24.9.15

L'inventore delle veline (Mauro Paissan)

«Velinaro». Ci si rivolga con tale espressione a un giornalista: il minimo che può capitare è un cazzotto in faccia. Dalla corporazione è infatti ritenuta l’offesa massima, per sanare la quale non c’è riparazione possibile.
Ogni categoria ha i suoi termini spregiativi. L’arbitro è «venduto», il calciatore «brocco», l’attore «sfinge», il professore «analfabeta», il padre «sorpassato». Il giornalista è, per l’appunto, velinaro. La parola deriva da velina, che è innanzitutto un tipo di carta, quella usata in dattilografia, prima dell’avvento del ciclostile e della foto-copiatrice, per sfornare un numero sufficiente di copie.
La «velina» diventò, durante il fascismo, il foglio sul quale il regime, su indicazione quasi sempre personale del giornalista Benito Mussolini, dava consigli direttive e poi ordini ai giornali, all’agenzia e alla radio dell’epoca, affinché potessero «servire la causa». All’inizio gli ordini venivano dati a voce o per telefono. Poi i giornalisti si stufarono di trascriverli a mano e chiesero venissero impartiti per iscritto. E così vennero battute su carta velina dal Ministero per la cultura popolare, il Minculcop.
Su questo aspetto assai poco conosciuto del ventennio, Paolo Murialdi ha curato una trasmissione televisiva dal titolo Le veline del ventennio. La trasmissione (regia di Vittorio Salerno) oltre che interessante è ben costruita, tutt’altro che noiosa.
Redattore capo del Giorno, poi presidente della Federazione nazionale della stampa, Murialdi è storico del giornalismo: insegna all’ Università di Torino e dirige la rivista «Problemi dell’informazione». Sulla stampa fascista pubblicò nell’80 un saggio nella storia del giornalismo edita da Laterza.
Mussolini, in pratica, fu il direttore di tutti i giornali italiani. Al mattino si leggeva tutte le testate, le annotava con segni blu e rossi, poi chiamava il ministro competente e dettava i suoi ordini: dare rilievo a questo fatto, cancellare quest’altro, evitare quest’argomento, esaltare quest’altro, mettere tre foto, non parlare dell’età del duce, dare a una sola colonna le notizie di cronaca nera, e così via. E i giornali eseguivano, pena il sequestro.
Nei primi anni del regime, dopo la fine della libertà di stampa (1926), il controllo sugli organi di informazione veniva svolto dall’ufficio stampa del capo del governo. In seguito, Galeazzo Ciano lo elevò a sottosegretariato e infine a ministero, il Minculpop, che arrivò ad arruolare fino a ottocento addetti.
Le veline intervenivano su ogni argomento: politica interna, politica estera, sport, cronaca, moda, cinema umorismo, cultura. Su ogni aspetto, una direttiva precisa.
Murialdi è andato a rovistare nell’archivio in cui sono conservate, grazie al fanatismo dell’allora direttore dell’agenzia Stefani (l’attuale Ansa), buona parte di questo materiale. Durante la trasmissione ne percorre l’itinerario, dall’ufficio del capo del governo fino alla pagina stampata. Nella prima puntata vengono affrontati i temi della costruzione del culto del duce, dello sport, della cultura, della cronaca nera.
«Non si dica che la disgrazia al figlio di Agnelli è avvenuta allo Scalo Mussolini, ma si dica che è avvenuta nel mare di Genova». Il duce non poteva portare jella. «Dire che il Duce è stato chiamato dieci volte al balcone».
Gianni Brera racconta in modo assai gustoso la vicenda di Primo Camera, il pugile fascistissimo dipinto come un eccezionale campione e in realtà «un Everest di polenta». Tullio De Mauro commenta la follia dell’eliminazione del «lei» (giudicato troppo femmineo) per sostituirvi il più virile «voi». Il settimanale femminile Lei dovette di conseguenza trasformarsi in Annabella. E infine l’orrore per la cronaca nera, che avrebbe rivelato come anche la società fascista fosse formata da uomini. Le notizie relative ai suicidi sono abolite e non debbono riaffiorare neppure in forma velata».
L’intento di Paolo Murialdi è quello di far capire come erano i giornali e la radio dell’epoca, ma anche quello di ricordare che di veline ne circolano parecchie anche ora. Non più sotto forma di ordini, ma di consigli interessati. Vengono redatte e fatte circolare da giornalisti legati a partiti, correnti di partito, potenti, gruppi economici, organizzazioni più o meno occulte, aziende. «Velinari» sono i loro autori, ma soprattutto i giornalisti che le usano per propinare i loro messaggi ai lettori (o ai radio e tele-spettatori). Allora i giornali non potevano fare a meno di eseguire gli ordini, mentre oggi l’accondiscendenza è puro servilismo.


“il manifesto”, 19 luglio 1984

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