1.8.15

La storia di Salvatore Giuliano (Nicola Tranfaglia)

La leggenda popolare del bandito Salvatore Giuliano ha percorso la storia della Sicilia quasi per un cinquantennio.
Per dissolversi almeno in parte, sono state necessarie le aperture di alcuni archivi americani e italiani e la desecretazione - da parte del Parlamento - delle carte che riguardavano la strage di Portella della Ginestra del primo maggio 1947, in cui vennero uccisi undici siciliani, tra braccianti e bambini, che festeggiavano il lavoro e la vittoria della sinistra nelle elezioni regionali del 15 aprile appena trascorso.
Così oggi si può finalmente dire che il bandito Giuliano, prima del 2 settembre 1943, data in cui uccise durante un controllo di legge il carabiniere Antonio Mancino, era stato soltanto uno dei piccoli contrabbandieri dell’isola non in regola con la legge che, negli anni di guerra, si arrangiava con piccoli traffici per sopravvivere.
Ma da quel giorno incominciò ad uccidere (il 24 dicembre 1943 avrebbe fatto fuoco con il mitra un altro carabiniere che voleva arrestarlo) e poi a formare una banda che da Montelepre si muoveva per razziare e devastare in giro per tutta la Sicilia occidentale.
Tra il 1945 e il 1947 si svolse in Sicilia uno scontro accanito tra un’anima democratica che era riuscita persino a instaurare alcune repubbliche popolari e un’anima arcaica e reazionaria che era ostile a ogni riforma agraria e si alleava con la mafia per difendere lo statu quo.
Giuliano si rese conto del grande gioco politico che si svolgeva nell’isola e, venendo da una formazione maturata nel regime fascista, si legò ai separatisti di Finocchiaro Aprile e al sogno di unire la Sicilia agli Stati Uniti come 49mo stato di quella grande democrazia.
Venne accolto con tutti gli onori in quella effimera forza politica che aveva legami forti con l’associazione mafiosa siciliana.
E basta leggere le lettere che Giuliano scriveva al presidente Truman e al giornalista Mike Stern che era venuto nell’isola per intervistarlo per rendersi conto delle sue ambizioni politiche.
Al comando militare americano il bandito scriveva una lettera significativa sulle sue intenzioni e sulla lotta che intendeva condurre. «Giorni or sono ho mandato un giovane per informarvi della mia effettiva posizione, la quale al ritorno mi ha informato di qualche cosa ma nulla di concreto: non credete che io sia quel tale bandito che il governo italiano naturalmente dovrà chiamarmi e mi credetti tali di poter lottare anch’io quei vili rossi, vi prego di venire qualcuno a prendere qualche appunto in Sicilia che io stesso le illustrerò».
E, in un’altra lettera di quel periodo, parla del ministro dell’Interno Mario Scelba: «Scelba vuol farmi uccidere perché io lo tengo nell’incubo di fargli gravare grande responsabilità che gli possono distruggere tutta la sua carriera politica e financo la vita. Ho aiutato la democrazia perché la riconoscevo come la democrazia delle altre nazioni. I monarchici li ho aiutati per obblighi personali e non per idea politica».
Nei sette anni in cui scorrazza in tutta l’isola con la sua banda, Giuliano ha rapporti amichevoli con i capi del corpo speciale inviato dal governo in Sicilia per debellare il banditismo: dal colonnello Luca all’ispettore di PS Verdiani e al capitano Perenze.

E dal processo di Viterbo emergerà con chiarezza che la banda, legata strettamente alla mafia, disponeva di permessi e di altri documenti di libero passaggio che erano stati dati a Giuliano e ai suoi luogotenenti Pisciotta e Ferreri proprio da quei militari e poliziotti incaricati di catturarli e assicurarli alla giustizia.
Passeranno ancora molti anni prima che la commissione antimafia presieduta dall’on. Carraro stendesse, ma questo avviene soltanto nel 1976, una relazione precisa e circostanziata che denunciava la collusione che si era verificata in quegli anni tra i banditi e gli organi repressivi dello Stato.
Alla base di quella collusione c’era, per la prima volta, la guerra fredda e il reclutamento dei banditi di Giuliano dalla parte del blocco occidentale in funzione anticomunista.
Di quella partita faceva parte anche la mafia, prima di Calogero Vizzini e poi di Genco Russo, che aveva favorito lo sbarco angloamericano aveva messo i suoi picciotti al servizio della battaglia contro le forze di sinistra che stavano vincendo a livello elettorale in Sicilia e minacciavano i latifondi dei grandi proprietari terrieri tradizionalmente vicini all’associazione criminale.
I separatisti, a loro volta, costituirono, durante gli ultimi anni della guerra e nell’immediato dopoguerra la forza politica legata alla mafia che accreditò Giuliano e la sua banda in funzione anticomunista.
Il partito cattolico, che sarebbe divenuto in seguito il partito di governo, era ancora agli inizi ma avrebbe sostituito i separatisti dopo l’approvazione della repubblica nel referendum istituzionale del 2 giugno 1946.
La parabola di Giuliano e della sua banda si sarebbe conclusa alcuni anni dopo il 5 luglio 1950 quando il bandito, ormai abbandonato dai suoi seguaci, sarebbe stato ucciso di notte in circostanze assai oscure nel paese di Castelvetrano mentre era in corso il suo ultimo tentativo di raggiungere la salvezza e la libertà espatriando negli Stati Uniti.
La relazione di maggioranza della commissione parlamentare dell’on. Luigi Carraro esaminò nel 1976 le tre diverse versioni che erano state avanzate per spiegare quella morte e concluse con alcune frasi problematiche che vale la pena riprodurre: «La Commissione non ha potuto reperire sul punto nuovi elementi di prova che servissero a chiarire, in tutti i suoi particolari, le vicende che portarono all’eliminazione di Giuliano. Gli ostacoli maggiori su questa via sono venuti dal ritardo e dall’incompletezza che hanno caratterizzato la pubblicazione dei documenti relativi alle vicende di quegli anni. Come si è accennato, la stessa Commissione non ha trovato in questo settore la necessaria collaborazione delle autorità governative e non è stata messa in grado di approfondire fino in fondo il rapporto tra mafia e banditismo».
Sul piano del giudizio storico, pur nella impossibilità di ricostruire tutti i particolari, è evidente che alla uccisione notturna del bandito collaborarono la mafia e le forze dell’ordine.
Gaspare Pisciotta, il luogotenente di Giuliano, ebbe sicuramente parte nella vicenda finale, anche se non si può sostenere che la sua confessione, cioè di aver ucciso da solo Giuliano rispecchiasse effettivamente la realtà.
Ma Pisciotta conosceva il segreto di quella morte e non a caso venne ucciso in carcere qualche anno dopo perché non potesse cambiare la versione data all’inizio che copriva con ogni probabilità la responsabilità di altri.


l'Unità 9 dicembre 2009

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