13.6.15

Tanizaki. L’eleganza proibita della carne (Gian Gaspare Napolitano)

L’intervista che “posto” qui di seguito, scritta il 13 dicembre 1962 da un grande giornalista scomparso, corredava la prima edizione de La chiave di Junichiro Tanizaki edita da Bompiani. Fu poi mantenuta anche nella successiva edizione del romanzo fatta da Mondadori collana degli Oscar. Fu ripresa dal “Venerdì di Repubblica”, come un “raro documento che ci restituisce Tanizaki in presa diretta”, nel 2002, in occasione dell’uscita, sempre da Bompiani, dell’opera omnia del grande scrittore giapponese. (S.L.L.)
Junichiro Tanizaki (1886 - 1965)
Il vecchio scrittore era malato, sofferente, non vedeva quasi più nessuno, e comunque non abitava nemmeno a Tokio ma sulla riviera, ad Atami. Pure io non volevo rinunziare a vedere Junichiro Tanizaki. È curioso come, arrivando sul posto, persino la letteratura di un paese acquisti un rilievo nuovo, come un paesaggio inquadrato da un binocolo e finalmente a fuoco giusto. Adesso che conosco Tokio, la sua folla paurosa, i quartieri notturni con le migliaia di bar, mi è anche più facile intendere certi autori morti suicidi giovani e disperati come Akutagawa ( Rashomon), Dazai (Il sole si spegne) o Nagai (Storia di una prostituta). Ma Tanizaki a settantasei anni è fra i pochi artisti giapponesi arrivati alla vecchiaia, indice certo di una esistenza confortata fino a ieri da una eccellente salute, fisica e morale.
Conoscevo di lui il libro che gli ha procurato fama improvvisa e avvampante in America, La chiave. È il racconto della passione morbosa di un uomo di mezza età, per una moglie più giovane di lui.
La materia del libro è scabrosa ma lo stile è casto e a tratti quasi scientifico. Sono più le cose a cui si allude che quelle dette nel corso di poco più che cento pagine. Ed è proprio qui la forza e la modernità di uno scrittore come Tanizaki. La tecnica de La chiave somiglia per altri versi a quella della pittura giapponese. È una storia dipinta con pochi tratti essenziali, come potrebbe essere un racconto galante iscritto in un paravento. Del resto Tanizaki quando lo vidi, fra le poche cose che riuscii a farmi dire, mi spiegò che lavorava appunto all’antica, scrivendo inginocchiato innanzi a un tavolino minuscolo, e servendosi di pennellini. Ciò non toglie che La chiave abbia toccato il punto dolente della condizione umana nipponica, una piaga tanto più inguaribile quanto più nascosta, e cioè la difficoltà delle relazioni fra i due sessi, specie in un periodo come questo di transizione.
Ma ecco che lo scrittore, assicuratosi che non lo avrei stancato con troppe domande e mi sarei trattenuto poco, consentiva a ricevermi. Mi consigliava, sempre per telefono e interposta persona, non parlando lui nessuna lingua straniera, di arrivare con un interprete.
Il signor Ibuki, già segretario dello scrittore per cinque anni, ora impiegato della Chuo Koron, la casa editrice di Tanizaki, si prestò gentilmente a farmi da guida. Era un giovanotto di ventotto anni, studiosamente vestito all’americana e con i capelli a frangetta. Mentre ci recavamo insieme alla casa dello scrittore, Ibuki, che gli era molto devoto, mi raccontò molte cose. Per prima cosa parlammo di Le sorelle Makioka, un grosso romanzo di oltre cinquecento pagine, considerato il capolavoro di Tanizaki. L’avevo giusto letto nei giorni precedenti all’intervista, e dissi a Ibuki che mi sembrava scritto da una mano differente da quella che aveva disegnato La chiave. Ibuki mi spiegò che Le sorelle Makioka era stato composto durante la guerra, e anzi la censura ne aveva proibito allora la pubblicazione.
