8.9.15

Vittorini 1940. Quell'Americana scoprì l'America (Nico Orengo)

Era un «paese della mente», era un «gigantesco teatro», era l’America. Lo andavano cercando, attraverso la letteratura, durante gli anni del fascismo, giovani scrittori e intellettuali che in America non erano mai stati, ma che ritenevano quella terra «pensosa e barbarica, felice e rissosa, dissoluta, feconda, greve di tutto il passato del mondo, e insieme giovane, innocente», come scrisse Cesare Pavese. Un «gigantesco teatro» dove dimenticare le meschine e casalinghe dispute pseudoculturali fra «Strapaese» e «Stracittà».
Siamo negli ultimi Anni Trenta, in Francia Gide e Malraux scoprono Steinbeck, Faulkner; Gertrude Stein ospita nel suo salotto gli americani transfughi e inquieti. In Italia «Solaria», la «Ronda», «Letteratura» e «Omnibus», si accorgono di questa «terra promessa», di questo «mito»: Carlo Linati, Elio Vittorini, ne sono gli alfieri, e, anche se in modo più misurato, Emilio Cecchi che nel 35 ha pubblicato Scrittori inglesi e americani e più tardi, nel ’40, America amara.
L’editoria italiana si era accorta di quel paese e di quegli scrittori, ma a darne un’immagine liberatoria ed esemplare furono Valentino Bompiani ed Elio Vittorini, con l’ormai celebre antologia Americana, che oggi viene ristampata nei «Tascabili Bompiani», con un saggio di Claudio Gorlier, note critiche di Giuseppe Zaccaria e, in appendice, l’introduzione di Emilio Cecchi del 1942.
Elio Vittorini verso la fine degli Anni Trenta collaborava con Bompiani: l’editore gli mandava libri, lui faceva schede, consigliava, traduceva: nel 39 era uscito Pian della Tortilla di Steinbeck, nel 40 Piccolo campo di Caldwell. Bompiani gli diceva di non perder tempo a cercar libri di «successo», voleva soprattutto libri «di qualità», che durassero negli anni. In casa editrice, Vittorini ci entrò per curare una serie di letteratura universale, la serie «Corona». E da quella collezione in seguito nacque la «Pantheon», che avrebbe dovuto raccogliere antologie di letteratura dedicate a ogni paese. In quella sede uscì Germanica. Il prossimo appuntamento sarebbe stato, decisero Bompiani e Vittorini, Americana.
E fu allora che iniziarono i guai. Vittorini si buttò al progetto con un «vitalismo illuministico», come l’ha assai intelligentemente definito Claudio Gorlier. Incominciò a cercar romanzi americani, a stendere quel mosaico di pagine con il quale avrebbe costruito un’allegoria dell’America, fatta in modo tale, che, scrisse «chi l’accetterà sarà americano in tale senso, puro, nuovo... sarà americano al cento per cento».
Nei suoi desideri c era quello di scrivere un cappello per ogni autore scelto, di accompagnare i testi con un’antologia fotografica che per immagini raccontasse il paese e i suoi abitanti. I cappelli avrebbero costituito una sorta di «breve storia della letteratura americana». Ne parlava in giro, raccoglieva pareri, indicazioni. Pensò che i traduttori dovevano essere a loro volta scrittori, solo così sarebbero venuti fuori tutti gli umori di quella narrativa d’oltreoceano. Chiese aiuto ad Alberto Moravia, a Eugenio Montale, a Guido Piovene, a Cesare Pavese e ad altri. Lo ricevette. Montale gli consigliò, per Herman Melville, il Billy Budd. E lo tradusse su un’edizione, che anni dopo scoprì non «del tutto ineccepibile». Facevano come potevano, con i dizionari che avevano, «quasi disarmati — dirà Montale — di fronte allo slang».
Il progetto ormai era avviato: da Washington Irving all’italo-americano John Fante (vivente), passando per i Poe, James, Fitzgerald, Faulkner, la mappa del «gigantesco teatro» stava componendosi, sarebbe arrivata a quel pubblico che voleva essere «americano al cento per cento».
