13.9.15

“Une petite capitale d'autrefois”. Tra Parma e Parigi (Attilio Bertolucci)

Parma - La fontana Trianon nel Parco Ducale
Nella elegante premessa ai due riccamente illustrati e tipograficamente inventivi volumi in cui è stata racchiusa, con utilissimi aggiornamenti, la traduzione di un libro (Henri Bèdarida, Parma e la Francia 1748-1789, editore Franco Maria Ricci, pagg. 516, lire 320.000), che risale al 1928 ma rimane insuperato sull'argomento, Giorgio Cusatelli apre il discorso con una quasi citazione-omaggio al nostro caro Calvino. "Se un mattino di primavera, volgendo gli Anni Venti alla foce, un viaggiatore...".
Questo viaggiatore poteva essere appunto Bèdarida, o Valèry Larbaud: due francesi molto dissimili, l' uno strenuo studioso comparatista della scuola di Paul Hazard, l' altro narratore, poeta e lettore finto dilettante di tante letterature, discretissimo protagonista di tante avventure nella "vana fatica di vedere paesi diversi". L'uno e l'altro erano in visita a una Parma un po' modesta, rispetto a quando essa fu detta, appunto fra il 1748 e il 1789, l' Atene d'Italia o Crisopoli. La città, sotto Carlo III (presto trasferitosi a Napoli, portandosi via il meglio della quadreria Farnese), Don Filippo e Don Ferdinando di Borbone, era arrivata a quarantacinquemila abitanti quando, mettiamo, Torino ne contava settantacinquemila; possedeva teatri dove le novità di Voltaire venivano rappresentate a un mese di distanza dalla prima parigina; i sottoscrittori alla Grande Encyclopèdie di Diderot si contavano più numerosi che in qualsiasi città italiana, e fra essi nobili, borghesi, ma anche ecclesiastici illuminati; la Stamperia Ducale era diretta dal più gran tipografo di tutti i tempi, Gianbattista Bodoni; i principini li istruiva Condillac, "nouveau philosophe" di grido... Si potrebbe continuare.
Bene. Il viaggiatore Bèdarida, quel mattino di primavera, recava certo con sé una copia fresca del suo libro, di così folta erudizione e di così appassionata simpatia per quel tempo lontano, specie per il suo eroe, il primo ministro Dutillot. Lo portava all'archivista di Stato Don Ercole Drei, prete romagnolo di spirito volterriano e di grande umanità, che aveva accolto nei freddi stanzoni della Pilotta per mesi, anni, il giovane studioso francese, accanito nello scavare fra le carte ammuffite e ora in grado di portargli il bellissimo frutto delle sue ricerche. Non ci si rimproveri se divaghiamo (lasciateci impunito questo vizio); torniamo un istante all'altro viaggiatore, del resto ricordato da Cusatelli, Valèry Larbaud. Che, presentatosi a Don Drei con una lettera di raccomandazione di un erede di quei prìncipi che regnarono a Parma nella seconda metà del Settecento, Don Sisto di Borbone, non scandalizzò il malizioso archivista per la fatuità delle sue indagini: per esempio quante parrucche, cosmetici e profumi s'importavano allora dalla Francia. Di simili apparenti frivolezze dà notizia lo stesso Bèdarida, ed è questo un altro tratto per cui il suo libro è oggi ancora così vivo, così in anticipo sugli storici moderni. Magari un po' stupì il nostro Don Drei l'aria di fattore di campagna che aveva l' amico di Don Sisto; forse egli non sospettò che si trattava della mascheratura di uno degli uomini più ricchi, eleganti e intelligenti d'Europa.
Il terzo viaggiatore che avrebbe potuto visitare Parma, ma alcuni anni avanti, era Marcel Proust, che metteva la città, in coppia con Venezia, fra quelle che più avrebbe desiderato vedere. Non vi riuscì, pazienza. Quel suo desiderio inappagato è però, nelle poeticissime righe in cui venne espresso, emblematico del legame dei francesi con Parma, fantasticamente sublimato in quella grande fiction stendhaliana che è La Certosa di Parma. Il mezzo secolo di cui il libro di Bèdarida tratta vede il ducato di Parma, Piacenza e Guastalla, negli ultimi anni farnesiani immiserito economicamente e declassato culturalmente, rinascere e prosperare à la française nel segno della civiltà dei lumi. Parma e la Francia dà del periodo un grande quadro d'insieme senza trascurare i particolari, apparentemente minori, minimi, e tuttavia degni di memoria perché sempre, a ben guardare, significativi. Fra l'altro, fortunatamente, il quarantennio studiato e fatto rivivere dinanzi ai nostri occhi (le illustrazioni, dalle panoramiche cerimoniali dello Spolverini ai biglietti da visita di purezza tipografica eccelsa dell'officina bodoniana, aiutando) non vede Parma implicata in eventi bellici o politici di rilievo. Bèdarida così può dedicarsi a raccontare, documentando sempre tutto con scrupolo estremo, la vita