Mi informai del perché. Ibuki non riusciva a spiegarlo non avendo memoria diretta degli anni della dittatura militare. «Forse è perché il libro è così distaccato», mi disse. «Racconta una storia che non ha niente da spartire con il momento politico che attraversava il Giappone». Il romanzo è infatti la cronaca di una famiglia che si consuma e dissolve perché è troppo orgogliosa e raffinata per vivere e lottare nei tempi moderni. Chissà forse in questo destino i censori videro un oscuro simbolo, una qualche politica allusione, spiega Ibuki. Come se quella famiglia condannata fosse il Giappone. Al centro della vicenda, che si svolge a Osaka, come a dire la Milano nipponica, campeggiano le quattro sorelle Makioka, e specie la terza, Yukiko; e il suo tema principale consiste infatti negli inutili sforzi della famiglia tutt’intorno per procurarle un marito degno di lei.
Yukiko è una vera donna, delicata, gentile, maestra nell’arte di preparare il tè, disporre i fiori, comporre versi in una superba scrittura, ma per quanto debole e quasi passiva all’apparenza, trova la forza di rifiutare uno dopo l’altro una lunga catena di mediocri pretendenti. Di carattere opposto è la più giovane e moderna delle sorelle, Taeko, che finisce per sfuggire all’influenza della famiglia, emigrare a Tokio, impiegarsi in un ufficio, concedersi a destra e manca sino al concepimento di un figlio prematrimoniale, e sposarsi alla fine, con un barman.
La seconda delle sorelle Makioka sarebbe donna di raro buonsenso ed equilibrio se il ricordo favoloso dell’infanzia comune non la spingesse a lottare, con ogni mezzo lecito ed equivoco, per tenere insieme la famiglia. Ma è un’impresa che non riesce neanche alla primogenita, Tsuruku, l’orgoglio fatto persona, indomabile e incorruttibile. Ma è sposata con molti figli a un dabben uomo che le esigenze del lavoro conducono a Tokio, dove Tsuruku, la vestale, è costretta a seguirlo, abbandonando la casa degli avi, per un paese in cui il nome aristocratico dei Makioka non conta niente.
Per il signor Ibuki non ci sono dubbi, Tanizaki è lo scrittore più importante del Giappone, e anzi lo era anche prima della consacrazione internazionale, se si pensa che l’edizione delle sue opere complete risale al 1930. Ma Le sorelle Makioka non fu pubblicato dopo la guerra? Sicuro. La prima edizione si chiamava anzi La neve gentile ma solo dopo che lo scrittore ne ebbe cambiato il titolo il romanzo ebbe successo. Ma forse ho ragione anch’io quando parlo di uno stile differente. È accaduto, a Tanizaki, di rinnovarsi completamente a causa della guerra e di qui la straordinaria attualità de La chiave. Prima era un letterato squisito a cui si deve fra l’altro la trascrizione in giapponese moderno del romanzo galante dell’undicesimo secolo della baronessa Mura-saki La storia del principe Genji.
«Che tipo di uomo è?» chiedo a Ibuki. «Lo vedrà fra poco, ma non si aspetti troppo, non è uno a cui sia mai piaciuto parlare». Arrivammo così ad Atami, che è una stazione di cura sul Pacifico, e sottraendoci agli inviti delle guide turistiche e degli autisti degli alberghi montammo in un tassi. Junichiro Tanizaki abita in una villa di legno sulle pendici del monte Isu in vista del golfo. Dalla veranda si vedono due isole stupende: quelle di Oshima e di Atsushima.
Ci togliemmo le scarpe e tentai senza riuscirci di infilare i piedi in un paio di pantofole destinate agli ospiti di buona corporatura. Infine entrai, camminando sulle stuoie come un personaggio di Pierre Loti, in un piccolo salotto ammobiliato all’occidentale.
