più diverso - un’intelligenza che dava il suo meglio nella decriptazione demolitoria di situazioni e persone, e tuttavia la sua più fedele amica. Ma ancora due anni fa la ripubblicazione in Francia del volume sarebbe stata accompagnata da quelle antiche accuse, un po’ più subdole. L’intellettualità ebraica sarebbe tornata a dibattersi di fronte alla razionalizzazione arendtiana: a chi era stato azzerato nell’impossibilità d’una scelta, negato nell’esistere era venuta una esperienza che nessuno potrebbe comprendere e che quindi, in qualche modo, esime dalla comunicazione.

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Nulla però può esimere dalla comunicazione, senza che neghiamo alle radici sia il conoscere sia l’eticità, il senso dell’essere e una collettività di umani. Questa, è la posizione di Hannah Arendt. E questo fa dell’epilogo del libro, un saggio a sé di interesse ricorrente: chi oggi in Italia, di fronte a minori tragedie, chiede a se stesso quel che lei chiede? Chi vive assieme e fino in fondo il travolgimento del dolore, nel corpo e nella esistenza, e la necessità d’una regola «astratta»? E che cosa, dal 1960 ad oggi, è venuto ad accrescere la tematica del diritto di ciascuno di essere giudicato nel proprio stato, di ogni stato a giudicare i suoi, o a modificare il crimine di guerra dopo il Golfo o a ridefìnire il genocidio o i crimini contro l'umanità? Arendt indica, con il suo dito implacabile, che qui dopo il 1945 ci si è fermati – e il suo discorso parrebbe valere oggi più di ieri.
E' da sperare che questo esempio della dignità del pensiero politico susciti le più acerbe passioni, piuttosto che sparire nella pletora delle parole.


“latalpalibri – il manifesto”, 16 ottobre 1992

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