20.6.15

Rinascita di un'esigenza. Stabilire un tetto per i redditi (Sam Pizzigati)

Mentre la povertà solleva unanime indignazione - combatterla è il solo modo per rendere il mondo più giusto -, raramente si percepisce la ricchezza come un problema. Ma la tempesta finanziaria fa riemergere il legame tra l’una e l’altra. Insieme all’idea nata negli Stati uniti più di un secolo fa di porre un tetto ai redditi più alti. E' questo il tema dell'articolo che segue, tratto da un numero di “Le Monde diplomatique” del 2012 e tradotto per l'edizione italiana curata dal “manifesto” da G. P. L'autore è ricercatore associato all’Institute for Policy Studies (Washington DC) e caporedattore del sito Too Much (http://toomuchonline. org). Autore di The Rich Don't Always Win: The Forgotten Triumph Over Plou-tocracy, 1900-1970, That Created the Classic American Middle Class, Seven Stories Press, New York, 2012.

Tra le rivendicazioni dei militanti del movimento Occupy Wall Street, ce n’è una che affonda profondamente le sue radici nella storia degli Stati uniti: stabilire un tetto per i redditi alti. Dall’epoca dorata del dopoguerra civile americano, le grandi mobilitazioni a favore della giustizia economica hanno sempre riproposto questa richiesta, oggi chiamata «salario massimo». La formula, che non si riferisce solo al salario, ma alla totalità dei redditi annui, permette di creare un legame di contiguità con la nozione di «salario minimo».
È il filosofo Felix Adler - noto soprattutto per avere fondato e presieduto, all’inizio del XX secolo, il National Child Labor Committee - che, per primo, ha avanzato questa rivendicazione. Riteneva che fosse lo sfruttamento dei lavoratori, giovani e vecchi, a produrre quelle immense fortune private che esercitano un’«influenza corruttrice» sulla vita politica americana. Per porvi un freno, proponeva di realizzare una fiscalità fortemente progressiva che, oltre una certa soglia, arrivasse anche al 100% d’imposizione. Un tasso che avrebbe lasciato all’individuo «tutto ciò che può veramente servire alla realizzazione di una vita umana» e gli avrebbe tolto «ciò che è destinato allo sfoggio, alla superbia, al potere».
Malgrado l’ampio spazio dato dal New York Times all’appello di Adler, bisogna aspettare il primo conflitto mondiale perché la nozione di «salario massimo» conosca una traduzione legislativa. È infatti per finanziare lo sforzo bellico che i progressisti propongono di tassare nella misura del 100% i redditi superiori ai 100.000 dollari (cioè 2,2 milioni di dollari nel 2010).
Il gruppo che sostiene la misura, l’American Committee on War Finance, conta su duemila volontari disseminati in tutto il paese. Pubblica nei giornali dei tagliandi staccabili che i lettori possono firmare, impegnandosi così a «operare per la promulgazione rapida di una legge» sulla limitazione dei redditi: una «coscrizione della ricchezza», secondo le parole del comitato. «Se lo stato ha il diritto di confiscare la vita di un uomo per soddisfare l’interesse generale, allora deve certamente poter requisire la ricchezza di alcuni per le stesse ragioni», dichiara il suo presidente, l’avvocato Amos Pinchot, davanti al Congresso, prima di sottolineare che il 2% degli americani detiene il 65% dell’insieme delle ricchezze del paese. «Gli Stati uniti, così come qualsiasi altro paese, non possono condurre una guerra che serva sia gli interessi dei plutocrati che quelli della democrazia. Se la guerra serve Dio, non può servire Mammona», conclude. Pinchot e i suoi compagni progressisti non hanno vinto la battaglia, ma la loro campagna ha profondamente modificato la fiscalità nazionale: il tasso d’imposizione superiore sui redditi che superano il milione di dollari passa dal 7% nel 1914 al 77% nel 1918.
La «paura rossa» che segue la prima guerra mondiale annienta le speranze di un’America più egualitaria. Tornata al potere, la destra fa di nuovo degli Stati uniti una nazione accogliente per i molto ricchi. Negli anni ’20 si assiste a un rapido processo di concentrazione della ricchezza. Al Congresso, democratici e repubblicani si battono per ottenere una riduzione delle tasse sugli alti redditi. Nel 1925, il tasso d’imposizione massimo è del 25%.
Ma la crisi del 1929, che porta l’economia sull’orlo del baratro, sposta nuovamente gli equilibri. Nel 1933, un quarto dei lavoratori americani è senza lavoro. Ricompare la rivendicazione di un tetto dei redditi. In Louisiana, Huey P. Long, giovane senatore in ascesa, lancia il movimento Condividiamo la nostra ricchezza, che si estenderà in tutto il paese. Propone di stabilire un tetto di 1 milione di dollari per i redditi annui individuali - il che rappresenterebbe più di 15 milioni di dollari nel 2010 - e di 8 milioni di dollari per il patrimonio.
Nel giugno 1935, il presidente Franklin Roosevelt scandalizza l’America facoltosa annunciando la sua intenzione di «fare pagare i ricchi» per risolvere la crisi. Crea allora una tassa del 79% sui redditi superiori a 5 milioni di dollari (circa 78 milioni di dollari nel 2010). La decisione - e l’assassinio di Long nell’agosto 1935 - allontana per un po’ l’idea di un reddito massimo. Ma questa risorge nell’aprile 1942. Roosevelt, inspirato da diversi sindacati, propone di creare un reddito massimo in tempo di guerra, fissato a 25.000 dollari per anno (circa 350.000 dollari nel 2010). Senza arrivare a tanto, nel 1944, il Congresso fissa il tasso d’imposizione dei redditi superiori a 200.000 dollari a un livello ineguagliato: il 94%.