Ci ricevette con molti inchini la signora Tanizaki. Lo scrittore arrivò poco dopo zoppicando e si sistemò in una sedia a rotelle. Vestiva un kimono di lana, e di lana erano i guanti che gli lasciavano libere le dita. I suoi occhi dalla cornea giallastra e acquosa ci osservavano con curiosità. Lesse il nostro biglietto da visita, si fece spiegare ancora chi eravamo, e poi disse, cortesemente: «Ah so». L’artrite lo faceva molto soffrire ma si era alzato per riceverci. Dal mare, dai pini della collina, dalla veranda aperta arrivava un’aria umida e salina. Tuttavia una piccola stufa elettrica era accesa accanto a lui. Lodammo la sua casa e subito ci spiegò che si trattava di un padiglione di legno prezioso trasportato sino là dal recinto imperiale di Tokio. Come riprese a lamentarsi del suo male gli dissi che sarebbe dovuto venire in Italia a curarsi. Nel golfo di Napoli c’era un’isola con dei fanghi miracolosi. «È troppo tardi» -, disse il vecchio scrittore. «Ho tanto desiderato di andare in Italia o in Francia, quando ero giovane e ora che avrei il denaro non ho più tempo. Potrei morire durante il viaggio». Era stato soltanto in Cina, molti anni innanzi. Intanto venivano servite diverse qualità di tè, prima verde e senza zucchero, poi scuro e dolce, con pasticcini, dalla moglie e da una domestica che ci passava le tazze stando in ginocchio accanto a noi.
Il silenzio del vecchio scrittore fini ben presto per appiccicarsi a noi come un panno bagnato. «Lavora ancora?» domandai. Tanizaki disse di sì.
Stava scrivendo la storia di tutte le serve, cuoche, cameriere e donne di fatica che avevano servito in casa sua da quando era bambino. «È un’opera molto curiosa», osservai.
Lo scrittore sorrise. Ammise che si trattava di un’«opera singolare». «Quello che mi dispiace di più», osservò con voce chioccia, quando più nessuno si aspettava che parlasse, «è di non poter mangiare e bere a mio piacimento come una volta». «Il signor Tanizaki», commentò Ibuki con un sorriso, «è stato un grande gaudente, un vero e proprio gourmand, anzi gourmet».
Degli scrittori giovani non vedeva nessuno e aveva l’aria di volerli, oltre tutto, ignorare. Lodò l’opera lirica italiana, nominò Pirandello, ma per confessare di non averne mai visto una commedia. «Sono un vecchio giapponese», disse con civetteria. Ibuki mi avvertì di non prenderlo sulla parola. Tanizaki si era laureato a Tokio con una tesi sulla letteratura inglese. «Si può dire che gli anni della sua gioventù furono vissuti sotto il fascino di scrittori come Poe, Baudelaire e Oscar Wilde». Gli chiedo se ebbe mai difficoltà finanziarie. Risponde di no. Suo padre era un ricco mercante ma da quando cominciò a scrivere, terminati gli studi, non ci furono problemi di questa natura per lui. «Vero è che allora ci si accontentava di poco», sogghigna. «È nato a Kioto o a Osaka?» A Tokio, dove visse sino al terremoto del 1923. Si ritirò da allora a Kioto poi a Osaka, e furono i suoi anni migliori.
Parliamo delle sorelle Maioka e ottengo altri dettagli. La pubblicazione, iniziata durante la guerra, fu sospesa dopo il primo volume. Apparve con quel titolo di La neve gentile. Cosa significa? È un’allusione alla fragile bellezza di Yukiko. la protagonista. Continuò a lavorare, rivivendo nella fantasia il tempo della pace e della dolcezza. Ma non era capace di isolarsi completamente dalla tempesta intorno a lui, e scriveva con cuore colmo di disperazione e di rimpianto. «Ma ora ho freddo», concluse. Gli portarono un pennellino con il quale firmò per me una fotografia e fu portalo via. La signora Tanizaki mi accompagnò sino nella strada, minuta. gentile, confusa.
Tutto era durato meno di trenta minuti. «Che cosa ne pensa?» mi chiese lbuki. «Che le donne gli debbono essere piaciute molto». Ibuki non rispose subito. «Ha visto il Diario di un vecchio»?, chiese poco dopo. Parlava del film uscito in questi giorni.

«No. Cosa avrei dovuto notare?». «Che il protagonista è truccato come Tanizaki, inclusi i mezzi guanti. Con la differenza che nel film l’uomo soccombe al fascino di una ragazza di vent’anni».

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