14.9.15

Zeno Saltini, prete. Una vita per i diritti dei più (Marco Dotti)

Don Zeno Saltini, 1945
Le forme della prepolitica nella lunga lotta di don Zeno
«Chi ha i soldi da una parte, chi non ne ha dall'altra». Un messaggio chiaro, che tutti potevano capire. «Fê du mucc. Fate due mucchi» e poi, concludeva don Zeno Saltini, prenderemo a contarci. Sarà allora evidente chi è maggioranza e chi no, chi possiede e chi è posseduto, chi non ha pane e chi invece ha i granai pieni e attende solo che il prezzo salga per speculare ancora e speculare di più. L'oppresso e gli oppressori, l'affamato e chi lo affama, il servo, il padrone e poi la retorica dell'esser liberi, quando la servitù non è più un vantaggio per gli uni, ma continua a essere un peso, sotto altri nomi e forme, per gli altri, quelli che arrivano comunque ultimi o a corsa finita. Una storia semplice, forse ingenua - ma non troppo, se è sempre alla struttura elementare di questa storia che si torna, finita la festa. Finita la nostra, di festa, scopriamo che don Zeno Saltini ha ancora molto da dire. Le sue tracce concrete, frutto di una passione che ha saputo farsi azione, si inscrivono forse in un futuro che vorremmo nostro e per il quale già proviamo nostalgia.

Le soluzioni dei poveri
Affermava don Zeno: «Ecco il mio consiglio. L'Italia è un pero che fa delle prugne, perché siamo il 99% poveri e finiamo per avere un governo che protegge i capitalisti. Facciamo due mucchi, i poveri da una parte e quelli con i quattrini dall'altra. Poi si va al potere con la maggioranza semplice del programma: fare gli interessi dei poveri. Siamo tutti poveri e troveremo le soluzioni. E se gli altri dicono: non siete mica capaci di amministrarvi. Risponderemo: come ci avete amministrato voi ci riusciamo comunque anche noi. Lo vedono tutti cosa avete combinato». Don Zeno amava parlare di politica, ma anche - con un termine che fu tra i primi a usare - di prepolitica, ossia di tutto ciò che la precede e, incontenibile nelle vecchie forme, ne cerca di nuove. Magari mancandole, magari sbagliandole, ma le cerca.
Il 5 maggio del 1945, a mezzogiorno in punto, dal balcone del palazzo comunale di Carpi a pronunciare queste parole non era solo il prete che aveva trasformato una frazioncina della Bassa modenese, San Giacomo Roncole, poche centinaia di abitanti, in un vero laboratorio di comunità, raccogliendo ragazzi abbandonati, respinti ai margini e orfani attorno all'Opera Piccoli Apostoli da lui fondata dodici anni prima. Zeno Saltini, nato a Fossoli nel pomeriggio del 30 agosto del 1900, nono figlio in una famiglia patriarcale di possidenti terrieri, sacerdote dal 1931, era anche un «vicesindaco» essendosi insediato in ragione della nomina decretata dal Comitato di Liberazione Nazionale di Mirandola. Neanche il tempo di riambientarsi, dopo essere rientrato dalla zona libera dove si era nottetempo rifugiato, per sottrarsi al Tribunale Militare, e don Zeno si affrettò a dar vita a una commissione comunale per l'assegnazione degli alloggi nel comune di Mirandola, assumendone la presidenza e provvedendo a sistemare in ville coloniche, nell'ex Casa del Fascio e persino nella vecchia caserma della Milizia, restaurata dai suoi ragazzi, i numerosi senza tetto che gli chiedevano aiuto. Non ultimo, ma ultimo della lista - «per non dare l'idea che qui ci siano privilegiati» - il presidente dello stesso Cln mirandolese.

