3.10.15

Curzio Malaparte nella Russia del primo Stalin (Giancarlo Mancini)

"Il ballo al Kremlino", un reportage con ambizioni romanzesche
Anche nelle premesse iniziali, le ragioni del viaggio di Curzio Malaparte nella Russia degli anni venti erano molto diverse da quelle dei molti scrittori, da Gide a Malraux, che si affacciavano nella neonata terra dei Soviet per rendersi conto coi propri occhi a che punto fosse la costruzione del socialismo. Allo scrittore toscano interessava vedere, attraverso la nuova classe al potere, verso quale futuro si stesse incamminando la Russia. I capi di protocollo, i funzionari di partito, le mogli di esponenti più o meno in vista sono i protagonisti de Il ballo al Kremlino (a cura di Raffaella Rodondi, Adelphi), che esce ora per la prima volta dopo la pubblicazione ('71) nel volume dedicato agli inediti delle Opere complete curate per Vallecchi da Enrico Falqui.
Concepito attorno al '45, dentro l'officina de La Pelle, questo romanzo doveva essere il terzo pannello di un affresco sulla decadenza dell'Europa prima sotto il dominio dei tedeschi (Kaputt), poi sotto quello americano (La pelle), infine sotto quello sovietico, ancora eventuale ma da molti paventato. Da quel viaggio compiuto nel '29 nella Russia alle soglie del primo piano quinquennale, segnata dalla ormai definitiva vittoria di Stalin sulla troika Zinoviev-Kamenev-Trotzki, Malaparte aveva già tratto materiali per Tecnica del colpo di stato e Intelligenza di Lenin. Il ballo al Kremlino è dunque quello che più naturalmente si presta a essere letto come resoconto di viaggio, essendo costruito attorno a una serie di ritratti e incontri che diventano lunghe sequenze quasi del tutto autonome. Dalla prima al Gran teatro dell'Opera, dove Stalin si reca ogni sera per ammirare dal buio del suo palchetto le caviglie della Semionowa, alla casa di Majakovskij, visitata con il permesso speciale del Commissario del popolo per l'Istruzione Anatolij Lunacarskij appena qualche ora dopo il suo suicidio, agli sdruciti mercatini nei quali l'antica aristocrazia zarista mette in vendita i rimasugli dell'antica opulenza sperando di poter tirare a campare.
Ciononostante sono passati quindici anni e più dai giorni di quel viaggio e questo rende sostanzialmente impensabile poterlo definire un mero resoconto, nonostante il tono impressionistico di molti squarci moscoviti. «Ciò che fa di questo romanzo - scrive l'autore nella prefazione - non una cronaca di corte nel gusto francese del XVIII secolo, non un libro di Memorie alla Saint-Simon, o un libro di moralités alla Montaigne, ma un romanzo nel senso proustiano (non in quanto allo stile, ma in quanto a quel senso acuto del désintéressement, che fu proprio dei romanzi e dei personaggi di Marcel Proust), è il fatto che i fatti e le persone, gli episodi di questa “cronaca di corte" sono legati da una fatalità che li convoglia tutti verso un fine unico, verso uno scioglimento romanzesco».
Malaparte ha a cuore una tesi e vuole renderla chiara sin dagli ultimi anni di guerra, quando inizia a mettere mano alle opere maggiori: l'incredulità, dopo il fallimento dei fascismi che volevano conquistare l'Europa per scagliarla tutta intera contro il nemico sovietico, tanto verso gli americani sbarcati in forze quanto infine verso i russi. Contrasta col cammino predeterminato al quale a un certo punto si capisce debbano essere piegate certe pagine, la freschezza di altre: come la passeggiata nel mercato dei vecchi zaristi, con Malaparte che si offre di portare sulle spalle la poltrona che il vecchio Lvov, l'ultimo presidente della Duma, vorrebbe vendere per tirare su qualche rublo. Mentre di dubbio effetto risulta la chiacchierata con Lu-nacarskij su Majakovskij, presto pie-gatain dissertazione su Dio e il popolo russo.
Come aveva avvertito lo stesso autore, è piuttosto scoperto il riferimento alla Recherche. A parte l'attenzione nel descrivere i futili bisogni delle nuove dame, è la strutturazione circolare dell'opera, seppur rimasta incompiuta, a segnare il rimando al capolavoro proustiano. Nel Ballo tuttavia è assente per stessa ammissione dell'autore il «piano morale», e al suo posto il cinico irrazionalismo malapartiano si agita in troppo larghe anse, portandolo a lunghi, estenuanti brani in cui si discetta piuttosto vacuamente, alla russa, degli universali. O si accusa Trotzki di essersi messo alla testa della parte più corrotta della dirigenza sovietica.


alias talpa – il manfesto”, 6 gennaio 2013

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