fervida del piccolo Stato, magari più per quel che riguarda la Corte e i suoi immediati dintorni sociali che non i borghi miseri, gramigna fatale delle città, e le campagne non floride, ma in via di svilupparsi secondo nuovi, moderni e redditizi - almeno per i padroni - metodi di coltivazione. È anche vero, però, che avviando giovani, necessariamente reclutati nelle leve popolari, all'apprendistato nell'ebanisteria, nella fonderia e cesello dei metalli e nella tintura della seta, facendo venire, per istruirli, i maestri francesi e spedendo i più bravi in viaggio d'istruzione a Parigi, Dutillot favoriva concretamente le classi inferiori. Nasceva in quegli anni il mobile di cosiddetto stile parmigiano, meno lussuoso nei legni e nei bronzi di quello parigino da cui traeva il modello, ma, come dire, più umano, tale da viverci insieme con tanta più confidenza.
Gli esiti di quell'educazione al lavoro elegante e ben fatto hanno durato a Parma sino a ieri, forse durano ancora. Sino a quando? In campo culturale, giusta i suoi gusti e le esigenze della Corte, specie di Babette, la duchessa (non dimentichiamolo, figlia di Luigi XV), che voleva a Parma non annoiarsi troppo, Dutillot curò soprattutto il teatro, in prosa e in musica. C'erano stati precedenti nei tempi farnesiani, dal gran teatro, dal Colosseo in legno della Pilotta, alla rappresentazione all'aperto che fu la decapitazione dei feudatari, che sarebbe piaciuta ad Antonin Artaud e forse agli elisabettiani minori; e ci fu il seguito nell'ardente stagione romantica sino al culmine verdiano. L'ultimo dei Borboni, un secolo dopo Don Filippo e Don Ferdinando, Carlo II, viene pugnalato, ed è puro melodramma ottocentesco, mentre sta ammirando, affacciata a un balconcino, una graziosa ballerina del teatro ducale. Così il destino teatrale di Parma riceve dalla storia una conferma stupenda.
Per finire col teatro: leggo in Bèdarida che nel Collegio dei Nobili, oggi Convitto Nazionale Maria Luigia, i giovani recitavano in francese Racine, Corneille, Voltaire. Fra quei giovani, venuti ad educarsi a Parma dalla civilissima Lombardia, si trovavano Cesare Beccaria e Pietro Verri.
Altro campo fervido di scambi fra Parigi e Parma fu allora quello delle arti, dall'architettura alla scultura alla pittura, per le quali venne creata un' Accademia di fama europea, forse, scusate il bisticcio, appena un po' troppo accademica se a un concorso classificò soltanto secondo il grande Goya. Ma, mentre in scultura e pittura, salvo il bravo Boudard, cui si devono ninfe e sileni del Giardino Ducale che nel marmo traducono le voluttuose carni dei Boucher e Fragonard (a loro volta, d'altra parte, sempre in debito verso il divino Correggio), i francesi non esportano in Parma un maestro di grande levatura, inviandoci Petitot ridanno vita all'architettura, alla decorazione, insomma allo stile della città.
Con genialità e grazia Petitot contribuisce al passaggio dal Luigi XV al Luigi XVI, ispirandosi alla classicità greca e romana, ma senza perdere la levità un po' ironica della sua personalità settecentesca. Lo dimostra la singolare cartella dei disegni da lui dedicata a Dutillot e intitolata Mascarade à la Grecque. Dove vivandiere e monaci, pastori e granatieri e sacerdotesse, sposi e spose, sono costruiti con frammenti di colonne, capitelli e altri elementi architettonici antichi. Il campionario di figure chiude con un autoritratto di Petitot stesso su uno sfondo di colonne (e non manca una piramide, forse la Cestia): il titolo è Auteur à la Grecque. Se opere sue come il Palazzo del Governatore, la chiesa di San Pietro, il Casinetto dello Stradone fanno sì che a Parma ci si ricordi di lui, la mancata realizzazione del suo progetto straordinario per il nuovo palazzo ducale ha privato Parma di un'opera unica, che poteva anche più autorevolmente porla fra le capitali europee dell'arte e del gusto settecenteschi. A consolarci resta il Parco Ducale, che viene da un suo armonioso progetto di viali, boschetti, praticelli interrotti da meravigliosi vasi, in cui la fantasia e la misura, le invenzioni e l'ordine si fondono in maniera suprema.
Su questo, e su tanto, tanto altro ci istruisce il libro di Bèdarida riguardante quegli anni francesi di Parma che hanno lasciato un' impronta durevole sulla città e sui cittadini; i quali forse, con una punta di snobismo, non si scordano mai d'appartenere a una "petite capitale d'autrefois" e continuano a tenere ancora a quella cosa in via d' estinzione che è l'eleganza del vestire e del vivere.


“la Repubblica”, 5 gennaio 1986  

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