Mediazioni ex post
Nel secondo dopoguerra, come già era avvenuto nel primo, don Zeno è un vulcano in piena: progetta di istituire a San Giacomo una scuola di cinematografia, un liceo, un'università popolare e un'università vera e propria, ma questa solo «in un secondo tempo», quando si saranno gettate le basi di una società nuova, e progetta persino di dar vita a un movimento di democrazia diretta e di fratellanza universale. Cosa che, ovviamente, non fu vista di buon grado da molti esponenti del clero, anche se molti altri lo seguono, non foss'altro per la sua capacità di parlare a tutti, comunisti compresi, riempiendo piazze, chiese e quel cinematografo che, negli anni più bui del regime, gli era servito per rompere la retorica dominante, con film americani e dibattiti nemmeno velatemente antifascisti. «Abbasso i preti, tranne don Zeno», aveva scritto qualcuno su un muro di Modena. E sull'Unità, il 4 agosto del 1945, apparve un articolo, firmato «Stella Rossa», che dopo duri attacchi al clero concludeva: «don Zeno ci piace». Ma don Zeno non piaceva a tutti. Tra i comunisti era pur sempre un prete, tra i preti era in sospetto di comunismo mistico-evangelico, ma lui non si lamentava, «si vede che ho qualcosa da dire a tutti e tutti hanno qualcosa da dire a me». «Testa calda», «tribuno», «sovversivo» - lo definiranno parroci e prelati della zona, indisposti verso quell'uomo dalla non comune capacità di attrarre con un'oratoria raffinata e schietta, ancorché velata di dialetto e anacoluti, e dai metodi spicci. Tratto caratteristico dell'azione di don Zeno fu sempre quello di mettere le autorità dinanzi al fatto compiuto, attendendo e operando ex post la mediazione. Anche questo, va da sé, non piaceva.
Dai suoi studi in teologia, don Zeno aveva imparato che «le opere sono di Dio, le parole di Satana e nel giorno del redde rationem» dovremo rendere conto di quanto non abbiamo fatto al pari di quanto abbiamo fatto, mentre dalla sua laurea in giurisprudenza seppure presa con voto basso, 75/110, nel 1929 alla Cattolica di Milano, l'avvocato Saltini aveva tratto una passione per la sostanza materiale e le forme vive del diritto. Quel diritto degli ultimi, che spesso poggia su residui di ordinamenti consuetudinari in frantumi, che aveva appassionato anche il giovane Marx.
Lo stato di necessità, per don Zeno, legittima la rottura delle forme. Sia che si trattasse di celebrare la prima messa, appena ordinato sacerdote, facendosi accompagnare nel Duomo di Carpi - era il 1931 - da un ragazzo appena uscito di galera che diventerà il primo dei suoi «figli», sia che si dovessero affrontare Scelba, Montini, un questurino qualsiasi o De Gasperi, oppure contestare il fisco che con lui non fu mai clemente, in tutti i casi, don Zeno sembrava animato da una convinzione certa: il mondo è diviso in due, non c'è terza via. Chi ha fame ha fame e non può aspettare che la fortuna arrivi dal cielo, la fortuna te la devi prendere, ma con giustizia anche quando giustizia significa rompere uno stato di fatto. Ma per la giustizia, osservava, occorrono «libertà, eguaglianza, fraternità». Le stesse parole che chi lo seguiva - e furono tanti, in una vita che taglia il secolo - scrisse sulle schede elettorali, quando don Zeno invitò i suoi a annullarle alle amministrative del 10 giugno 1951, facendo perdere voti alla Democrazia cristiana e ottenendo un'eco nazionale.
Scrisse Anna Maria Ortese: «Non era un prete, ma qualcosa di più. Non era un politico, malgrado avesse attaccato così arditamente fatti e persone del governo; né un diplomatico, perché aveva perduto tutto. Un educatore neppure, perché la sua rude semplicità glielo impediva. Ci chiedevamo segretamente a chi e a che cosa somigliasse, chi fosse in realtà quest'uomo buono, leale, impulsivo, legato da un amore così appassionato a una famiglia così diversa da lui: lui così vivo, generoso, tenero, la testa piena di sogni, e i figli così scialbi, prudenti, duri. Ma definirlo era difficile».

Tedescofobo e antifascista
«Se il Cristianesimo fosse quello predicato dalla Democrazia Cristiana, io sarei o ebreo o ateo», ribadiva don Zeno. Un partito di ispirazione cristiana, così come si stava sempre più configurando nella DC, gli sembrava d'altronde un pro forma e la veste da prete - «la cornice, il Vangelo è la sostanza», ma d'altronde lui in seminario c'era stato solo dodici mesi - non gli poteva certo impedire di denunciare che, dietro quello che veniva allora definito il male minore, rispetto al pericolo rosso, si configurasse «il beneficio migliore per i capitalisti». Fê du mucc, appunto. Chi è di qua e chi è di là, non c'è via di mezzo, anche quando le cose sono complesse, difficili, ostiche la scelta etica è sempre possibile.
La Prefettura di Modena lo conosceva bene e conosceva le sue testarde intemperanze, contro le quali aveva cozzato a più riprese, avendolo schedato da tempo. In una nota del 31 gennaio 1944, firmata dal commissario di Mirandola Alberto Paltrinieri si legge infatti: «L'attività del clero fiancheggia in linea di massima quella delle autorità locali. Solo don Zeno Saltini, curato di S. Giacomo Roncole, specialmente nell'infausto periodo 25 luglio - 8 settembre '43, si è dimostrato tedescofobo ed antifascista». Il 30 luglio del '43, d'altronde, don Zeno era stato tratto in arresto, per la pubblicazione di una dura critica al Regime formalmente caduto da cinque giorni. Critica apparsa sul suo giornalino Piccoli Apostoli.
«Un governo poliziesco è destinato al fallimento», aveva scritto in una lettera contro il perdurante divieto di assembramento e riunione, inviata tre giorni prima al generale Matteo Negro, comandante a Modena, che voleva continuare a mantenere un ordine già morto, minacciando di aprire indiscriminatamente il fuoco su qualsiasi drappello «sedizioso» composto da più di tre persone. Nel frattempo, la sua comunità cresceva e non bastavano più le vecchie stanze del Casinone, a San Giovanni, per contenere tutti quelli che chiedevano un tetto o da mangiare. La guerra volgeva alla fine, ma per la fame non era certo tempo di armistizio.
Il 19 maggio del 1947, la grande decisione. Con fanfare e tamburi e cineprese al seguito don Zeno si mise in testa a una strana processione, diretta verso l'ex campo di concentramento Fossoli per una nuova sfida: rendere abitabile l'inabitabile, bonificare l'orrore. I ragazzi di don Zeno tagliarono le reti e il filo spinato, abbatterono i muri, scavarono e spalarono e infine occuparono, dopo un lungo lavoro appena «tollerato» dalla autorità, l'ex campo di concentramento nel quale si trovavano reclusi oramai solo pochi «indesiderati».