Ma fecero prima ad uscire due romanzi italiani, figli di quella visione americana di «felicità» e «barbarie»: la ricerca della «terra promessa» in Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini e la rivisitazione in chiave di primitivo e selvaggio delle Langhe in Paesi tuoi di Pavese.
Cos’era accaduto ad Americana? Il libro, già in bozze, nel ’41 non riusciva ad avere il «visto si stampi» dal ministero della Cultura popolare. Alessandro Pavolini, allora responsabile, non riteneva il caso di fare una cortesia all’America. Scriveva a Bompiani: «L’opera è assai pregevole per il criterio critico della scelta e dell’informazione e per tutta la presentazione. Resto però del mio parere, e cioè che l’uscita — in questo momento — dell’antologia americana sia inopportuna. Gli Stati Uniti sono potenzialmente nostri nemici...».
Vittorini e Bompiani cercarono in tutti i modi di ottenere il permesso d’uscita. «Si capisce — ha scritto Claudio Gorlier — allora perché Americana provocasse le reazioni della censura del regime sia per ciò che rappresentava di alternativo, di controcultura, sia perché recava le tracce di una ricerca d’identità detonata, magari in modo ambiguo e scomposto, all’interno del fascismo e del suo apparente consenso, ponendo a nudo il vuoto della sottocultura fascista».
Nel ’42 una «scappatoia» venne trovata. Emilio Cecchi avrebbe dovuto stendere una nuova prefazione, si sarebbero tolte introduzioni, note, fotografie di Elio Vittorini. L’avallo di un accademico d’Italia, premio Mussolini, come Cecchi, avrebbe chiuso gli occhi alla censura. Cecchi, che — non dimentichiamolo — era stato tra i firmatari del manifesto antifascista di Croce, accettò. E gli fu poi rimproverato. Eppure fu l’unico modo, Vittorini e Bompiani d’accordo, perché nel ’42 Americana uscisse in libreria.
Certo l’introduzione di Emilio Cecchi non aveva gli «astratti furori» di quella di Vittorini. Ma Cecchi in America c’era stato, non mitizza, coglie novità e limiti dell’operazione, distingue autori che gli piacciono, come Henry James, da scrittori d’occasione come John Fante, sottolinea i pericoli dei «copisti», dei sottoprodotti di Hemingway, sottovalutando scrittori come Bierce e Crane, ma con l’onestà critica e intellettuale di uno studioso che conosce l’America di cui sta parlando.
Quando uscì Americana fece comunque grande impressione. Umberto Eco poco tempo fa ha scritto: «Americana era un libro multimediale... circolò e produsse una nuova cultura. Anche senza le pagine di Vittorini, la stessa struttura dell’antologia agì come un discorso. Il montaggio era il messaggio. Lo stesso modo, criticabilissimo, in cui gli americani erano tradotti, produsse un nuovo senso della lingua». E Beniamino Placido, che allora aveva dodici anni, ma che vedeva gli avvocati del suo paese leggere Piccolo campo o Furore, ricorda la testimonianza di un deputato comunista che aveva letto, allora, gli autori americani. Gli disse: «Lei si ricorda come comincia Furore di Steinbeck? “Un camion si fermò, e dal tubo di scappamento uscì un fumo azzurrino”. Ebbene, lei deve sapere che in quegli anni, nella letteratura italiana, non c’erano mai camion. Se c’erano non si parlava mai del loro tubo di scappamento, non lo si faceva mai per dire che emetteva fumo. Non c’era fumo nella letteratura italiana sotto il fascismo». E Bompiani, anni dopo, parlando del messaggio cosi esplosivo di quell’antologia disse che era dovuta a «la minuzia, la semplicità, la quotidianità, totalmente assenti nel frammentismo e nell’ermetismo ai quali si erano ridotte la letteratura e la poesia italiana».


“Tuttolibri La Stampa”, 24 novembre 1984

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