13.8.15

Orecchiette piacentine (S.L.L.)

Il cacio che piace
Qualche giorno fa i “fratelli formaggiai” avevano in offerta speciale il “piacentinu di Enna”. Il prezzo era davvero invitante per un pecorino che è prodotto di nicchia: 18 o 19; considerato che si trattava di una forma con più di 4 mesi di stagionatura, un vero affare. Non credo che la cosa duri: i “fratelli” fanno prezzi così convenienti quando vogliono invogliare gli adoratori del formaggio che frequentano il negozio all'assaggio di un prodotto che intendono inserire nel loro prestigioso assortimento. Il fratello che me l'ha proposto e venduto insisteva sulla “u” di “piacintinu”, per sottolineare la sua origine siciliana e il fatto che non ha rapporto con Piacenza. Spiegava che il nome è legato al fatto che è un cacio che piace.
La spiegazione l'avevo sentita un centinaio di volte, ma la cortesia mi obbligava a tacere la cosa. Dissi che, da siciliano della Sicilia interna appassionato di pecorini, conoscevo e apprezzavo quel formaggio con pepe e zafferano e ne ordinai un paio d'etti. Non volli raccontare che, assai prima del successo nazionale e del riconoscimento del DOP, molti anni fa, uno zio di mia moglie, un socialista sincero, colto e bon vivant, palermitano, mi aveva fatto assaggiare quel raro formaggio. Era stato deputato regionale a Enna, prima per il Psi poi per il Psiup, e sembrava ben conoscerne l'origine e la storia. Appresi da lui la leggenda che spesso accompagna la proposta dei produttori e le illustrazioni dei gastronomi e fa risalire a re Ruggero il formaggio con lo zafferano. Quanto al nome lo zio Michele – così lo chiamavamo – congetturava un qualche rapporto con Piacenza: con l'unità d'Italia s'era diffuso il prestigio del “parmigiano”, ma nelle campagne dell'Ennese qualcuno – giustamente – ritenne che il prezioso cacio aromatico e giallino di quelle contrade potesse accoppiarsi, come fa Piacenza con Parma, col celebrato formaggio padano, eguagliandolo o addirittura superandolo in qualità.

La ricetta
Navigando in rete ho scoperto che “il piacentinu” è consigliato per arricchire i primi. Non lo sapevo; la pietanza che ho oggi preparata è nata per caso.
Ero andato al Mercato coperto di piazza Matteotti, qui a Perugia, a cercar pesce, ma la pescheria è chiusa. Il Ferragosto rende ancora più squallido quel luogo un tempo assai vivace. Aperti c'erano solo una macelleria e due erbivendoli. Da uno dei due, padre di una mia ex alunna, ho comprato della cicoria selvatica, il tipo più amaro che più amo.
Ho preparato delle orecchiette, ispirandomi a quelle pugliesi con la cima di rapa. La cicoria (l'ho pesata) era quattr'etti dopo la mondatura e ho calato 160 grammi di orecchiette nella stessa acqua dove avevo cotto la verdura (dopo averla salata). Mentre si cuoceva la pasta, io in un padellino bombato ripassavo la cicoria nell'olio dove avevo sciolto tre filetti di acciuga, imbiondito tre spicchi d'aglio rosso di Sulmona (poi tolti) e tagliato a rondelline un peperoncino rosso del tipo non piccante. Ho poi trasferito anche le orecchiette nel padellino bombato per completare la cottura. Per l'amalgama ho aggiunto qualche cucchiaio dell'acqua di cottura e sul finire 60 grammi di “piacintinu” grattugiato. Non so fare i movimenti col polso che sono tanto di moda, io rimescolo in continuazione. Ho continuato a rimescolare per un po', dopo aver tolto dal fuoco, per ottenere una sorta di “mantecatura”. Con l'amico che era passato a salutarmi e a cui avevo proposto un piatto di pasta sciuè-sciuè ho ottenuto un successo clamoroso. E anche a me, scusate l'immodestia, le orecchiette sono sembrate un capolavoro, per la preparazione certo, per la cicoria, ottima e fresca, ma anche per lo straordinario apporto del “piacentinu”.

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