14.9.15

"Nelle vene dell'America". La filosofia di Paperino (Antonio Faeti)

Maggio, a Bologna, da quasi due lustri, ormai, significa anche Anaf. Infatti. l’Associazione nazionale amici del fumetto organizza qui, annualmente, le sue «72 ore del fumetto», quasi sempre sul finire di questo mese.
I «raduni» dell’Anaf non assomigliano, interamente, alle rassegne critico - espositive che si tengono a Lucca, a Prato, a Treviso. Tra le «nostalgie» dei soci fondatori quarantenni — divenuti ormai cinquantenni col trascorrere delle varie «72 ore» — la diversa qualità e quantità della merce «amatoriale», l’onesta dedizione di autentici e disinteressati cultori del medium, negli appuntamenti fissati dall’Anaf si insinua un’atmosfera da «vecchia guardia» fumettistica, non priva di un suo fascino sottile e, a volte, scarsamente resistibile. Quest’anno, l’Anaf aveva in serbo una sorpresa che merita di essere segnalata. Essa tocca problemi e suscita domande di cui intendo pubblicamente riferire, anche se, in alcune occasioni, si approssima a motivi e a temi che ho sempre relegato nella mia sfera più privata. E’ un numero speciale de “Il fumetto”, il trimestrale edito dall’Anaf e riservato ai soci. Il grosso fascicolo è interamente dedicato a Paperino, e appare come una sintesi di tutto quanto è oggi presente negli approcci migliori stabiliti con i personaggi dei comics, al punto che, anche i limiti del tentativo, concorrono, in fondo, a renderlo piacevole e stimolante.
Vorrei subito accennare, velocemente, ai difetti della pubblicazione, per soffermarmi poi, con più attenzione, a considerarne i pregi. Gli ingredienti negativi, reperibili in tutti i prodotti offerti dall’Anaf — e qui alludo, naturalmente, agli interventi critici, non alle ristampe di vecchi autori e alla ricerca di comics inediti o nuovi — possono riassumersi in un globale atteggiamento autoprotettivo, che spinge gli autori di gran parte degli articoli pubblicati, a valersi di un linguaggio spesso modesto e approssimativo, quasi temendo di dover accettare gli esiti di un accadimento, inevitabile quanto opportuno, verificatosi da tempo nell’ambito degli studi dedicati ai fumetti. Le letture interpretative, pertinenti e approfondite, sono, è vero, ancora abbastanza rare, ma non mancano, ormai, opere e autori che hanno costituito irrinunciabili punti di riferimento per l’intero settore della grafica, dell’illustrazione e del fumetto. I critici Anaf continuano, invece, in troppe occasioni, ad esprimersi usando un fraseggio adatto a un circolo di buoni amici, i cui affetti sono consolidati dalla pratica di un hobby caro a tutti i membri del sodalizio, e dalla gelosa custodia di etichettate manie, un tempo individulamente coltivate e ora gelosamente riservate al piccolo gruppo di conoscenti, lietamente afflitti dalla stessa nevrosi.
Fortunatamente, gli effetti deleteri di un simile atteggiamento, pur rendendosi evidenti anche nello «speciale» dedicato a Paperino, appaiono drasticamente ridimensionati dalla cura filologica, dallo scrupolo archivistico, dalla fresca capacità di abbandonarsi alla ricerca e all’indagine, ovvero dai numerosi pregi che valorizzano il fascicolo. Al quale va comunque attribuito il merito di presentare Paperino in una luce nuova e ambigua, aggiungendo non pochi attributi alla definizione di un personaggio che, dopo questa rivisitazione, appare non doversi più provare, dopo quelle ricavate, come onestamente riconoscono i redattori dello «speciale», dalla lettura del buon libro di Marovelli, Paolini e Saccomano, Introduzione a Paperino, edito da Sansoni nel 1974, in cui il grande Donald, dopo la disavventura toccatagli nel 1972, ad opera di Dorfman e Mattelart, veniva affrontato con la cura e con l’intelligenza che gli sono interamente dovute. Infatti, Come leggere Paperino, edito da Feltrinelli, conteneva unicamente il riflesso della ideologica presunzione di Dorfman e Mattelart, mai minimamente interessati a capire davvero Paperino, e solo decisi a soffocarlo con invettive spesso pretestuose, e ad assegnargli compiti e responsabilità non convalidate da autentiche letture, da confronti, da fondate interpretazioni.
