2.7.15

Scandalosi collant (Alessandra Vanzi)

Gambe. In un bel film di Francoise Truffaut che si chiama Finalmente domenica il protagonista guarda le gambe delle donne dalla finestra rasoterra di un seminterrato in cui è nascosto, ciò gli procura un grande godimento e lo distrae dal resto. Fanny Ardant, segretaria di lui innamorata, se ne accorge e passa e ripassa volutamente davanti alla finestrella; in un altro film, sempre di Truffaut, L’uomo che amava le donne nella prima scena al funerale del protagonista l’inquadratura, che ha il punto di vista della cassa da morto, ci mostra una lunga processione di gambe selezionate con cura: belle, scattanti, longilinee, più o meno polpacciute con caviglie sia solide che sottili che si fermano sul terriccio rimosso del cimitero a rendere omaggio al defunto. Tutte immancabilmente inguainate in invisibili calze di nylon. «Le gambe delle donne sono compassi che misurano il globo terrestre in tutti i sensi donandogli il suo equilibrio e la sua armonia».
Sono davvero belle a vedersi tutte quelle gambe vestite di calze trasparenti e seducenti. Peccato che la fabbrica di Faenza che le produce, la Omsa e la Golden Lady, fabbrica italiana in attivo, abbia deciso di chiudere e licenziare in tronco, con un semplice fax inviato al posto degli auguri durante le feste natalizie, le sue 239 lavoratrici che sono già in cassa integrazione da diversi mesi.
La Omsa, attiva dagli anni Sessanta quando pubblicizzava i suoi prodotti attraverso le gemelle Kessler con quell’«Omsa che gambe!», che attualmente sarebbe meglio trasformare in un «Omsa che schifo!», copre tuttora il 55 per cento del mercato del collant, grazie anche alla Golden Lady, e ha deciso di sbaraccare in Italia per aprire l’attività in Serbia dove il costo del lavoro è pari ad un terzo di quello italiano.
Le lavoratrici continuano a protestare con tutti i mezzi, teatro di strada compreso e un passaparola su facebook che invita a non comprare queste marche pare che cominci ad avere successo. Spero che ne abbia sempre di più, spero che la dissennata scelta di mandare per strada e per stracci tante donne porti sfortuna all’imprenditore che la sta attuando e spero che non si faccia confusione in questi tempi «d’amor patrio» in cui sento spesso parlare di «comprar italiano» tra le marche italiane prodotte all’estero e quelle che anche a costo di qualche sacrificio, resistono sul nostro territorio.
Non basta ragionare sui nomi propri, serve tener d’occhio anche i luoghi di produzione se si vuole veramente partecipare. Così come, insieme alla parola d’ordine “cultura bene comune” si cominci a pensare a “industria bene comune”, parlo di quelle abbandonate, alcune delle quali (in Sicilia di ceramiche per bagni) rilevate da cooperative degli stessi lavoratori licenziati. Utopia: che le forti donne di Faenza si approprino della fabbrica di calze dove hanno perso la propria giovinezza che la facciano funzionare e che usino un bel montaggio di spezzoni di film di Truffaut per farsi pubblicità.


“alias il manifesto” 14 gennaio 2012

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