I più ricchi avrebbero un interesse personale e diretto al benessere dei meno ricchi
Nel corso dei due decenni successivi - un periodo di grande prosperità per la classe media americana -, il tasso d’imposizione superiore si aggira attorno al 90%, prima di scendere a meno del 70% durante la presidenza di Lyndon Johnson (novembre 1963-gennaio 1969). Con Ronald Reagan, il tasso si riduce ancora, per arrivare al 50% nel 1981, poi al 28% nel 1988. Oggi, è al 35%. Ed è già troppo, secondo alcuni. Ma, fortunatamente per più ricchi, la maggior parte dei redditi da loro dichiarati proviene dai guadagni da capitale, dai profitti realizzati grazie all’acquisto e alla vendita di azioni, obbligazioni e altri attivi, i quali sono tassati solo nella misura del 15%. Una statistica riassume l’evoluzione: nel 2008, i quattrocento contribuenti più ricchi hanno intascato 270,5 milioni di dollari ciascuno e pagato il 18,1% d’imposte allo stato federale; nel 1955, avevano guadagnato 13,3 milioni di dollari (in dollari costanti, tenuto conto dell’inflazione) e pagato il 51,2% di tasse.
Il dibattito si è spostato. Oggi, gli eredi di Adler, Pinchot e Long si focalizzano sulle imprese più che sugli individui. Secondo loro, i diversi livelli del potere (locale, statale, federale) dovrebbero utilizzare il fatto che le imprese private ricevono soldi pubblici - sotto forma di ordinazioni di stato, di sovvenzioni allo «sviluppo economico» o di vantaggi fiscali - per esigere da loro nuove politiche salariali. Neppure un dollaro proveniente dalle imposte dovrebbe finire nelle casse di imprese che pagano i loro dirigenti dieci, venti, se non cinquanta volte più dei salariati (I grandi manager americani guadagnano attualmente trecentoventicinque volte più del salario settimanale medio). «Oggi lo stato federale rifiuta di firmare contratti con imprese che hanno pratiche di reclutamento razziste o sessiste. Lo stesso principio potrebbe essere invocato per rifiutare contratti a quelle che, con i salari esorbitanti dei loro dirigenti, aumentano le disuguaglianze economiche della nazione », sostiene un rapporto dell’Institut for Policy Studies.
Lo scolpo ultimo? Un vero salario massimo, indicizzato sul salario minimo, che assumerebbe la forma di una fiscalità fortemente progressiva, così come aveva proposto Adler un secolo fa. Il massimo sarebbe definito come un multiplo del minimo e ogni reddito superiore a dieci o venticinque volte questo minimo sarebbe colpito da un’imposta del 100%. La disposizione incoraggerebbe e alimenterebbe quasi immediatamente una forma di economia solidale: per la prima volta, i più ricchi avrebbero un interesse personale e diretto al benessere dei meno ricchi.
Prima del movimento Occupare Wall Street, una simile prospettiva non era che una fantasia politica. Ora non più. Segno dei tempi: due eminenti universitari americani, uno giurista a Yale e l’altro economista a Berkeley, hanno pubblicato sul New York Times una convincente perorazione a sostegno di una riforma fiscale che limiti il reddito medio dell’ 1% degli americani più ricchi a trentasei volte il reddito mediano. Oggi il salario minimo è considerato un dato sociale acquisito. Perché non il salario massimo?


“le monde diplomatique – il manifesto”, febbraio 2012

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