9.8.15

L'ozio di Seneca (Maria Pellegrini)

La poltrona sulla copertina del De otio di Seneca a cura di Stefano Costa (La Vita Felice), indurrebbe a pensare al significato dispregiativo che comunemente diamo alla parola «ozio». Quello di cui parla Seneca - difficile tradurlo con un unico termine - è il disporre del proprio tempo per la meditazione, per la conoscenza di sé, la ricerca della verità e della saggezza; è attività dello spirito, spazio dell'anima, libertà interiore. Punto di riferimento per pensatori di ogni età, soprattutto per anime inquiete, che hanno trovato nelle sue parole sollievo al sopravvenire del pensiero della morte, Seneca affronta qui il problema della scelta tra otium e negotium, cioè tra vita contemplativa e attiva, come opposizione tra la dottrina stoica e quella epicurea. Secondo Epicuro il sapiente non deve partecipare alla vita pubblica, a meno che gravi condizioni non lo obblighino a intervenire per evitare mali ancora peggiori. Lo stoicismo invece prevede la partecipazione del saggio alla vita politica per operare in prima persona a favore della collettività; ma pur ribadendo il valore del negotium come scelta del cittadino romano, riconosce la legittimità dell'otium, inteso come vita dedita alla riflessione, al perfezionamento morale, soprattutto qualora lo si voglia obbligare a tradire la virtù.
Seneca cerca di conciliare le due scuole filosofiche: l’epicurea aspira alla vita ritirata per principio, la stoica per una qualche causa che impedisca la vita attiva. Nel De otio, accusato dal suo interlocutore di essere diventato epicureo, Seneca si difende citando lo stoico Zenone: «Il saggio si occuperà dello Stato a meno che qualcosa lo impedisca», e rafforza il concetto con un'affermazione pienamente coerente con le massime fondamentali della morale stoica rispetto all’impegno politico: «Se non si trova quello Stato che noi ci prefiguriamo, la vita ritirata comincia a essere obbligatoria per tutti». La rinunzia di Seneca all'impegno politico è dovuta alla necessità di allontanarsi da un potere iniquo, il suo ritiro dalla vita pubblica avviene dunque per una causa esterna: «se lo Stato è più corrotto di quanto dovrebbe essere per potervi collaborare, se è invaso dai mali, il saggio non si sforzerà verso l'inutile». Lontano da impegni politici, Seneca tuttavia non si dà per vinto: «L'isolarsi gioverà per se stesso: da soli saremo migliori», precisando che le sue riflessioni nate durante l’otium potranno giovare a tutta l'umanità, l’otium è dunque una scelta pienamente legittima: quando non è possibile dedicarsi alla politica, il ritiro ha comunque una giustificazione sociale perché migliorare se stessi significa poter giovare agli altri.
Ma per Seneca l’allontanamento dalla scena pubblica è un implicita confessione del fallimento del progetto di creare in Nerone il modello dell’ imperatore filosofo. Nella sua vita ritirata non raggiungerà pace interiore e sarà piuttosto un uomo inquieto che s interroga e ripiega su se stesso. Nonostante continui a ribattere che l’otium dello stoico non può essere inazione (i maestri stoici Zenone e Crisippo, nel loro ritiro, furono più utili all’umanità che se si fossero impegnati come comandanti militari o politici), Seneca, osserva Costa, «non riesce a spiegare come sciogliere il nodo paradossale dell’attivismo contemplativo, ma dimostrerà di aver risolto tale paradosso nei suoi scritti seguenti o contemporanei al De otio». Riuscirà a medicare i mali dell’anima e si mostrerà profondo conoscitore delle debolezze umane e austero maestro di precetti etici. (il «Seneca morale» di Dante). Pregio del libro è l'accurata traduzione del testo filosofico, che viene presentato al lettore con una chiara introduzione e alleggerito delle consuete note filologiche e interpretative.


“Alias-talpa-il manifesto”, 28 giugno 2015

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