In nome della fraternità
Ricorderà don Zeno: «La mattina del 19 maggio abbiamo formato una piccola autocolonna. In testa c'era il camion con la banda musicale, poi altre macchine e corriere prese a noleggio. Io li avevo preceduti. Quando l'autocolonna è arrivata davanti all'ingresso la banda ha cominciato a suonare e il poliziotto di guardia ha aperto. Mica abbiamo spinto noialtri il portone. Entra dunque il camion con questi ragazzi che suonano e le guardie sono andate a prende i ragazzini più piccoli, a prenderli sulle spalle e tutti i prigionieri, al di là dal muro e sui tetti a guardare e applaudire». A cose fatte, sempre a cose fatte, Zeno scriverà al capo della Polizia, annunciandogli: «Ho ritenuto immorale lasciare ancora per un giorno tanti figli d'Italia in così pietose condizioni di abbandono». Come dire: il dado è tratto.
Dopo mesi di richieste, di anticamera, di pratiche burocratiche e burocratiche attese, ancora una volta don Zeno decide di fare da sé, fondando Nomadelfia, una città dove non la burocrazia, non l'astratta libertà, non la ricchezza, non la finta eguaglianza, ma «la fraternità è legge». Un nome splendido, commenterà Guido Calogero sul Mondo, un nome che compare per la prima volta in uno scritto di Saltini del 22 maggio del 1947.
Fraternità e legge inscritte nel nome vennero sancite da una costituzione, approvata il 14 febbraio del 1948, un mese e mezzo dopo l'entrata in vigore di quella repubblicana. La Costituzione di Nomadelfia venne approvata e firmata sull'altare da tutti i membri di una comunità che si stava sempre più ingrandendo e presto avrebbe accolto centinaia di «scartini», i ragazzi dei brefotrofi che nessuno voleva in adozione ai quali don Zeno, le famiglie e le mamme per vocazione - donne che accoglievano come figli propri i ragazzi - diedero «dignità di popolo». Senza denaro, a Nomadelfia si usavano i «Tis», titoli interni di scambio, non c'era proprietà privata, si lavorava e si studiava in comune e la comunità raggiunse in poco tempo i 1600 cittadini. Si può vivere senza denaro e il popolo di Nomadelfia era lì a dimostrarlo.

La resa dei conti
Nel 1951, sulla comunità - presto smantellata, ma pronta a rinascere in Maremma, nella sua sede attuale, dove nel '49 era andato in avanscoperta un giovane architetto di nome Danilo Dolci - e don Zeno iniziarono ad abbattersi colpi durissimi. Era la resa dei conti. Un processo per millantato credito, truffa, peculato, firma di assegni a vuoto lo ridurrà allo stato laicale per anni, anche se poi verrà completamente assolto. Io non so, scriverà all'onorevole Scelba, se lei «abbia mai pensato che è finita una guerra e gli uomini hanno creato gli stati nella speranza di una libertà. Non so se l'on. Scelba sappia che i Piccoli Apostoli nel 1943 si sono buttati nella lotta per conquistare questo diritto di libertà; e che sono stati impiccati, fucilati, sette dei nostri, tra i quali don Monari che era sacerdote, e dei giovani di 16 e 17 anni. Non so se l'on. Scelba sappia che noi, durante il fascismo, siamo stati combattuti e che nessuno è riuscito a scioglierci; e che - nonostante il decreto di scioglimento della prefettura di Modena - da quel giorno, anni dopo anno, ci siamo trovati raddoppiati». Ma nemmeno per don Zeno la guerra era finita.
Don Zeno Saltini si spegnerà nella sua nuova Nomadelfia, nei pressi di Grosseto, il 15 gennaio 1981. «Fê du mucc. Fate due mucchi». Noi sappiamo in quale dei due mucchi ha vissuto, per quale dei due mucchi ha sperato, per quale dei due ha lottato e pagato un prezzo molto alto. Ma ne valeva la pena.



“il manifesto”, 17 agosto 2012 – Nella serie Coni d'ombra, dedicata ad autori e figure da ritrovare

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