Il Paperino che esce dallo «speciale» rivela di possedere una genealogia più ramificata e corposa di quelle solitamente abbozzate dai suoi studiosi. La godibilissima pubblicazione dell’inedito Donald Duck in Mistery of the Swamp mostra, ad esempio, come la versatile e misteriosa vena creativa di Carl Barks si sia sempre nutrita delle radici, insieme colte e popolari, che si riconoscono in una specifica tradizione americana, ma abbia anche attinto al fiabesco e alla produzione fantastica di singoli, importanti autori. L’episodio si svolge nelle Everglades, le paludi maledette che costituiscono uno dei topoi geografici più amati dai disegnatori di fumetti: recentemente ci si è trovato a lottare anche Doting Doug, lo stralunato eroe creato da Cubbino per “Bliz”. Ma, anche se non credo che esista in questo senso una diretta e dimostrabile correlazione, in Mistery of the Swamp, si avverte un indeterminato alone di Tolkien, se non altro nella presenza dei bizzarri Qnasuti, creature vicinissime alla figuralità complessiva del Signore degli Anelli.
Da una simile sponda, tuttavia, Paperino, rimbalza fino a quella in cui lo colloca Giulio C. Cuccolini, con la consueta, accuratissima capacità di cercare e trovare le più riposte e complesse ascendenze dei comics. E’ un Donald arruolato a tempo pieno nei servizi di propaganda dell’esercito americano della seconda guerra mondiale, quello che Cuccolini ricostruisce. Il papero soldato, il nemico beffardo di Hitler, esperto in vari armamenti, diventa poi, nella più curiosa e anticipatrice delle linee consequenziali immaginabili, il subdolo e geniale visitatore delle repubbliche sudamericane, un individuo pericoloso, tanto in pace quanto In guerra.
Con l’inarrivabile maneggevolezza e l’incalcolabile duttilità che lo caratterizzano, Donald appare come un inquietante modello per possibili strumenti di persuasione occulta, non ancora verificati in tutta la loro pericolosità e potenzialità. (In questo spazio avrebbero dovuto utilmente scavare Dorfman e Mattelart, sempre rispettando, tuttavia, la specifica profondità del personaggio, in relazione al medium di cui è un protagonista).
Sulla familiare e urbana schizofrenia di Paperino, tutto o quasi si è detto; molto meno ci si è soffermati, invece, sulla sua contraddittoria apertura al mondi geograficamente più lontani dal proprio e letterariamente più complessi.
Se Paperino può disputare, a un vicino bizzoso, un palmo di cortile o l’uso di una pompa per l’acqua, con toni e con tempi che contengono tutto il male di vivere del nostro secolo, se non esita ad affrontare agenti delle tasse, viaggiatori di commercio, i nipoti, lo zio, e la sua inguaribile ed eterna «fidanzata», con gli occhi e con i tic di chi sembra del tutto perduto, di lui, tuttavia, non dobbiamo disperare. Donald può lasciare l’anatomica precisione con cui elabora la sua dolente diagnosi sulla società americana, e immergersi in un sogno collettivo di cui narra i frammenti, valendosi della cauta e poetica sapienza di un raffinato antropologo. Foscolo Donati offre agli appassionati lettori di Paperino, nel suo contributo allo «speciale», una accurata raffigurazione del «west spagnolo» descritto da Carl Barks. Così, negli episodi famosi: Il segreto delle sette città e Paperino nel tempo che fu, lo vediamo stagliarsi, lieve e sereno, sullo sfondo delle rovine inconoscibili delle città indiane dei canyon, mentre insegue le ombre degli antichi avventurieri spagnoli, ridefinendo una porzione dell’immaglnario americano su cui ben pochi hanno detto cose più intense e struggenti. Inutile citare, a questo punto, film assai noti come L’asso nella manica o quasi sconosciuti come Gli amanti della città sepolta: dell’«antenato» indiano, nascosto sotto le pietre e sotto le polveri delle antiche città, dello spagnolo avido e sprezzante, censurato invano dall’ottimismo puritano del pionieri, hanno parlato in tanti.
Io rammento un volume, da troppo tempo sparito, La casa del professore, di Willa Cather, in cui questi temi venivano affrontati con cauta, allusiva passione, non dissimile da quella di cui Carl Barks dà continua testimonianza, nelle sue storie del west arido e sabbioso, scenario adatto a conservare i misteri storico-antropologici che lo attraggono con tanta insistenza. A questi livelli, naturalmente, l’alto e il basso letterario non possono certo far valere la propria incerta identità e neppure le ragioni con cui, per solito, li si divide. Nel pantano delle Everglades, uno degli Gnasuti non può esimersi dal dire, guardando Paperino e i nipoti: «Sono i primi esseri umani che vedo da quando Ponce De Leon fu qui, nel 1513. Come sono cambiati!».
Dal cortile del tragico suburbium di una qualunque, tipica città, fino alle paludi della Storia rimossa e sempre riaffiorata, Paperino sta «nelle vene dell’America», come poche altre leggende, come i miti, più rilevanti e complessi.

il manifesto, ritaglio senza data, ma maggio 1981

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